Dalla BIBLIOTECA della
CONGREGAZIONE per il CLERO della SANTA SEDE - VATICANO

IL CANTO DELLA LODE
La Liturgia delle Ore

Paolo Giglioni

 1996


 
INTRODUZIONE

«Il sommo sacerdote della nuova ed eterna alleanza, Cristo Gesù, prendendo la natura umana, ha introdotto in questo esilio terrestre quell'inno che viene eternamente cantato nelle sedi celesti. Egli unisce a sé tutta la comunità degli uomini, e se l'associa nell'elevare questo divino canto di lode.

Cristo infatti continua a esercitare questo ufficio sacerdotale per mezzo della sua stessa Chiesa, che loda il Signore incessantemente e intercede per la salvezza del mondo intero, non solo con la celebrazione dell'eucaristia, ma anche in altri modi, specialmente con la recita dell'ufficio divino» (SC 83).

«Il divino Ufficio, secondo l'antica tradizione cristiana, è costituito in modo da santificare tutto il corso del giorno e della notte per mezzo della lode di Dio» (SC 84).

«Perciò tutti coloro che recitano questa preghiera adempiono per un verso l'obbligo della Chiesa e dall'altro partecipano al sommo onore della sposa di Cristo perché, rendendo lode a Dio, stanno davanti al trono di Dio in nome della madre Chiesa» (SC 85)

«Poiché l'ufficio divino, in quanto preghiera pubblica della Chiesa, è fonte di pietà e nutrimento della preghiera personale, si esortano nel Signore i sacerdoti e tutti gli altri che partecipano all'ufficio divino di fare in modo che, nel recitarlo, la mente concordi con la parola; per meglio raggiungere tale scopo si procurino una più ricca istruzione liturgica e biblica, specialmente riguardo ai salmi» (SC 90).


1  -  LITURGIA DELLE ORE

Una storia -Un nome

La riforma del Vaticano II ha indicato con chiarezza che questa forma così eccellente ed essenziale di preghiera non è riservata al solo clero: «La liturgia delle Ore, come tutte le altre azioni liturgiche, non è un’azione privata, ma appartiene a tutto il Corpo della Chiesa, lo manifesta e influisce in esso» (IGLO, 20).

Si può così costatare che gruppi sempre più numerosi di laici fanno della Liturgia delle Ore la loro forma ordinaria di preghiera in continuità e in connessione con la celebrazione dell'Eucaristia.

Illustrando la Liturgia delle Ore sia nel suo aspetto storico che in quello teologico e spirituale, ci proponiamo questo scopo: «che la mente stessa si trovi in accordo con la voce mediante una celebrazione degna, attenta e fervorosa» e che «questa preghiera sia propria di ciascuno di coloro che vi prendono parte e sia parimenti fonte di pietà e di molteplice grazia divina, e nutrimento dell'orazione personale e dell'azione apostolica» (IGLO, 19).

 

Una storia.

La Liturgia delle Ore è antica quanto ]a Chiesa. Per pregarla bene può essere utile conoscere il suo lento e graduale processo di formazione avvenuto lungo i secoli.

Le origini

Già nell'Antico Testamento troviamo che il popolo d’Israele aveva dei tempi stabiliti per la preghiera (Dan 6,10.23; Sal 54,1 8 ) soprattutto al mattino e al pomeriggio in connessione col sacrificio che si faceva nel tempio di Gerusalemme (Dan 9, 20-21; Esd 9, 46).

Gesù stesso, educato da Maria all’osservanza delle preghiere tradizionali del popolo d’Israele, era solito congiungere strettamente la sua attività quotidiana con la preghiera; anzi, ogni sua azione derivava dalla preghiera. Gli Evangeli ricordano che egli si ritirava spesso nel deserto o sul monte a pregare (Mc 1, 35; 6, 46) alzandosi al mattino presto (Mc 1,35); riferiscono anche che Gesù passava la nottata intera in orazione al Padre (Lc 6, 12; Mt 14,23.25).

Il Maestro ha ordinato anche a noi di fare ciò che egli stesso ha fatto: «pregate», «domandate», «chiedete», «nel mio nome». Volle anche che, sul suo esempio, pregassimo sempre, senza stancarci mai (Lc 18,1; 1 Ts 5,17). Una preghiera umile, vigilante, perseverante, fiduciosa nella bontà del Padre, pura nell'intenzione e rispondente alla natura di Dio (cf IGLO, 5).

Gli Apostoli, a loro volta, non solo continuarono a richiamare il comando del Signore sulla necessità di una preghiera perseverante e assidua (Rom 8,15.26), ma insistono sulla sua grande efficacia per la santificazione (1 Tm 4,5). Li vediamo riunirsi per la preghiera all'ora di terza (At 2,1-15). Lo stesso Pietro «salì verso mezzogiorno sulla terrazza a pregare» (At 10, 9); anche «Pietro e Giovanni salivano al tempio per la preghiera verso te tre del pomeriggio» (At 3, 1).

La comunità cristiana era anch'essa assidua nella preghiera e nell'ascolto dell'insegnamento degli Apostoli (At 2, 42). E questo fin dall'inizio, quando era ancora viva Maria, la Madre di Gesù (At 1, 14 ).

Sull'esempio di Gesù e degli Apostoli. ben preso la Chiesa primitiva organizzò la propria vita di preghiera destinando tempi determinati alla preghiera comune, come, ad esempio, l’ultima ora del giorno, quando si fa sera e si accende la lucerna, oppure la prima ora, quando la notte, al sorgere del sole, volge al termine.

Questa preghiera, insieme alla celebrazione dell'Eucaristia domenicale, costituiva il duplice pilastro di tutta l'azione orante della comunità; si distingueva per queste particolarità:

* una preghiera «liturgica».

La forte comunione personale con Cristo si esprimeva anche esternamente con una forte partecipazione alla comunione ecclesiale per cantare insieme le lodi del Signore e celebrare la sua Pasqua. Quando vi era preghiera comune, ciascuno si preoccupava di parteciparvi sentendo un obbligo morale; la non partecipazione era intesa come una «mutilazione» del corpo-comunità: «esorta il popolo a frequentare l'ecclesia e a non mancare mai, ma a riunirsi sempre e a non diminuire la Chiesa quando non vi partecipano, rendendo così mutilato il corpo di Cristo... Non vogliate voi stessi separare il Salvatore dalle sue membra, né tagliare il suo corpo...». (Didascalia degli Apostoli, II sec. ) .

All'interno di questa comunità legittimamente convocata la preghiera era organizzata con molta libertà; si cantavano inni, si recitavano Salmi, si leggevano i libri della Scrittura.

La necessità di «pregare sempre, dovunque, in ogni luogo», come dice Tertulliano, portò a stabilire determinate ore  per la preghiera.

* una preghiera «oraria».

Sia la tradizione romana che quella giudaica divideva la giornata secondo alcuni punti di riferimento. I Romani, ad esempio, dividevano il giorno in quattro «ore» partendo dal sorgere del sole (prima, terza, sesta, nona) e la notte in «vigilie», contando cioè i turni di guardia-veglia delle sentinelle (una prima vigilia alla sera, una seconda vigilia a mezzanotte, una terza vigilia al canto del gallo, una quarta vigilia all'aurora).

I cristiani, facendo riferimento a queste ore che poi erano anche il loro «orologio», santificarono dapprima le ore del giorno ed in seguito, soprattutto ad opera dei monaci e degli asceti, anche quelle della notte.

Alla base di questa «preghiera oraria» stava sempre il comando del Signore sulla vigilanza instancabile nella preghiera  (Ef 6,18) per non essere sorpresi nel sonno, in qualsiasi ora del giorno o della notte decida di venire il Signore (Mc 13, 33 s).

Così al mattino, dopo il sonno e dinanzi al rinnovarsi del mistero della luce, era spontaneo il pensiero di ringraziare e lodare l'autore della luce facendo salire verso Dio il ringraziamento e la lode.

Alla sera, poi, quando tramontava il sole e nelle case si accendeva la lucerna, si sentiva il bisogno di ringraziare il Signore per il beneficio della luce e per gli altri doni della creazione e della redenzione, con una domanda di aiuto per il tempo della notte. Questo rito «lucernale» era la lode vespertina(cioè del «tramonto del sole») a Colui che è «luce senza tramonto».

Le «Lodi mattutine» e i «Vespri» della sera, furono dunque gli elementi più antichi della «liturgia oraria».

In seguito, verso il IV secolo, con la pace di Costantino e la maggiore libertà di culto, sorsero anche le altre a ore» della giornata: l’ora terza a ricordo e santificazione della Pentecoste (At 2,15), l’ora sesta a ricordo e santificazione della crocifissione del Signore (Mt 27,45), l’ora nona a ricordo e santificazione della sua morte sulla croce (Mt 27,46).

Per le «ore» della notte non si hanno notizie precise in questi primi secoli della Chiesa. Si sa che, sull'esempio della Veglia pasquale e delle Veglie delle grandi solennità, pian piano sorse la pratica facoltativa, presso alcune comunità, di riunioni di preghiera anche durante la notte.

Le prime forme di organizzazione (IV-VI secolo)

Terminate le persecuzioni, aumentati i luoghi di culto e il numero dei presbiteri e dei monaci, si sentì il bisogno di determinare meglio sia le formule della preghiera, sia le ore nelle quali pregare. Si ebbe un duplice genere di ufficio:

L'ufficio nella cattedrale.

