PADRE NOSTRO CHE SEI NEI CIELI. La formula della preghiera cristiana,
insegnata da Gesù Cristo, è di tale tenore che, prima di recitare le
invocazioni di domanda, propone come proemio alcune parole, con le
quali, nell'atto di accedere devotamente a Dio, esprimiamo con più calda
fiducia le nostre richieste. È dovere del parroco spiegare distintamente
e con chiarezza tali parole, affinché il popolo credente si disponga più
alacremente alla preghiera sapendo di rivolgersi direttamente a Dio come
Padre. Tale proemio, brevissimo per le parole che lo compongono, è
importantissimo e pieno di misteri per il suo contenuto.
370. Il nome di "Padre"
conviene a Dio per molte ragioni
PADRE. È la prima parola
di questa Orazione, per espresso comando e istituzione di Dio. Il nostro
Salvatore, in verità, avrebbe potuto premettere un vocabolo più
maestoso, per esempio quello di "Creatore" o "Signore". Volle invece
eliminare ogni termine capace di incuterci timore e scelse quello che
ispira amore e fiducia a quanti si rivolgono a Dio con la preghiera.
Quale appellativo più grato che quello di Padre? Esso suona unicamente
indulgenza e amore. Per indicare poi le ragioni che giustificano
l'applicazione del nome di Padre a Dio, basterà ricordare la creazione,
la provvidenza e la redenzione.
Anzitutto, Dio creò
l'uomo a sua immagine, cosa che non fece con gli altri animali.
Avendo di così insigne
privilegio dotato l'uomo, propriamente egli viene chiamato nelle Sacre
Scritture "Padre" di tutti gli uomini e non solo dei credenti, ma anche
degli infedeli.
In secondo luogo, per il fatto che Dio provvede e dispone il tutto per
il vantaggio degli uomini, egli, con la speciale manifestazione della
sua provvidenza e della sua cura, ci rivela l'amore paterno. Ma,
affinché dalla spiegazione di questo argomento, appaia più limpida la
cura paterna che Dio ha degli uomini, sembra opportuno dire qualcosa
sulla custodia degli Angeli, sotto la cui tutela si trovano gli uomini.
Per divino volere è affidato agli Angeli il compito di custodire il
genere umano, e di vegliare al fianco di ogni individuo, affinché non lo
colpisca troppo grave danno.
Come i genitori scelgono delle guide e dei sorveglianti per i figliuoli
che affrontano un viaggio per un sentiero pericoloso ed insidioso, cosi
il Padre celeste, nella via che mena alla patria dei cieli, assegno a
ciascuno di noi degli Angeli, perché noi fiancheggiati dal loro solerte
appoggio, evitassimo i tranelli tesi dal nemico, respingessimo i suoi
temibili attacchi sotto la loro guida, non smarrissimo la retta strada e
nessun inganno tramato dall'avversario insidioso, ci spingesse lungi dal
cammino che mena al paradiso.
Quanto sia preziosa questa singolare cura e provvidenza di Dio per gli
uomini, affidata al ministero degli Angeli, la cui natura appare
intermedia fra quella di Dio e quella degli uomini, emerge dai copiosi
esempi delle divine Scritture. Esse attestano come, spesso, per benigno
volere di Dio, gli Angeli compirono gesta mirabili al cospetto degli
uomini. Tali esempi ci fanno persuasi che innumerevoli atti del medesimo
genere sono compiuti dagli Angeli, tutori della nostra salvezza,
utilmente e beneficamente, per quanto fuori della percezione dei nostri
occhi.
L'angelo Raffaele, ad esempio, per volere divino unitosi quale compagno
e guida nel viaggio a Tobia, lo condusse e ricondusse incolume (Tb
5,5). Lo salvo dalla voracità del pesce smisurato, mostrando poi
tutte le virtù contenute nel fegato, nel fiele e nel cuore di esso (Tb
6,2). Cacciò il demonio, e, vincolatane la forza, fece si che non
nuocesse a Tobia (Tb 8,3). Fu l'angelo Raffaele che ammaestro
Tobia sui doveri del matrimonio (Tb 8,4-16). Infine ridono la
vista al padre di Tobia (Tb 11,8-15).