In questo periodo il clero viveva ancora raggruppato in città, attorno al Vescovo. L'uso di celebrare la Messa festiva al di fuori della cattedrale, in periferia, venne più tardi. La cattedrale era dunque il centro della vita liturgica e dell'evangelizzazione di tutta la diocesi.

Ogni giorno, nella Chiesa cattedrale, clero e laici si riunivano al mattino per recitare i Salmi chiamati «laudes» (da cui il nome di «lodi» dato a questa ora di preghiera) e al tramonto del sole (da cui il nome di «Vespri», cioè preghiere al «tramonto del sole»). La celebrazione eucaristica era ancora a ritmo settimanale, cioè la domenica.

L'ufficio dei monaci.

Vivendo in una separazione più o meno totale dal mondo e rinunciando ai legami familiari e al possesso dei beni materiali, i monaci e gli asceti avevano una maggiore disponibilità per darsi alla preghiera con una frequenza e una regolarità che i cristiani viventi nel mondo, come lo stesso clero, non potevano certamente realizzare. Nei monasteri, dunque, si sviluppò e si organizzò una preghiera assidua, ben regolata, distribuita nel corso del giorno e della notte. La loro assiduità alla lode divina, realizzando per quanto possibile una salmodia ininterrotta, era un modo di imitare gli Angeli. Come gli angeli, notte e giorno, stanno dinanzi alla maestà di Dio per cantare le sue lodi, così dovevano essere i monaci sulla terra.

Il fervore e la magnificenza degli uffici monastici attiravano i fedeli e portavano il clero ad imitare i monaci nella misura del possibile. Con la nomina a Vescovo di alcuni monaci, la tradizione monastica dell'ufficio contribuì a influenzare la tradizione del clero nella cattedrale.

Avvenne così che anche nelle chiese rette dal clero, oltre alle due ore dell'ufficio del mattino e della sera, si aggiunsero le ore di terza, sesta, nona. Non esisteva ancora un «obbligo» per la partecipazione a questa preghiera dal momento che la comunità pregava sempre anche «per i fratelli assenti», cioè quelli impossibilitati a partecipare alla preghiera comune.

Le «ore» nel medioevo

Con l'invio dei monaci missionari in tutta Europa (Gallia, Inghilterra, Germania), gli usi della liturgia delle ore praticati a Roma si diffusero in tutto il continente. All'epoca di Carlo Magno (verso l'anno 800) tutti i chierici hanno l'obbligo di prendere parte all'ufficio completo e quotidiano nella loro Chiesa.

Vengono introdotti, però, alcuni elementi che non sono in perfetta sintonia con il carattere «liturgico» e quindi «comunitario» della preghiera delle ore. L'ufficio dei Santi, ad esempio, rimasto fino ad allora limitato ai luoghi di sepoltura dei martiri, si fuse e si sovrappose all'ufficio quotidiano. All'ufficio liturgico si aggiunsero altri uffici e preghiere devozionali. Il numero dei Salmi da recitare ogni giorno era diventato così pesante e impossibile che ben presto, con la stessa facilità con cui si era accresciuto l'ufficio, si incominciò ad abbreviarlo. Questo fenomeno, tuttavia, era sintomo anche di un certo calo di spiritualità sia presso il clero che presso i monaci. Il sintomo di crisi era manifestato soprattutto dalle assenze al coro. Mentre fino a questo momento non era esistito altro ufficio che quello a cui partecipava l'intera comunità dei chierici o dei monaci, verso il sec. XIII si incomincia a giustificare la recita privata dell'ufficio come supplenza della celebrazione comunitaria e solenne che si fa nel coro. E' in questo tempo che sorgono i cosiddetti «breviari»: piccoli libretti che contengono in forma «abbreviata» e ridotta la lunga officiatura che si soleva fare nel monastero o nella cattedrale. Dal «comunitario» si passa al «privato»; dalla forma «solenne» si passa alla forma «abbreviata». L'ufficio non è più il necessario strumento di santificazione che accomuna agli Angeli, ma il dovere quotidiano da assolvere come «obbligo» sotto pena di peccato mortale.

Dal Concilio di Trento al Vaticano II

Entrambi i concili ecumenici hanno affrontato la riforma dell'Ufficio. Quello di Trento, sotto il pontificato di s. Pio V, pubblicò il libro della preghiera delle ore con il titolo di «Breviario».

L'aver conservato questo titolo era segno dello spirito con cui sì era attuata la riforma: non è prevista la celebrazione solenne, ma viene ratificata solo la celebrazione «privata». L'ufficio è uno strumento di pietà individuale. Il carattere liturgico di questa preghiera, così accentuato alla sua origine, cede ora ad una visione «devozionale» riservata prevalentemente al clero. Anche nei monasteri sono obbligati all'ufficio solo i monaci «ordinati», mentre agli altri «fratelli» è riservata la recita del Rosario o il Piccolo Ufficio della B. V. Maria o dei Defunti. Non si ha più traccia neppure di quella presenza dei laici che invece aveva caratterizzato soprattutto l'ufficio della cattedrale fino alle soglie del Medioevo.

Da queste premesse sarà più facile comprendere la grande riforma attuata dal Concilio Vaticano II anche in rapporto all'Ufficio.

La Costituzione liturgica Sacrosanctum Concilium indicò subito le linee portanti per una radicale riforma del «Breviario» ( SC 83-101 ):

- ridare valore a questa preghiera sottolineandone l'aspetto cristologico ed ecclesiale;

- non più preghiera riservata al clero, ma aperta a tutti, quindi anche ai laici;

- non più preghiera «privata» riservata ai ministri ordinati, ma aperta alla comunità e di alto valore pastorale;

- privilegiare la «qualità» della preghiera sulla «quantità»; pertanto il Salterio doveva essere distribuito in più settimane;

- riordinare sia le letture bibliche che quelle agiografiche;

- ridare all'ufficio il suo originario carattere .«orario» ed estenderlo di nuovo anche ai fedeli nella forma «comunitaria» da ritenersi privilegiata.

Il 1° novembre 1970, con la Costituzione Apostolica «Laudis canticum», Paolo VI promulgava il nuovo libro liturgico con il nome di «Liturgia delle Ore». Sui contenuti di questo nuovo libro riformato dal Concilio avremo modo di ritornare in seguito. Per il momento soffermiamoci a riflettere sul suo «nome» poiché nel nome nuovo sottostanno idee e contenuti nuovi.

2. Un nome

Praticamente, fino al sec. xv con l’invenzione della stampa ad opera di Gutenberg, non si ebbero dei veri e propri libri per la sola preghiera delle Ore. Nel grande coro delle cattedrali come dei monasteri, stava un ampio leggio con sopra il grosso libro dei Salmi ben visibile da tutti. Per rendere più facile la visione del Salmo o dell'antifona, si era soliti dipingere con vivaci colori ed ingrandire le lettere iniziali. Sorsero così quelle meravigliose opere d'arte che sono i Codici miniati. Le altre parti dell'Ufficio, come le letture bibliche e le orazioni, non riguardavano tutta l'assemblea; era sufficiente che ci fosse un libro per il solo lettore o per chi presiedeva.

Nessuno dei partecipanti alla preghiera delle Ore aveva dunque un proprio libro; né era possibile recitare le Ore fuori della comunità, dal momento che non si potevano avere gli strumenti necessari per farlo. Esisteva pertanto un'unica liturgia «comunitaria» ed «oraria» alla quale furono dati di volta in volta alcuni «nomi» molto significativi. Da questi nomi potremo più facilmente individuare il concetto che nelle varie epoche si è avuto di questa preghiera oraria.

Opus Dei

Al tempo di s. Benedetto (480-547) tutta la vita monastica era considerata un «opus Dei», cioè un'opera divina. Il grande fondatore del monachesimo occidentale, però, volle trasferire questo titolo alla preghiera delle Ore per sottolineare che questa preghiera ha un duplice significato:

è un'opera: un avvenimento, qualcosa che si fa, che si porta a compimento. E' un prolungamento di quell'unica «opera» creatrice e redentrice di Dio che culmina nella Pasqua di morte e risurrezione di nostro Signore. Come Dio continuamente è all'opera per noi uomini e per la nostra salvezza, così anche noi dobbiamo operare, soprattutto con la preghiera, affinché l'azione misericordiosa e preveniente di Dio trovi spazio e compimento anche nell'opera di ogni uomo. Quando recitiamo la preghiera delle Ore ciascuno dovrebbe dire: con questa preghiera attuo l'opera pasquale di Cristo in me e nella Chiesa.

Per questo s. Benedetto voleva che «nulla fosse anteposto a quest'opera divina» che è appunto la preghiera delle Ore.

di Dio: prima ancora di essere umana, questa preghiera è «divina», è di Dio. Ce lo ricorda il ritornello dell'Invitatorio all'inizio di ogni giornata: «Signore, apri le mie labbra: e la mia bocca proclami la tua lode». Quasi a dire: se non sei Tu a donarmi il Santo Spirito della preghiera (cf Rm 8, 26), se non sei Tu a mettere sulle mie labbra le Tue stesse Parole (i Salmi, la Scrittura)... che cosa potrei dire al mio Signore? Senza l'aiuto di Dio non possiamo far nulla, neppure pregare. I Padri hanno spiegato che «Dio dona la preghiera a chi prega» (Evagrio). Possiamo dunque riassumere questi concetti dicendo che la preghiera delle Ore è una «collaborazione» tra l'agire di Dio in noi con il dono della sua opera di salvezza, e l’agire di noi in Lui con la nostra risposta che culmina appunto nella lode e nell'accoglienza di questo dono.

Sacrificio della lode

Già nella tradizione biblica, a seguito della distruzione del culto materiale ed esteriore del tempio, il popolo di Israele comprese che il Signore non poteva gradire il sacrificio di vittime «animali», esterne all'uomo, ma gradiva invece «sacrifici spirituali» che nascono dal profondo dell'uomo, da un cuore fedele e contrito (cf Is 1,10-20; Am 5,21 Sal 50,9-15). L'esperienza purificatrice dell'esilio insegnò che il vero sacrificio gradito dal Signore è la conversione del cuore espressa esternamente con labbra che lodano il Sonore:

«Offri a Dio il sacrificio della lode per adempiere a Dio i tuoi voti... Chi offre il sacrificio di lode, costui mi onora, a chi cammina rettamente, farò godere della divina salvezza» (Sal 50/49, 14.23).

«Il mio sacrificio, o Dio, è uno spirito contrito; un cuore contrito ed umiliato, tu non disprezzi, o Dio» ( Sal 51/50, 19).

In un contesto di purificazione matura dunque l'idea che il Signore non gradisce tanto il levarsi in alto dell'incenso, quanto piuttosto il culto della lode espresso con il gesto delle mani levate in alto per la preghiera:

«Stia la mia preghiera come incenso davanti a te, l'elevazione delle mie mani come il sacrificio della sera» (Sal 141/140,2).

La tradizione rabbinica espresse questi alti concetti con le parole di Rabbì Phineas il quale, riferendosi ai tempi in cui sarebbe comparso il Messia, diceva: «Cesseranno tutte le preghiere, ma non cesserà la preghiera di ringraziamento; nel tempo futuro cesseranno tutti i sacrifici, ma non cesserà il sacrificio della lode».

La tradizione cristiana continuò ed elevò questo valore «sacrificale» della preghiera di lode-ringraziamento che culmina nell'Eucaristia e si dilata a tutte le ore del giorno mediante la preghiera delle Ore. Scrive in proposito Tertulliano: «Noi siamo veri adoratori e veri sacerdoti, che pregando nello Spirito eleviamo a Dio la nostra orazione quale ostia gradita e accettabile a Dio» (De oratione, 28). E s. Agostino aggiunge: «Nella lode c'è il grido di chi confessa, nel cantico c'è l'affetto di chi ama» (In Ps. 72, 1).

Breviario

Abbiamo già detto, parlando della storia della preghiera delle Ore, che il termine «Breviario» comincia a comparire verso il secolo X con i primi tentativi di «abbreviare» l'antico ufficio, ritenuto troppo lungo, e soprattutto per permettere la recita «privata» dell'ufficio.

Con la nascita degli Ordini itineranti, come i Francescani e i Domenicani, sorse anche la necessità di fornire questi Frati di un libretto che contenesse le parti essenziali dell'Ufficio, non potendo ovviamente portarsi dietro i voluminosi codici usati nel coro. Si chiamò dunque «Breviario» quel libretto che conteneva in sintesi tutti gli elementi necessari per recitare le Ore di una determinata festa o di un ristretto spazio di tempo. La mentalità dell'epoca, che favoriva la devozione privata rispetto a quella comunitaria, unita all'idea dell'«obbligo», favorì il diffondersi di questi «breviari» fino ad essere accolti come «modello» dalla riforma tridentina al tempo di Pio V (1568).

Era evidente che, con la riforma del Vaticano II e tenuto conto degli svariati adattamenti che questa preghiera delle Ore aveva subíto lungo i secoli fino ad alterarne a volte la medesima struttura, il nome di «Breviario» dato a questo libro liturgico non poteva più essere mantenuto. Non si poteva certo indicare la «qualità» di una preghiera facendo riferimento alla sua «quantità» !

La riforma liturgica ha deciso pertanto che il nuovo nome da dare a questo libro liturgico fosse «Liturgia delle Ore».

Liturgia delle Ore

Il nuovo nome della preghiera delle Ore si compone dunque di due parole che si completano a vicenda: «Liturgia» e «delle ore».

 

Liturgia. Già nel titolo si vuol indicare con estrema chiarezza che questa preghiera non è un atto privato o individuale «riservato» ad alcune persone a ciò deputate dal sacramento dell'Ordine. E' un atto liturgico, un atto della Chiesa e quindi destinato a tutti i membri della Chiesa. La deputazione non dipende più dall'Ordine, ma dal Battesimo. La sua celebrazione ordinaria non è più nel «privato», ma nella «comunità». Essendo dunque una azione liturgica, la Liturgia delle Ore diventa: diritto-dovere di ogni battezzato; partecipazione all'ufficio sacerdotale di Cristo; azione che appartiene a tutto il Corpo della Chiesa: in essa è veramente presente e opera la Chiesa di Cristo, una, santa, cattolica, apostolica; genuina fonte di vita cristiana, nutrimento della preghiera personale.

 

Delle Ore. Questo richiamo alle «ore» sta a significare che scopo primario di questa azione liturgica è la santificazione della giornata e del tempo. Dal momento che viviamo nel tempo e siamo come impastati nel tempo, santificare le «ore» equivale a santificare la nostra stessa esistenza umana per renderla esistenza divina. Santificando il tempo con la preghiera permettiamo a tutta la nostra vita di diventare una «liturgia» perenne mediante la quale ci consacriamo in servizio di amore a Dio e ai fratelli. Ed infine, dal momento che Cristo con la sua incarnazione e con la sua Pasqua ha fatto di questo nostro tempo un «tempo di salvezza», pregando le «Ore» noi «pasqualizziamo» il tempo; lo svuotiamo di ciò che è vecchio e mortale e lo riempiamo della novità che è Cristo e della sua eternità di Signore Risorto.

Santificare le Ore equivale ad essere già ammessi alla lode perenne e gloriosa dei Santi dal momento che con questa preghiera noi partecipiamo al sommo onore della Sposa di Cristo; lodando il Signore noi stiamo già davanti al trono di Dio in nome della Madre Chiesa.

«Una storia», «un nome» che ci hanno permesso di guardare indietro nella secolare vita della Chiesa e di individuare le tradizioni genuine della sua attività orante.

 Diceva Paolo VI:

 «Si levi, dunque, con il sussidio del nuovo libro della Liturgia delle ore, più solenne e più bella la lode di Dio nella Chiesa del nostro tempo. Si associ a quella che viene cantata nelle sedi celesti dai santi e dagli angeli, e accrescendosi incessantemente in perfezione nei giorni di questo terrestre esilio, muova con nuovo slancio incontro a quella lode perfetta che per tutta l'eternità è attribuita a Colui che siede sul trono e all'Agnello ( Laudis canticum, 8 ) .

 

2  -  IL CANTO DI LODE

Preghiera di Cristo - Preghiera della Chiesa

Ci occuperemo qui della Liturgia delle Ore in quanto Preghiera di Cristo e Preghiera della Chiesa.

 

Preghiera di Cristo

 «Il canto di lode, che risuona eternamente nelle sedi celesti, e che Gesù Cristo Sommo Sacerdote introdusse in questa terra di esilio, la Chiesa lo ha conservato con costanza e fedeltà nel corso di tanti secoli e lo ha arricchito di una mirabile varietà di torme» (Paolo VI, Laudis canticum, 1 nov. 1970).

Venendo per rendere gli uomini partecipi della vita di Dio (cf 2 Pt 1,4), il Verbo, che procede dal Padre come splendore della sua gloria, «il Sommo Sacerdote della nuova ed eterna alleanza, Cristo Gesù, prendendo la natura umana, introdusse in questa terra di esilio quell'inno che viene cantato da tutta l'eternità nelle sedi celesti» (IGLO 3 che cita SC 83).

Da allora, nel cuore di Cristo, la lode di Dio risuona con parole umane di adorazione, propiziazione ed intercessione. Tutte queste preghiere il Capo della nuova umanità e Mediatore tra Dio e gli uomini, le presenta al Padre a nome e per il bene di tutti.

Cristo unico Mediatore

Secondo un'espressione di Clemente Romano (2° sec.) «Gesù Cristo è il Sommo Sacerdote delle nostre oblazioni, il patrono e l'aiuto della nostra debolezza». Colui che il Padre ha costituito «Mediatore» unico di un'alleanza migliore (Eb 8,6) è anche Colui che è «l’Alfa e l'Omega, Colui che è, che era e che viene» (Ap 1, 8; cf benedizione del cero nella Veglia pasquale).

In quanto Verbo eterno del Padre, il Figlio fin dall'eternità è partecipe con lo Spirito Santo di quella lode intra-trinitaria che unisce il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo.