Similmente l'Angelo che libero il Principe degli Apostoli, offre bene il
destro per istruire il pio gregge circa i mirabili frutti della
vigilanza e della custodia angelica. Potranno i Parroci evocare la
figura dell'Angelo che scende a illuminare le tenebre del carcere, che
desta Pietro dal sonno toccandolo al fianco, scioglie le catene, spezza
i vincoli, impone di seguirlo, dopo avergli fatto prendere i calzari e
gli indumenti; e ricordare come, dopo aver fatto uscire libero Pietro
dal carcere in mezzo alle sentinelle, aprendo la porta, lo condusse in
luogo sicuro (Ac 12).
Numerosi sono gli esempi di questo genere, come abbiamo detto, che la
Storia sacra registra. Da essi noi comprendiamo quanto inestimabile sia
la copia dei benefici che Dio conferisce agli uomini servendosi degli
Angeli come di intermediari e messaggeri, inviati non già in una
determinata e speciale circostanza, ma preposti alla nostra sorveglianza
dal primo nostro anelito, e incaricati di favorire la salvezza di
ciascuno. La diligenza posta nella delucidazione di tale dottrina
sortirà il benefico effetto di sollevare gli spiriti degli ascoltatori,
stimolandoli al riconoscimento e alla venerazione della potenza e della
provvidenziale cura di Dio per loro.
A questo proposito, il Parroco esalterà e rileverà le ricchezze della
divina misericordia verso il genere umano. Fin dal tempo del progenitore
della nostra schiatta e del suo peccato, noi non abbiamo mai cessato di
offendere Dio con scelleratezze innumerevoli; ma Egli conserva tuttora
il suo affetto per noi, né si stanca di esercitare assidua cura di noi.
Chi ritenga Dio capace di dimenticare gli uomini, è un folle che lancia
contro di lui una volgarissima ingiuria. Dio si sdegno con Israele che
aveva bestemmiato d'essere stato abbandonato dal soccorso celeste. Sta
scritto infatti nell'Esodo: Misero a prova il Signore, domandando:
Abbiamo, o no, Dio con noi? (Ex 17,7). E in Ezechiele leggiamo
che Dio si adiro col medesimo popolo, avendo questo mormorato: Dio non
ci guarda più, il Signore lasciò a sé stessa la terra (Ez 8,12).
Col ricordo di queste testimonianze i fedeli saranno tenuti lontani
dalla riprovevole supposizione che Dio possa dimenticarsi degli uomini.
Bisogna in proposito ricordare il lamento elevato contro Dio dal popolo
d'Israele, presso Isaia, e la benevola similitudine con cui Dio ribatte
la stolta recriminazione. Vi si legge infatti: Sion ha detto: Il Signore
mi ha abbandonata, il Signore mi ha dimenticata (Is 49,14). Ma
Dio risponde: Può una donna dimenticare la sua creatura; non aver pietà
del figlio del suo ventre? E se anche quella se ne dimenticasse, io però
non mi dimenticherò di te. Ecco, io ti porto scritta nelle mie mani (Is
49,15-16).
A persuadere profondamente il popolo fedele di questa verità, per quanto
dai passi citati essa venga pienamente confermata, che cioè nessun tempo
potrà mai sopraggiungere in cui Dio perda il ricordo degli uomini e
cessi di impartire loro i benefici della sua paterna carità, i Parroci
lo comproveranno col luminoso esempio dei progenitori. Tu sai che essi,
per aver trascurato e violato il comando di Dio, furono acerbamente
giudicati e condannati con la terribile sentenza: Maledetta sia la terra
nel tuo lavoro; nelle fatiche di tutti i giorni della vita mangerai i
prodotti di essa: Spine e triboli produrrà per te, e tu mangerai le erbe
dei campi (Gn 3,17). Tu li vedi espulsi dal paradiso e, perché
perdano ogni speranza di ritorno, leggi esservi stato posto un Cherubino
alla porta, vibrante in mano una spada di fuoco (Gn 3,24). Allora
comprendi che essi sono stati afflitti da mali interni ed esterni per
volontà di Dio che si vendica dell'ingiuria fatta a lui, e crederesti
che sia finita per l'uomo; e pensi forse che non solo egli sia privato
dell'assistenza divina, ma che anche sia esposto a mali d'ogni genere.