Questa lode non si è certo interrotta nel tempo in cui il Figlio eterno del Padre ha assunto una natura umana nel mistero della incarnazione quando «il Verbo si è fatto carne ed è venuto ad abitare in mezzo a noi» (Gv 1,14). E questa stessa lode divina e trinitaria non ci è stata tolta con il ritorno del Figlio presso il Padre al momento della sua risurrezione e ascensione al cielo. Questa lode divina e perenne che viene cantata da tutta l'eternità quale dialogo d'amore tra le divine Persone nelle sedi celesti, è ora consegnata come dono nuziale da Cristo alla sua diletta Sposa, la Chiesa. La preghiera della Chiesa, dunque, è la stessa preghiera che Cristo, ieri-oggi-sempre, canta presso il Padre. E non potrebbe essere altrimenti dal momento che il Padre ha costituito mediatore unico tra Dio e gli uomini il Cristo suo Figlio, il Capo della nuova umanità.

La preghiera di Cristo, pertanto, è reale, viva, preponderante, unica. La nostra è una preghiera «cristiana» in quanto è partecipazione dell'unica preghiera di Cristo al Padre nello Spirito. Tutta la nostra vita può essere paragonata ad una immensa processione liturgica di pellegrini verso la casa del Padre, per essere ammessi alla sua presenza, per vederlo, lodarlo e partecipare alla liturgia celeste al seguito di Cristo. In forza della fede, però, pur nella fase terrena e peregrinante, noi già partecipiamo alla liturgia di Cristo glorioso alla destra del Padre nell'assemblea liturgica e festante degli angeli e dei santi che hanno già raggiunto la mèta.

La Liturgia delle Ore non può essere concepita al di fuori dell'unica liturgia di Cristo. E' lui il Sacerdote vero, perfetto, eterno «che si è assiso alla destra del trono della Maestà nei cieli, quale liturgo del santuario e della tenda vera, che ha eretto il Signore, non un uomo» (Eb 8, 1-2).

Egli solo possiede un sacerdozio che non tramonta. Perciò può salvare perfettamente quelli che per mezzo di lui si accostano a Dio, «essendo egli sempre vivo per intercedere a loro favore» (Eb 7,25; Rm 8,34).

Cristo ci comunica il suo sacerdozio

Per mezzo del sacramento della rigenerazione, il Battesimo, Cristo ci unisce a sé come membra del suo Corpo, che è la Chiesa. Tra lui e noi intercorre così un vincolo speciale e strettissimo: da lui, il Capo, si diffondono all'intero Corpo tutti i beni che sono del Figlio, cioè la comunicazione dello Spirito, la verità, la vita e la partecipazione alla sua filiazione divina, che si manifestavano in ogni sua preghiera quando dimorava presso di noi.

La consacrazione battesimale è per noi una consacrazione sacerdotale che permette a tutto il corpo della Chiesa di condividere il sacerdozio di Cristo. In questo modo tutti i battezzati, mediante la rigenerazione e l'unzione dello Spirito Santo vengono consacrati in edificio spirituale e sacerdozio santo (cf LG 10) e sono abilitati a esercitare il culto del Nuovo Testamento, culto che non deriva dalle nostre forze, ma dal merito e dal dono di Cristo, unico Sommo Sacerdote (Eb 4,14.15).

Possiamo dunque dire che con il mistero dell'incarnazione e della nostra redenzione esiste ormai un'unica preghiera: quella del «Cristo totale», il Cristo-Capo unito indissolubilmente al Cristo-Corpo. Quando prega il Capo, unito a lui prega anche il suo Corpo ecclesiale. Quando prega il Corpo-Chiesa è unito a lui il Cristo-Capo.

In questo sta la dignità della preghiera cristiana: che essa partecipa dell'amore del Figlio unigenito per il Padre e di quell'orazione che egli durante la sua vita terrena ha espresso con le sue parole e che ora, a nome e per la salvezza di tutto il genere umano, continua incessantemente in tutta la Chiesa e in tutti i suoi membri (cf IGLO 7).

Cristo modello di preghiera

Non solo nella sostanza noi diciamo che la nostra è la preghiera di Cristo, ma, nella Liturgia delle Ore, la Chiesa si sforza di imitare anche la forma, il modo e il tempo di quella che fu la preghiera di Cristo. La preghiera di Cristo deve essere «modello» della preghiera della Chiesa.

Lo stesso Figlio di Dio, infatti, «che con il Padre suo è una cosa sola» (Gv 10, 30), e che entrando nel mondo disse: «Ecco, io vengo a fare la tua volontà» (Eb 10,9; cf Gv 6,38), ha voluto lasciarci una testimonianza della sua preghiera.

Una preghiera continua. Spessissimo i Vangeli ci presentano Gesù in preghiera, di giorno e di notte:

* è in preghiera quando il Padre gli rivela la sua missione (Lc 3, 21-22);

* trascorre tutta la notte in preghiera prima della scelta dei Dodici (Lc 6,12);

* rende grazie al Padre nella moltiplicazione dei pani (Mt 14, 19; 15, 36);

* prega nella trasfigurazione sul monte (Lc 9,28-29);

* prega quando risana il sordomuto (Mc 7, 34) e risuscita Lazzaro (GV 11,41);

* prega prima di provocare la confessione di Pietro (Lc 9,18);

* insegna a pregare ai discepoli (Lc 11,1);

* benedice il Padre quando i discepoli ritornano dall'aver compiuto la loro missione (Lc 10,21);

* prega nel benedire i fanciulli (Mt 19,13);

* prega per Pietro, perché non venga meno la sua fede (Lc 22, 32 ).

Una preghiera apostolica. In Gesù non c'è stata la scissione tra preghiera e apostolato. La sua attività quotidiana era strettamente congiunta con la preghiera, anzi quasi derivava da essa:

* benché tutti lo cerchino, trova il tempo per alzarsi al mattino presto quando è ancora buio per ritirarsi in un luogo deserto a pregare (Mc 1,35; 6.46; Lc 5,16; Mt 14,23); dopo la moltiplicazione dei pani, congedata la folla, sale sul monte, solo, a pregare. Venuta la sera, egli se ne stava ancora lassù (Mt 14,23).

Una preghiera comunitaria. La preghiera di Gesù non è solamente una preghiera privata, a tu per tu col Padre, ma è anche una preghiera condivisa con la gente: «secondo il suo solito» partecipa ogni sabato alla preghiera pubblica nella sinagoga (Lc 4,16); partecipa anche ai pellegrinaggi e alle preghiere nel tempio che chiama casa di preghiera (Mt 21,13); pronunzia anche le tradizionali preghiere di benedizione a Dio, proprie delle riunioni conviviali, come è espressamente riferito in relazione con la moltiplicazione dei pani (Mt 14,19; 15,36); prega nell’ultima Cena (Mt 26,26); recita l'inno nel cenacolo con i suoi discepoli (Mt 26,30); prega con i discepoli di Emmaus (Lc 24,30).

Fino al termine della sua vita, avvicinandosi già la Passione (Gv 12, 27), nell'agonia del Getsemani (Mt 26, 3~44) e perfino sulla croce (Lc 23,34.46), il Maestro divino dimostra che la preghiera animava il suo ministero messianico e il suo esodo pasquale.

Egli, infatti, «nei giorni della sua vita terrena offrì preghiere e suppliche con forti grida e lacrime a colui che poteva liberarlo da morte e fu esaudito per la sua pietà» (Eb 5,7) e, compiuta l'oblazione di sé sull'altare della croce, rese «perfetti per sempre quelli che vengono santificati» (Eb 10, 14); infine, risuscitato da morte, vive per sempre e prega per noi (Eb 7,25; Rm 8,34).

La Liturgia delle Ore ha dunque una caratteristica fondamentale: è partecipazione della lode che il Verbo di Dio fin dall'eternità canta al Padre nella comunione dello Spirito Santo; è partecipazione del sacerdozio di Cristo e abilitazione ad esercitare il suo stesso culto al Padre; è imitazione del suo stesso stile e metodo di preghiera. In una parola: la Liturgia delle Ore è Cristo che prega in noi e noi che preghiamo in lui.

 

Preghiera della Chiesa

Gesù ha ordinato anche a noi di fare ciò che egli stesso fece. «Pregate», «domandate», «chiedete» (Mt 5,44; 7,7; 26,41; Mc 13,33; 14,38; Lc 6,28; 10,2), «nel mio nome» (Gv 14,13; 15,16; 16,23); insegnò anche la maniera di pregare nell'orazione che si chiama domenicale (Mt 6,9-13; Lc 11,2-4: il Padre nostro) e dichiarò necessaria la preghiera (Lc 18,1: «Disse loro una parabola sulla necessità di pregare sempre, senza stancarsi»), e precisamente:

- una preghiera umile (Lc 18,9-14);

- una preghiera vigilante (Lc 21,36; Mc 13,33);

- una preghiera perseverante, fiduciosa nella bontà del Padre (Lc 11,5-13; 18,1-8; Gv 14, 13; 16, 23);

- pura nell'intenzione e rispondente alla natura di Dio (Mt 6,5-8; 23,14).