Eppure, in cosi grandi manifestazioni dell'ira divina, è apparsa agli
uomini, nei segni del castigo, la luce della divina misericordia.
Infatti, il Signore Iddio fece delle tuniche di pelle a Adamo ed alla
sua moglie e li vesti (Gn 3,21); questa fu la grande prova che
mai, in nessun tempo, l'aiuto di Dio sarebbe mancato agli uomini.
Tutta la forza di questa verità, che cioè l'amore di Dio non si
esaurisce per qualsiasi offesa degli uomini, David la espresse con le
parole: Ha forse Dio trattenuto gli atti della sua misericordia
nell'ira? (Ps 76,10). E Abacuc espose lo stesso concetto,
allorché disse a Dio: Quando tu sarai irato, ricordati di essere
misericordioso (Ha 3,2). La stessa verità manifesto Michea
dicendo: Quale Dio è simile a te, che perdoni all'iniquità, e passi
sopra ai peccati dei resti della tua eredità? Egli non conserva a lungo
la sua ira, poiché vuole essere misericordioso (Mi 7,18).
Generalmente avviene che quanto più noi ci stimiamo perduti e privi del
soccorso di Dio, tanto più Dio ha compassione di noi, per la sua bontà
infinita, e ci assiste; trattiene nell'ira la spada della giustizia, e
non cessa di spargere i tesori inesauribili della sua misericordia.
Molto efficacemente, dunque, la creazione e il governo del mondo provano
la volontà di Dio di amare e di proteggere il genere umano. Tuttavia,
tra le due opere sopraddette emerge talmente l'opera della redenzione
degli uomini che, sopratutto, con questo beneficio, Dio, sommo
benefattore e padre nostro, manifesta la sua benignità verso di noi.
Il Parroco, davanti ai suoi figli spirituali, insegni e richiami
continuamente alla memoria questa primissima prova della carità di Dio
verso noi, sicché capiscano come essi, essendo redenti, sono in modo
ammirabile diventati figli di Dio. Cosi, infatti, scrive s. Giovanni:
Diede loro la potestà di diventare figli di Dio, e da Dio sono nati (Jn
1,12). Perciò il battesimo, primo pegno e segno della nostra
redenzione, si chiama il sacramento della rigenerazione: per esso, noi
nasciamo figli di Dio, come il Signore medesimo ha detto: Quel che è
nato dallo spirito è spirito (Jn 3,6); ed ancora: E necessario
che voi nasciate di nuovo (Jn 3,3). Cosi pure l'apostolo Pietro:
Siete rinati non da seme corruttibile, ma incorruttibile, per la parola
del Dio vivente (1P 1,23).
In virtù di questa redenzione, noi abbiamo ricevuto lo Spirito santo e
ci siamo arricchiti della grazia di Dio. Per questo dono Dio ci ha
adottati come suoi figli, secondo le parole dell'apostolo Paolo ai
Romani: Voi non avete di nuovo ricevuto lo spirito di schiavitù, per
vivere nel timore, ma lo spirito di adozione a figli, per il quale noi
gridiamo: Abbà, Padre (Rm 8,15). Questa potente efficacia
dell'adozione, san Giovanni la espone chiaramente in questo modo: Vedete
quale prova d'amore diede a noi il Padre, tanto che noi ci chiamiamo e
siamo figli di Dio (3,1).
A Dio Padre Creatore, Governatore, Redentore,
sono dovuti amore, devozione, riverenza
371. Esposte queste verità, si deve mostrare al popolo fedele che
cosa in cambio egli debba a Dio, Padre amorosissimo, per far capire
quale devoto amore e quanta reverente obbedienza bisogna nutrire verso
il nostro Creatore, Governatore e Redentore, e con quanta fiduciosa
speranza si debba invocare.
Sarà necessario togliere l'ignoranza e correggere la perversità di
giudizio di coloro i quali pensano che soltanto la fortuna favorevole e
il prospero corso della vita sono la prova che Dio ci conserva il suo
amore, mentre, l'avversa fortuna e le calamità con le quali siamo da Dio
provati, sarebbero segno di animo ostile e addirittura di allontanamento
da noi dell'attenzione divina.
Dovremo allora dimostrare che, quando la mano del Signore ci percuote (Jb
19,21), non lo fa per inimicizia; percuotendoci ci sana (Dt 32,39),
ed è salutare la piaga che ci viene da Dio.
Egli, infatti, castiga quelli che peccano, perché l'esperienza li faccia
diventare migliori e, col castigo presente, li redime dalla morte
eterna. Con la verga visita le nostre iniquità, e i nostri peccati con
le percosse, ma non ci toglie la sua misericordia (Ps 83,33). Si
devono quindi ammonire i fedeli a riconoscere nel castigo il paterno
amore di Dio, e ad avere sempre vivo, nel cuore e sulle labbra, il
ricordo di quel detto del pazientissimo Giobbe: Egli ferisce e risana; e
se percuote, le sue mani saneranno (Jb 5,18). Si devono incitare
i fedeli a considerare come detto per essi ciò che scrisse Geremia del
popolo Israelitico: Tu mi hai castigato, ed io sono stato ammaestrato,
quasi giovenco indomito; convertimi, ed io sarò convertito; poiché tu
sei il Signore mio Dio (Jr 31,18).
Tengano sempre presente alla coscienza l'esempio di Tobia, il quale,
nella piaga della cecità riconoscendo la paterna mano di Dio, esclamo:
Benedico te, Signore Dio d'Israele, poiché tu mi hai castigato, e tu mi
hai salvato (Tb 11,17). In modo speciale, si guardino i fedeli da
qualsiasi contrarietà siano angustiati e da qualsivoglia calamità siano
afflitti, dal credere che Dio non lo sappia. Egli stesso dice: Non un
capello del vostro capo perirà (Lc 21,12). Anzi, attingano
conforto dall'oracolo divino, espresso nell'Apocalisse: Coloro che amo,
io li rimprovero e li castigo (Ap 3,23).
Trovino pace nell'esortazione dell'Apostolo agli Ebrei: Figlio, non
trascurare l'insegnamento del Signore; non ti abbattere se sarai ripreso
da lui; poiché Dio castiga colui che ama; flagella tutti i figli che
accoglie. Che se voi vi terrete fuori della sua legge, sarete bastardi,
non figli. Avemmo padri educatori della nostra carne, e li abbiamo
rispettati; quanto più non ubbidiremo al Padre degli spiriti, e vivremo?
(12,5).
Con la parola
'nostro' si ricorda ai fedeli
che essi sono tutti fratelli
372.
Nostro. Quando ognuno di noi anche privatamente invoca il Padre,
chiamandolo nostro, viene avvertito che dal dono dell'adozione divina
deriva per tutti i fedeli, necessariamente, la condizione di fratelli, e
il dovere di amarsi fraternamente: Voi siete tutti fratelli: uno solo è
il vostro Padre, che è nei cieli (Mt 23,8). Per cui anche gli
Apostoli, nelle loro Lettere, chiamano fratelli tutti i fedeli. Da ciò
l'altra necessaria conseguenza che, per l'adozione di Dio, non solo i
fedeli sono stretti dal vincolo della fratellanza, ma anche, essendo
uomo il Figlio unico di Dio, essi si chiamino e siano in realtà fratelli
di Cristo. L'Apostolo ha scritto nell'Epistola agli Ebrei, parlando del
Figlio di Dio: Non si vergogno di chiamarli fratelli, quando disse:
Annunzierò il tuo nome ai miei fratelli (He 2,11); parole che
David, tanto tempo prima, aveva attribuito a Cristo Signore (Ps 21,23).
Cristo medesimo, secondo l'evangelista, dice alle donne: Andate,
annunziate ai miei fratelli che vadano in Galilea; là mi vedranno (Mt
28,10). Ora, ciò egli disse quando già risorto dai morti, aveva
conseguito l'immortalità; cosicché nessuno potrà pensare disciolta
questa parentela, in seguito alla sua risurrezione e ascensione al
cielo. Anzi, lungi dal toglierci per questa risurrezione la sua
parentela e l'amore, sappiamo che quando egli dalla sede della sua
maestà e della sua gloria, giudicherà tutti gli uomini di tutti i tempi,
chiamerà col nome di fratelli anche gli infimi tra i fedeli (Mt 25,31).