Obbedienti alla parola del Salvatore, anche gli stessi Apostoli non solo qua e là nelle loro lettere ci tramandano preghiere di lode e di rendimento di grazie, ma danno a loro volta delle raccomandazioni:

- una preghiera perseverante e assidua (Rm 8,15.26; 1 Cor 12,3; Gal 4,6; Gd 20);

- una preghiera fatta nello Spirito Santo (2Cor 1,20; Col 3,17);

- una preghiera rivolta al Padre (Eb 13,15);

- una preghiera che necessita della mediazione di Cristo (Rm 12,12; 1 Cor 7,5; Ef 6,18; Col 4,2; 1 Ts 5,17; 1 Pt 4,7);

- una preghiera grandemente efficace per la santificazione (1 Tm 4,5);

- una preghiera di lode (Ef 5,19), di ringraziamento (Col 3, 17), di domanda (Rm 8,26) e di intercessione per tutti (Rm 15,30; 1Tm 2,1).

Poiché l'uomo viene interamente da Dio deve riconoscere e professare questa sovranità del suo Creatore. E' quanto gli uomini di sentimenti religiosi, vissuti in ogni tempo, hanno effettivamente fatto con la preghiera.

La preghiera diretta a Dio però deve essere connessa con Cristo, Signore di tutti gli uomini, unico Mediatore (l Tm 2,5; Eb 8,6) e il solo per il quale abbiamo accesso al Padre (Rm 5,2; Ef 2,18; 3,12). Cristo, infatti, unisce a sé tutta l'umanità (cf SC 83), in modo tale da stabilire un rapporto intimo tra la sua preghiera e la preghiera di tutto il genere umano.

In forza dell'incarnazione e del legame inscindibile che unisce Cristo alla Chiesa, lo Sposo e la Sposa parlano ormai lo stesso linguaggio orante. Dice s. Agostino:

«Se sono due in una sola carne, perché non due in una sola voce? Parli dunque Cristo, perché in Cristo parla la Chiesa e nella Chiesa parla Cristo; il corpo nel capo e il capo nel corpo» (In Ps 30,1,4).

Si può pertanto affermare che nella voce della Chiesa è lo stesso Cristo che continua la sua lode perenne al Padre. A dare questa energia spirituale alla voce della Chiesa è lo Spirito Santo. Ecco perché, parlando della preghiera della Chiesa quale continuazione della preghiera di Cristo dobbiamo necessariamente considerare l'azione insostituibile dello Spirito Santo quale animatore della preghiera dentro la Chiesa.

La Chiesa prega nello Spirito.

L'unità della Chiesa orante è opera dello Spirito Santo, che è lo stesso in Cristo (cf Lc 10,21), in tutta la Chiesa e nei singoli battezzati. Come efficacemente spiega s. Paolo nella Lettera ai Romani (Rm 8, 26 s), noi, a causa della nostra congenita debolezza (asthenèia) nemmeno sappiamo che cosa sia conveniente domandare e come domandarlo; ma lo Spirito stesso viene in nostro aiuto ed intercede con insistenza per noi; i suoi sono gemiti inesprimibili a causa della nostra resistenza a voler pregare come lui desidera, mentre vorremmo pregare piuttosto a modo nostro. Fortunatamente la sua dolce e forte azione riesce a vincere la nostra resistenza, cosicché lo Spirito riesce a pregare in noi secondo i disegni di Dio. Ed il Padre che scruta i cuori sa quali sono i desideri dello Spirito. Riconoscendo nella preghiera nostra e soprattutto della Chiesa la potente intercessione dello Spirito, il Padre non può non esaudire questa supplica. Ecco perché la preghiera della Chiesa, fatta nello Spirito Santo, ha la garanzia dell'esaudimento.

La preghiera della Chiesa ha dunque il conforto e il sostegno sia del Figlio che è nostro unico Mediatore e Sacerdote presso il Padre, sia dello Spirito Santo che assimilandoci a Cristo e comunicandoci la filiazione adottiva ci fa gridare: «Abbà, Padre!» (Rm 8,15; Gal 4, 6).

Con una immagine ardita e suggestiva Clemente di Alessandria spiega questa cooperazione trinitaria nel mettere in atto la preghiera dei fedeli nella Chiesa, come di un suonatore che, afferrando l'uomo come uno strumento vivo, ne trae melodie nuove:

«Il Verbo celeste canta sul trono immortale dell'armonia nuova, che da Dio prende nome, il canto nuovo... Questo canto divino, sostegno del tutto, armonia dell’universo, tutto accordò secondo il volere di Dio, il Padre.

... Il Verbo di Dio canta al Padre con questo strumento dalle mille voci, accompagna la sua lode con questo strumento che è l'uomo... Avanti dunque, di corsa, verso la salvezza, verso la risurrezione, verso l'unico amore, verso l'unità, tratta come divina armonia dalla pluralità di voci prima disperse».

Non vi può essere dunque nessuna preghiera cristiana senza l'azione dello Spirito Santo, che unificando tutta la Chiesa, per mezzo del Figlio la conduce al Padre (IGLO 8).

La Chiesa prega comunitariamente.

«L'esempio e il comando del Signore e degli apostoli di pregare sempre e assiduamente non si devono considerare come una norma puramente giuridica, ma appartengono all'intima essenza della Chiesa medesima, che è comunità e deve quindi manifestare il suo carattere comunitario anche nella preghiera. Per questo negli Atti degli Apostoli, quando per la prima volta si fa parola della comunità dei fedeli, questa appare riunita in preghiera "con alcune donne e con Maria, la Madre di Gesù e con i fratelli di lui" (At 1, 14). "La moltitudine di coloro che erano venuti alla fede aveva un cuore solo e un'anima sola (At 4,32): questa unanimità si fondava sulla parola di Dio, sulla comunione fraterna, sulla preghiera e sull'Eucaristia» (IGLO 9).

Con queste riflessioni la nuova Liturgia delle Ore vuol prendere le distanze dal precedente «Breviario». Come si è visto parlando della storia di questo libro, esso rifletteva una spiritualità «privata», del singolo chierico, che era tenuto alla recita quotidiana di questa preghiera per obbligo inerente al suo ufficio. Il concetto di «opus Ecclesiae» consisteva nel fatto che la Chiesa forniva quel libro e imponeva quella recita; non veniva invece recepito il fatto che la Chiesa è il «soggetto orante» della Liturgia delle Ore e che questa preghiera appartiene alla sua intima essenza.

Superato quindi ogni aspetto «privatistico» e di «deputazione» (= riservata al solo clero), l’Istituzione Generale della Liturgia delle Ore torna più volte a ribadire la sua caratteristica «ecclesiale» e «comunitaria».

Così, dovendo indicare coloro che celebrano la Liturgia delle Ore, IGLO 20 mette al primo posto la «celebrazione in comune» di tutti i fedeli:

«La Liturgia delle Ore, come tutte le altre azioni liturgiche, non è un’azione privata, ma appartiene a tutto il Corpo della Chiesa, lo manifesta e influisce su di esso», (cf SC 26).

Premessa questa regola generale che sgombera ogni idea di privatizzazione, e richiamato il principio secondo cui ogni battezzato, in quanto stirpe eletta, sacerdozio regale, popolo di acquisto (cf 1 Pt 2,9), «ha diritto e dovere» ad una partecipazione «piena, consapevole e attiva» alla Liturgia delle Chiesa (SC 14), si passa ad indicare le varie categorie che sono tenute alla celebrazione comunitaria della Liturgia delle Ore:

- il Vescovo, circondato dai presbiteri e dai ministri e con la partecipazione del popolo;

- le assemblee parrocchiali dei fedeli: radunandosi insieme ai loro pastori e unendo i loro cuori e le loro voci, manifestano la Chiesa che celebra il mistero di Cristo (IGLO 22);

- le comunità religiose: rappresentano in modo speciale la Chiesa orante; esse esprimono, infatti, più pienamente il modello della Chiesa che senza interruzione e con voce concorde loda Dio, e assolvono il compito di collaborare innanzitutto con la preghiera all'edificazione e all'incremento di tutto il Corpo mistico di Cristo e al bene delle Chiese particolari (IGLO 24); i membri di queste comunità sono vivamente pregati di celebrare comunitariamente la Liturgia delle Ore e, per quanto possibile, favorire la partecipazione anche di altri fedeli (IGLO 25.26);

- anche i laici imparino ad adorare Dio Padre in Spirito e verità anzitutto nell'azione liturgica, e si ricordino che mediante il culto pubblico e la preghiera raggiungono tutti gli uomini e possono contribuire non poco alla salvezza di tutto il mondo (IGLO 27);

- le famiglie: è lodevole che questi santuari domestici della Chiesa celebrino almeno qualche parte della Liturgia delle Ore inserendosi così più intimamente nella Chiesa (IGLO 27).

Il ruolo delle «sentinelle»

Dopo questo primo gruppo di persone che hanno «diritto-dovere» di celebrare comunitariamente la Liturgia delle Ore, L’iglo dedica alcune riflessioni a coloro che nella Chiesa occupano un posto particolare a motivo della loro «consacrazione» al Signore.

Se la Chiesa affida ad ogni battezzato il mandato di celebrare la Liturgia delle Ore, vuol tuttavia avere la garanzia che «il compito di tutta la comunità sia adempiuto in modo sicuro e costante almeno per mezzo dei ministri sacri, e la preghiera di Cristo continui incessantemente nella Chiesa» (IGLO 28).

Coloro pertanto che nella Chiesa occupano un posto particolare a motivo della loro totale consacrazione al Signore (e oltre ai «ministri sacri» occorre collocare tutte le persone consacrate), devono sentire l'obbligo personale di assicurare alla Chiesa questa insostituibile preghiera. Per un errato concetto di «comunità», infatti, qualche sacerdote o religioso/a si è sentito dispensato dal pregare la Liturgia delle Ore unicamente perché si è trovato solo senza la presenza del popolo. Richiamando l'aspetto «ottimale» della celebrazione «comunitaria» non si è certo inteso abolire la celebrazione anche da soli della Liturgia delle Ore. Questo garantire alla Chiesa in modo sicuro e costante la preghiera delle Ore da parte delle persone consacrate può essere paragonato al servizio insostituibile delle «sentinelle»: di coloro cioè che, anche quando tutti gli altri dormono, montano la guardia e stanno vigili perché il nemico non entri nella casa e rapisca il gregge di Cristo.

Il vescovo, i sacerdoti, le persone consacrate, adempiendo fedelmente ogni giorno il loro compito particolare di assicurare all'intero Corpo della Chiesa questa indispensabile preghiera per la santificazione delle Ore, oltre ad assolvere un loro specifico dovere, porteranno anche questi altri splendidi frutti:

- pregare nella persona di Cristo Sacerdote partecipando al medesimo compito, pregando Dio per tutto il popolo loro affidato, anzi per tutto il mondo;

- compiere il ministero del buon Pastore che prega per i suoi perché abbiano la vita e perciò siano perfetti nell'unità (cf Gv 10,11);

- attingere dalla Liturgia delle Ore il nutrimento per la pietà e la preghiera personale, oltre allo stimolo per l'azione pastorale e missionaria a conforto di tutta la Chiesa di Dio;

- accogliere con abbondanza la parola di Dio per diventare discepoli più perfetti del Signore e gustare più profondamente le insondabili ricchezze di Cristo (IGLO 29).

Concludiamo queste riflessioni con le parole di Paolo VI nella Costituzione Apostolica Laudis canticum con cui promulgava la nuova Liturgia delle ore:

«Rinnovata dunque e restaurata completamente la preghiera della santa Chiesa secondo la sua antichissima tradizione, e tenuto conto delle necessità del nostro tempo, è davvero auspicabile che essa pervada profondamente, ravvivi, guidi ed esprima tutta la preghiera cristiana e alimenti efficacemente la vita spirituale del popolo di Dio...

Avviene, perciò, che la preghiera della Chiesa è insieme la preghiera che Cristo con il suo Corpo rivolge al Padre. Mentre dunque recitiamo l'Ufficio, dobbiamo riconoscere l'eco delle nostre voci in quelle di Cristo e quelle di Cristo in noi»

 

3  -  LE ORE

Consacrazione del tempo . Santificazione dell'uomo

La Chiesa, obbedendo fedelmente al comando del proprio Signore «Bisogna pregare sempre senza stancarsi» (Lc 18,1), organizzò fin dall'inizio alcune ore determinate da dedicare alla preghiera comune con la partecipazione dei fedeli sotto la presidenza dei sacri Ministri. Si sentì il bisogno di non limitare la preghiera dei figli di Dio alla sola riunione domenicale per il sacrificio eucaristico, ma ogni giorno furono scelte, anche sulla scorta della tradizione giudaica, alcune ore particolari da destinare alla preghiera. Così, quando si faceva sera e si accendeva la lucerna per rischiarare le ombre della notte, sorse spontaneo di consacrare quel tempo a Colui che è «luce senza tramonto»; oppure, quando al mattino sorgeva la luce del sole, come non rivolgere la propria lode a Colui che come sole che sorge è venuto a visitarci dall'alto per rischiarare quelli che stanno nelle tenebre e nell'ombra della morte (Lc 1,18-19)?

La Liturgia delle Ore, pertanto, ebbe fin dall'inizio questo preciso scopo: santificare tutto il corso del giorno e della notte (IGLO 10 che cita SC 83-84). Santificando il tempo, il cristiano santifica la propria vita che è impastata di tempo.

Cerchiamo dunque di approfondire questi due concetti: consacrare il tempo, santificare l'uomo. In questo ambito si dovrà pure chiarire il rapporto esistente tra Liturgia delle Ore ed Eucaristia.

 

Consacrazione del tempo

Per gli antichi pagani il tempo era una misteriosa realtà che, a motivo del suo scorrere inesorabile, segna l'esistenza umana con un marchio di triste fatalità. Scorrendo veloce «come il sogno di un'ombra», neppure gli dèi potevano fare alcunché contro il tempo che passa portandosi via la vita. Nonostante il tentativo di collocare tra gli dèi dell'Olimpo anche il dio «Chrònos», cioè il Tempo, gli antichi videro il tempo come qualcosa di vuoto, di malefico, di fatale.

Ben diversa, invece, la concezione «biblica» del tempo. Non è il frutto di un destino misterioso, ma ha avuto origine da Jahvè, il Creatore, che ha creato anche il tempo e gli ha dato uno scopo (cf Gn 1,14). Egli fa questo perché è il Signore della natura, e guida le stelle e il tempo (Sal 104,19) stabilendo un tempo determinato per la crescita delle piante e degli animali. Dio, in quanto signore-creatore dell'uomo, ne determina la durata della vita stabilendo l'ora della sua nascita e della morte: «Per tutto c'è il suo momento, un tempo per ogni cosa sotto il cielo: tempo di nascere, tempo di morire...» (Qo 3, 1-2).

Per la Bibbia il tempo perde quella dimensione del «chrónos» fatale, vuoto, ineluttabile, ed acquista piuttosto la dimensione di «kairós» inteso come «tempo favorevole», propizio dono di Dio all'uomo perché possa dare prova di conversione e di fedeltà: «Compìte la vostra opera in tempo giusto, ed a suo tempo vi darà la sua mercede» (Sir 51, 30).

Tuttavia solo con la venuta di Cristo nel tempo, quando il Verbo eterno di Dio si fa carne e pone la sua dimora tra noi (Gv 1,14), ha avuto inizio il vero «kairós» favorevole. Con la sua incarnazione Cristo dà inizio alla piena realizzazione del disegno salvifico. Con la sua venuta il dominio regale di Dio è già qui, adesso, in questo momento. Non c'è più tempo da attendere; il tempo messo a disposizione dalla benevolenza divina va utilizzato, prima che sia troppo tardi: «Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete al vangelo» (Mc 1,15). Il tempo favorevole della divina misericordia in favore dell'uomo, tanto atteso dai profeti, è diventato realtà in Gesù; si chiude il tempo della divina pazienza e si manifesta, in Cristo, la giustizia nel tempo presente al fine di giustificare coloro che hanno fede in lui (Rm 3,26). Con Cristo ha avuto inizio la «pienezza dei tempi» (Ef 1,10; Gal 4,4). Costituito «Signore» in forza dello Spirito della risurrezione (Rm 1,4), Cristo siede ora alla destra del Padre ed intercede incessantemente in nostro favore (Eb 7,25; Rm 8,34).

Dalla risurrezione in poi, si ode ormai questo annunzio: «Ecco il momento favorevole: ecco il giorno della salvezza» (2Cor 6,2). Poiché il tempo, con Cristo, ha raggiunto la sua pienezza, non si può rimandare la propria conversione e adesione di fede, né si può rimanere sordi alla sua voce, correndo il terribile rischio dell'indurimento del cuore ( Eb 3, 7 - 4, 11 ) .

Se Cristo ci ha liberati dalla schiavitù del tempo e ha spalancato dinanzi a noi le porte dell'eternità beata, non per questo dobbiamo addormentarci come servi pigri, ma dobbiamo stare desti e attenti nell'attesa della venuta del Signore (Lc 21, 36).

Se da una parte il tempo è l'occasione favorevole per la preparazione all'incontro col Signore che viene, dall'altra è anche tempo di combattimento spirituale contro le insidie del diavolo (Ef 6,11). Per resistere nel giorno malvagio e poter superare le prove del tempo presente, l’Apostolo dà questi consigli: «Pregate incessantemente con ogni sorta di preghiere e di suppliche nello Spirito, vigilando a questo proposito con ogni perseveranza e pregando per tutti i santi» (Ef 6,18).

Il vero credente è colui che, contrariamente al mondo che segue la regola del «carpe diem» unicamente per divertirsi nel momento che passa, si tiene piuttosto pronto per la venuta di Dio sostenendosi a vicenda con i propri fratelli mediante «salmi, inni e cantici spirituali» (Col 3,16; Ef 5,19-20).

La riflessione sul significato del tempo ci spinge a percepire la necessità di vivere santamente nel tempo propizio che il Signore ci mette a disposizione (= kairós). La preghiera liturgica delle Ore è quel meraviglioso «sacrificio della lode» (Eb 13,15) che la Chiesa incessantemente innalza al Padre per mezzo di Cristo, sostenuta dallo Spirito Santo. Santificando il tempo dell'uomo, la Chiesa intende consacrare alla gloria di Dio ogni attimo dell'esistenza umana. Essendo creati per l'eternità, non possiamo vivere il tempo alla maniera pagana, assistendo impotenti allo scorrere inesorabile delle stagioni, o peggio ancora comportandoci come quei servi che approfittando del ritardo del padrone appesantiscono il loro cuore in dissipazioni e affanni della vita (Lc 21,34); dobbiamo piuttosto approfittare del «tempo favorevole» messo a nostra disposizione dalla divina benevolenza per esercitarci fin da ora a quella lode eterna che ci terrà occupati nella casa del Padre. Ascoltiamo quanto suggerisce s. Agostino:

«La meditazione della nostra vita attuale deve avvenire lodando Dio, perché la felicità eterna della nostra vita futura sarà la lode di Dio. E nessuno può essere adatto alla vita futura, se non si sarà preparato ora ad essa..» (s. Agostino, Enarr. in Ps 118,1).