E come potrebbe avvenire che noi non siamo fratelli di Cristo, se con
lui siamo coeredi? (Rm 8,17). Poiché egli è il Primogenito,
costituito erede universale (He 1,2); ma noi, nati dopo di lui,
siamo coeredi con lui, per l'abbondanza dei doni celesti, e nella misura
della carità con la quale ci offriremo ministri e coadiutori dello
Spirito santo (1Co 3,9).
Dallo Spirito santo siamo incitati alla virtù e alle opere buone; siamo
spronati dalla sua grazia alla lotta coraggiosa per la nostra salvezza,
in modo che, terminata la lotta con sapienza e costanza, al termine di
questa vita riceviamo dal divin Padre il giusto premio della corona (Ap
2,10), assegnato a coloro che avranno seguito la medesima via. Dio,
come dice l'Apostolo, non è ingiusto, né dimentica l'opera nostra e il
nostro amore per lui (He 6,10). Ma noi dobbiamo proferire col
cuore la parola nostro, come spiega san Jn Crisostomo, il quale dice che
Dio ascolta volentieri il cristiano non solo quando questi prega per sé,
ma anche quando prega per il prossimo. Pregare per sé, è naturale; ma è
proprietà della grazia pregare per gli altri; la necessità costringe a
pregare per sé; a pregare per il prossimo ci spinge la carità fraterna.
Aggiunge che a Dio riesce più gradita quella preghiera che la carità
fraterna gli innalza fiduciosa, che quella del fedele spinto dalla
necessità.
Trattando dell'importantissimo argomento della preghiera salutifera, il
Parroco ammonisca ed esorti tutti, di qualunque età, sesso e condizione,
di ricordare la comune fraterna parentela, di agire sempre da buoni
compagni, da fratelli, senza comportarsi con superbia verso gli altri.
Nella Chiesa di Dio vi sono funzioni di grado diverso, ma la varietà dei
gradi e degli uffici non toglie affatto l'unione e il dono della
fraterna parentela, al modo stesso che nel corpo umano il vario uso e la
diversa funzione delle membra non impediscono che questa o quella parte
del corpo perda la sua qualità e il nome di membro.
Pensiamo a uno rivestito della dignità regale; se è fedele, non sarà
forse fratello di tutti coloro che sono uniti nella comunione della fede
Cristiana? Certamente; e perché? Perché i ricchi e i re non furono
creati da un Dio, e i poveri e quelli che dipendono dai re, da un altro:
Dio è uno, Padre e Signore di tutti. E unica dunque la nobiltà
dell'origine spirituale per tutti, unica la dignità, unico lo splendore
della stirpe, poiché tutti per lo stesso spirito, per il medesimo
sacramento della fede, siamo nati figli di Dio, coeredi della medesima
eredità. E come non hanno un Cristo i potenti e i ricchi, e un altro i
più deboli e gli infimi, cosi tutti vengono iniziati non a sacramenti
diversi, né possono sperare per loro diversa eredità nel regno dei
cieli. Siamo tutti fratelli e membra, come dice l'Apostolo agli Efesini,
del corpo di Cristo, fatti della sua carne e delle sue ossa (5,30). Cosi
pure dice nell'Epistola ai Galati: Tutti siete figli di Dio per la fede
in Cristo Gesù; tutti voi, infatti, che siete stati battezzati in
Cristo, vi siete rivestiti di Cristo. Non esiste Giudeo o Greco; non
esiste servo o libero; maschio o femmina; poiché tutti siete un solo
corpo in Cristo Gesù (3,26).
Questa verità i Pastori delle anime dovranno spiegare con cura, e
dovranno appositamente indugiare su questo soggetto; poiché il passo
citato è adatto a incoraggiare e sollevare i poveri e i miseri, non meno
che a rintuzzare e reprimere l'arroganza dei ricchi e dei potenti. A
questo scopo, appunto, l'Apostolo insisteva sulla fraterna carità, e la
inculcava agli orecchi dei fedeli.