E lo stesso s. Agostino, sviluppando un medesimo concetto in altro contesto, afferma:

«Cantiamo qui l'alleluia, mentre siamo ancora privi di sicurezza, per poterlo cantare un giorno lassù, ormai sicuri... Ora infatti il nostro corpo è nella condizione terrestre, mentre allora sarà in quella celeste. O felice quell'alleluia cantato lassù! O alleluia di sicurezza e di pace! Là nessuno ci sarà nemico, là non perderemo mai nessun amico. Ivi risuoneranno le lodi di Dio. Certo risuonano anche ora qui. Qui però nell'ansia, mentre lassù nella tranquillità. Qui cantiamo da morituri, lassù da immortali. Qui nella speranza, lassù nella realtà. Qui da esuli e pellegrini, lassù nella patria. Cantiamo pure ora, non tanto per goderci il riposo, quanto per sollevarci dalla fatica. Cantiamo da viandanti. Canta, ma cammina. Canta per alleviare le asprezze della marcia, ma cantando non indulgere alla pigrizia. Canta e cammina» ( s. Agostino, Discorso 256, 1. 3 ).

 

Santificazione dell'uomo

A che cosa servirebbe consacrare a Dio il tempo se poi noi che viviamo nel tempo non santificassimo noi stessi attraverso la corretta utilizzazione di questa creatura di Dio? Dobbiamo dunque santificare il tempo per santificare noi stessi che di tempo siamo impastati.

A questo punto dobbiamo necessariamente inserire una riflessione sul rapporto tra Liturgia delle Ore ed Eucaristia. La celebrazione dell'Eucaristia, infatti, resta sempre il «centro e il culmine di tutta la vita della comunità cristiana» (CD 30; cf SC 10; PO 5).

Tutti i Sacramenti, come pure tutti i ministeri ecclesiali e le opere di apostolato, sono strettamente uniti alla s. Eucaristia e ad essa sono ordinati.

«Infatti, nella Santissima Eucaristia è racchiuso tutto il bene spirituale della Chiesa, cioè lo stesso Cristo, nostra Pasqua e pane vivo che, mediante la sua Carne vivificata dallo Spirito Santo e vivificante, dà vita agli uomini i quali sono in tal modo invitati e indotti ad offrire assieme a Lui se stessi, il proprio lavoro e tutte le cose create. Per questo l'Eucaristia si presenta come fonte e culmine di tutta l'evangelizzazione» (PO 5)

Al centro di ogni comunità sta dunque la celebrazione eucaristica. Essa è il «culmine» verso cui deve tendere tutta l'azione della Chiesa e dei singoli battezzati; ed è pure la «fonte» da cui attingere le energie spirituali per la santificazione, l'evangelizzazione, le opere di carità (cf SC 10).

Come nella vita del Signore la sua Pasqua di morte e risurrezione fu il punto di arrivo di tutta la preparazione iniziata con l'antica alleanza e il punto di partenza di ogni azione santificante nella Chiesa fino alla Parusìa finale, così è dell'Eucaristia pasquale nella vita della Chiesa e del cristiano.

Ogni santificazione trae energie necessariamente dall'Eucaristia. Da qui la necessità di estendere in qualche modo il «tempo dell'Eucaristia» a tutte le ore del giorno e della notte. Per intenderci: si tratta di «pasqualizzare» tutto il tempo dell'uomo perché è dalla Pasqua-Eucaristia che scaturisce la salvezza dell'uomo. Questo compito di «pasqualizzare» il tempo è svolto precisamente dalla Liturgia delle Ore. Infatti:

- «La Liturgia delle Ore estende alle diverse ore del giorno le prerogative del mistero eucaristico, centro e culmine di tutta la vita della comunità: la lode e il rendimento di grazie, la memoria dei misteri della salvezza, le suppliche e la pregustazione della gioia celeste» (IGLO 12);

- «La celebrazione dell'Eucaristia viene anche preparata ottimamente mediante la liturgia delle Ore, in quanto per suo mezzo vengono suscitate e accresciute le disposizioni necessarie alla fruttuosa celebrazione dell'Eucaristia, quali sono la fede, la speranza, la carità, la devozione e il desiderio dell'abnegazione di sé» ( IGLO 12 ).

E' dunque compito della Liturgia delle Ore di «estendere»  e «preparare» la celebrazione dell'Eucaristia. Con una immagine possiamo parlare del duplice movimento di «sistole» e «diastole» che ha per centro il cuore. Dal cuore si estende a tutto il corpo il movimento del sangue che porta le energie vitali all'organismo; verso il cuore deve pure convergere quello stesso sangue per ricevere nuova spinta ed energia. Se venisse a mancare, tra il centro e la periferia, questo movimento vitale, si avrebbe arresto cardiocircolatorio, collasso, morte.

Fuori immagine si può pertanto dire che l'Eucaristia ha necessario bisogno del duplice movimento che le dà la Liturgia delle Ore: quello di «estendere» alle ore del giorno il centro pasquale dell'Eucaristia, e quello di «preparare» adeguatamente noi che viviamo nel tempo a quell'incontro col Cristo pasquale che si ha nell'Eucaristia.

Non farà dunque meraviglia costatare che anche nella Liturgia delle Ore si trovano gli stessi elementi costitutivi della Liturgia eucaristica (cf IGMR 55): la lode e l'azione di grazie, il memoriale, l'offerta, la supplica e l'intercessione.

La lode e l'azione di grazie

«Nella Liturgia delle Ore la Chiesa, esercitando l'ufficio sacerdotale del suo Capo, offre a Dio incessantemente (1 Ts 5, 17) il sacrificio di lode, cioè il frutto di labbra che confessano il suo nome» (IGLO 15).

Anche la Liturgia delle ore, in quanto prolungamento della liturgia eucaristica, diventa essa stessa una «eucaristìa», cioè un continuo rendimento di grazie al Padre, per mezzo di Cristo, nello Spirito Santo. Si benedice il Signore e si dà a lui gloria per tutte le opere meravigliose compiute per noi uomini e per la nostra salvezza.

Questa componente della Liturgia delle Ore è di gran lunga preponderante rispetto alle altre. Si pensi a tutta la struttura dell'Ufficio:

- l’invitatorio: ogni giorno, la prima preghiera delle Ore si apre con una invocazione al Signore perché apra le nostre labbra e ci renda degni di proclamare le sue lodi.

Segue il Salmo invitatorio (Sal 94) che è tutto un invito a lodare Dio: applaudiamo, acclamiamo, rendiamogli grazie con canti di gioia, prostràti adoriamo. Oppure il Sal 99, che esprime la gioia di coloro che entrano nel tempio.

All'inizio di ogni giorno, la Chiesa mette sulle nostre labbra il canto della vittoria, il canto della lode: acclamiamo, serviamo, lodiamo, benediciamo il Signore perché è buono, perché eterna è la sua misericordia.

- le Lodi mattutine: come dice lo stesso nome, questa prima preghiera del mattino è tutta pervasa da sentimenti di lode-eucaristia. Tutti i Salmi delle Lodi, compreso il Cantico, hanno un tono laudativo. Citiamo ad esempio le Lodi della domenica- I settimana:

* Salmo 62: poiché la tua grazia vale più della vita, le mie labbra diranno la tua lode;

* Cantico: Benedite, opere tutte del Signore, il Signore, lodatelo ed esaltatelo nei secoli (Dan 3,57);

* Salmo 149: Cantate al Signore un canto nuovo; la sua lode nell'assemblea dei fedeli.

Quanto detto per l'invitatorio e per le Lodi mattutine vale anche per il resto dell'Ufficio. Si faccia dunque attenzione a questo aspetto «eucaristico» che caratterizza anche la Liturgia delle Ore e non si dimentichi che l'antica tradizione ha chiamato con lo stesso nome di «Sacrificio della lode» sia l'Eucaristia, sia la Liturgia delle Ore.

Il memoriale.

Mentre nella celebrazione eucaristica la Chiesa celebra il «memoriale» della morte-risurrezione del Signore ricorrendo al segno sacramentale del pane e del vino, nella Liturgia delle Ore il segno sacramentale da santificare è il tempo. Abbiamo già detto che ogni santificazione trae origine necessariamente dalla Pasqua del Signore. Per santificare il tempo occorre dunque farlo partecipe della Pasqua. E' questo il compito del «memoriale»: rendere attuale-efficace-presente il passato ed anticipare il compimento futuro nell'«oggi» della Chiesa.