Disposizione d'animo nel recitare il Pater noster
373. Quando farai questa preghiera, ricordati, o cristiano, che
ti presenti a Dio come un figlio al padre; quando stai per cominciarla e
dici: Padre nostro, pensa a quale onore la somma bontà divina ti ha
innalzato, si che tu non abbia a presentarti davanti al Signore,
forzatamente e pauroso, come uno schiavo. Invece, cerca rifugio in lui
liberamente, senza apprensioni, come un figlio nel proprio padre. In
questo ricordo e in questo pensiero, considera con quale sentimento e
quale pietà tu debba pregare; adoperati ad essere meritevole della
qualifica di figlio di Dio, in modo che la tua preghiera e le tue
orazioni non siano indegne della stirpe divina alla quale Dio, nella sua
infinita bontà, si degna di farti appartenere. A questo dovere esorta
l'Apostolo quando dice: Siate dunque imitatori di Dio, come figli
amantissimi (Ep 5,1); e si possa veramente dire di noi, ciò che
l'Apostolo scrisse ai Tessalonicesi: Voi tutti siete figli della luce e
figli del giorno (1Th 5,5).
Perché Dio, presente ovunque, è invocato nei cieli
374.
Che sei nei cieli. Per tutti quelli che hanno di Dio una giusta idea, è
certo che Dio si trova dovunque e tra tutte le genti; né ciò si deve
intendere come se egli sia distribuito in parti, delle quali una sia
presente e protegga un determinato luogo, l'altra un altro; Dio è
spirito, e non comporta divisione. Chi oserà circoscrivere la presenza
di Dio entro confini delimitati, ponendolo in un luogo determinato,
quando egli stesso dice di sé: Non occupo forse io cielo e terra? (Jr
23,24). Queste parole si devono a loro volta interpretare nel senso
che cielo, terra, e tutto quello che essi racchiudono, Dio abbraccia
nella sua potenza e nella sua virtù, senza essere egli contenuto in
nessun luogo. Dio è presente in tutte le cose, sia che le crei, sia che
le conservi, mentre non è circoscritto in nessuna regione o limitato da
spazio o da confini, quasi non vi fosse presente o non potesse affermare
ovunque la sua natura e la sua potenza, come disse il santo re David: Se
io salirò in cielo, tu sei là (Ps 138,8).
Eppure, sebbene Dio sia presente in tutti i luoghi e in tutte le cose,
non circoscritto da nessun confine, la sacra Scrittura dice spesso che
il suo soggiorno è in cielo. Ciò si spiega col fatto che, essendo i
cieli al disopra di noi, la parte del mondo nobilissima fra tutte, e
rimanendo essi incorrotti, superiori anche come sono agli altri corpi in
potenza, grandezza e bellezza, e dotati di movimenti regolari e
costanti, per eccitare gli animi dei mortali alla contemplazione
dell'infinita sua potenza e maestà, meravigliosamente risplendente
nell'opera dei cieli, nelle divine Scritture Dio ci dice che egli abita
nei cieli. Spesso però dichiara anche che non c'è parte del mondo che
egli non abbracci con la sua potenza ovunque presente.
Con questo pensiero i fedeli abbiano avanti l'immagine non solo di Dio
padre comune, ma anche di re dei cieli; e si ricordino, quando pregano,
di innalzare la mente e l'animo al cielo. Quanta speranza e fiducia
ispira loro il nome di padre, altrettanta umiltà e pietà deve infondere
in loro la natura sublime e la divina maestà del Padre nostro che è nei
cieli.
Codeste parole determinano anche quello che i fedeli devono chiedere a
Dio. Ogni nostra richiesta, infatti, che riguardi le quotidiane
necessità di questa vita, è vana e indegna di un cristiano se non è in
relazione coi beni del cielo e ordinata a quel fine. Perciò i Parroci
insegnino ai pii ascoltatori questo modo di pregare, appoggiando il loro
insegnamento all'autorità dell'Apostolo, il quale dice: Se siete risorti
con Cristo, chiedete quei beni che sono lassù, dove Cristo siede alla
destra di Dio: gustate i beni celesti, non quelli che sono sulla terra (Col
3,1).
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