Nella celebrazione delle Ore si farà dunque caso che ogni «Ora» è messa necessariamente in contatto con un avvenimento storico della vita del Signore. In forza del «memoriale» efficace posto in atto dall'azione santificante dello Spirito che «tutto ricorda» (Gv 14, 26), la Pasqua non è più un fatto lontano nel tempo e fuori della nostra portata; essa diventa contemporanea a noi e noi contemporanei ad essa. Il «memoriale» fa sì che «dove sono due o tre riuniti nel mio nome io sono in mezzo a loro» (Mt 18,20).

Si dovrà dunque fare attenzione, nella celebrazione dell'Ufficio, che ogni «ora» ha una connotazione pasquale in quanto è collegata ad un avvenimento della Pasqua del Signore. Per facilitare questo tipo di lettura, facciamo un elenco di questi momenti pasquali di cui si fa «memoriale» nelle Ore:

- Lodi mattutine: si fa memoria della Risurrezione di Cristo, la «luce vera che illumina ogni uomo» (Gv 1,9), il «Sole di giustizia» (Mal 4, 2), il a Sole che spunta dall'alto» (Lc 1,78) (Inno di Lodi, I sett.);

- Ora terza: si fa memoria della Pentecoste: «Venga su noi, Signore, il dono dello Spirito, che in quest'ora discese sulla Chiesa nascente» (Inno, Terza).

- Ora sesta: si fa memoria della Crocifissione: «In quest'ora sul Golgota, vero agnello pasquale, Cristo paga il riscatto per la nostra salvezza» (Inno, Sesta).

- Ora nona: si fa memoria di s. Pietro che sale al tempio a pregare: «San Pietro che in quest'ora salì al tempio a pregare, rafforzi i nostri passi sulla via della fede» (Inno, Nona).

- Vespri: si fa memoria del sacrificio di Cristo sulla croce; dell'Ultima Cena; del Cristo-Luce, splendore della gloria del Padre (Eb 1,3); dello Spirito Santo, fiamma che viene dal Padre dei lumi (Gc 1,17). Nell'ora in cui viene la notte e si accende la lucerna, la Chiesa rivolge la propria lode-ringraziamento a Colui che è «luce d'eterna luce», giorno senza tramonto (Inno e orazione dei Vespri).

- Compieta: si fa memoria del Cristo che scende nel riposo della tomba con la certezza del prossimo giorno radioso della risurrezione; vi sono richiami anche alla Venuta ultima del Signore alla fine dei tempi (Inno e orazione di compieta).

Circa l'antichità di questo metodo di «pasqualizzare» le Ore ascoltiamo la testimonianza di s. Agostino:

 «Alla sera il Signore in croce, alla mattina nella risurrezione, a mezzogiorno nell'Ascensione... alla sera narrerò la pazienza del Morente, alla mattina annuncerò la vita del Risorgente, a mezzogiorno pregherò Colui che siede alla destra del Padre per essere esaudito» (In Ps. 54, I8).

Ogni «Ora» ha dunque un aggancio con la Pasqua del Signore. In forza del «memoriale» efficace ad opera dello Spirito, noi diventiamo gli uomini della Pasqua.

L'offerta.

Come nell'Eucaristia, nei segni del pane e del vino, doni di Dio e frutto del nostro lavoro, ci offriamo con Cristo al Padre, così nella Liturgia delle Ore, nel segno del tempo, possiamo offrire a Dio tutta la nostra esistenza. Offrendo il tempo santificato dalla lode, noi intendiamo offrire noi stessi in quanto immersi nel tempo. In «quel» tempo noi riconosciamo e offriamo «tutto» il tempo e tutta la nostra vita.

Nella Liturgia delle Ore l'offerta sacrificale non è più il pane e il vino, segno del Corpo sacrificato del Signore, ma il «tempo» in quanto «sacrificio della lode». Per questo preghiamo: «accogli, o Padre buono, il canto dei fedeli nel giorno che declina»; «accogli il nostro canto nella quiete del vespro».

Lc Ore diventano così quel meraviglioso ponte che, attraversando tutta la giornata, riunisce il prima e il poi del nostro tempo quotidiano immergendolo nel «tempo della salvezza» proprio in forza del «memoriale».

Supplica e intercessione.

Oltre alla lode di Dio, la Chiesa nella Liturgia esprime i voti e i desideri di tutti i cristiani, anzi supplica Cristo e, per mezzo di lui, il Padre per la salvezza di tutto il mondo. Questa voce non è soltanto della Chiesa, ma anche di Cristo, poiché le preghiere vengono fatte a nome di Cristo, cioè «per il nostro Signore Gesù Cristo», e così la Chiesa continua a fare quelle suppliche che Cristo offrì nei giorni della sua vita terrena (cf Eb 5,7) e che perciò godono di una efficacia particolare.

E così, non solo con la carità, con l'esempio e con le opere di penitenza, ma anche con l'orazione la comunità ecclesiale esercita la sua funzione materna di portare le anime a Cristo (cf PO 6).

Si noterà l'arricchimento della nuova Liturgia delle Ore in rapporto a questa dimensione eucaristica della «supplica e intercessione». Al mattino e alla sera (Lodi e Vespri) preghiamo con le Invocazioni e le Intercessioni, secondo l'insegnamento dell'apostolo Paolo il quale raccomanda che: «Si facciano domande, suppliche, preghiere e ringraziamenti per tutti gli uomini...» ( 1 Tm 2,11).

Santificare il tempo equivale a santificare l'uomo che vive nel tempo. Dal momento che il «culmine» e la «fonte» di ogni santificazione sta nella Pasqua del Signore offerta a noi nell'Eucaristia della Chiesa, necessariamente anche la Liturgia delle Ore, per essere azione santificante, deve avere in stretto rapporto con l'Eucaristia. Questo rapporto consiste nel «distribuire» durante la giornata, nelle singole «Ore», la stessa celebrazione eucaristica con i suoi elementi costitutivi: la lode e l'azione di grazie, il memoriale, l'offerta, la supplica e le intercessioni. In questo modo anche il nostro tempo diventa un tempo pasquale-eucaristico: «preparazione alla prossima eucaristia.

L'aver insistito sull'intima connessione tra Liturgia eucaristica e Liturgia delle Ore serve a farci prendere coscienza che «Nella Liturgia delle Ore si compie la santificazione dell'uomo e si esercita il culto divino...» (IGLO I4).

In questo modo è più facilmente percepibile il rischio che spiritualmente corrono coloro che, con troppa superficialità, trascurano di pregare le «Ore». Proprio perché «estensione» dell'Eucaristia, la Liturgia delle Ore è definita come «santificazione dell'uomo», fonte di «santificazione larghissima» (IGLO 14), «genuina fonte di vita cristiana» (IGLO 18).

Il Signore dia efficacia e sviluppo alle nostre opere, così che ogni giorno veniamo edificati per diventare tempio di Dio, per mezzo dello Spirito, fino alla misura che conviene alla piena maturità di Cristo e nello stesso tempo irrobustisca le nostre forze per evangelizzare il Cristo a coloro che ancora non lo conoscono.

4  -  LA SANTIFICAZIONE DEL GIORNO

Dimensione oraria  e personale delle Ore

«Poiché la Liturgia delle Ore è santificazione della giornata, l'ordinamento dell'orazione è stato riveduto in modo che le Ore canoniche possano più facilmente corrispondere alle varie ore del giorno, tenuto conto delle condizioni in cui si svolge la vita degli uomini del nostro tempo»  (Laudis canticum, n. 2).

Nella rinnovata Liturgia delle Ore si può dunque riscontrare una duplice sensibilità: ridare a ciascuna Ora la sua funzione e il suo spazio (dimensione oraria); rendere possibile a tutto il popolo di Dio, compresi i laici, la partecipazione attiva alla celebrazione comunitaria della Liturgia delle Ore (dimensione personale).

 

Dimensione «oraria» della Liturgia delle Ore

Rispetto alle altre forme di culto, fin dall'antichità la Chiesa ha caratterizzato la Liturgia delle Ore con un evidente carattere di continuità, di ritmo, di cadenza ciclica, secondo un particolare ordinamento cronologico.

La celebrazione eucaristica, ad esempio, non è legata ad un ritmo orario fisso. Ben diversa invece la posizione della Liturgia delle Ore che, come dice espressamente il Concilio «è ordinata a santificare tutto il corso del giorno e della notte per mezzo della lode divina» (SC 84).

Però, pur rispettando questa inalienabile qualità, il ritmo della «orarietà» è impostato tenendo conto delle esigenze dell'uomo moderno. Cercheremo di vedere le principali «varianti» apportate al precedente Breviario e soprattutto di individuare la qualità specifica di ogni ora di preghiera.

Le Lodi mattutine e i Vespri

«Le Lodi, come preghiera del mattino e i Vespri, come preghiera della sera, che secondo la venerabile tradizione di tutta la Chiesa, sono il duplice cardine dell'Ufficio quotidiano, devono essere ritenute le Ore principali e come tali celebrate (IGLO 37).

Le lodi mattutine: sono destinate e ordinate a santificare il tempo mattutino come appare da molti dei loro elementi. L'Inno del martedì, ad esempio, canta: «Già l'ombra della notte si dilegua, un'alba nuova sorge all'orizzonte: con il cuore e la mente salutiamo il Dio di gloria».

Tale caratteristica mattutina è espressa assai bene da queste parole di san Basilio Magno:«La preghiera mattutina è fatta per consacrare a Dio i primi moti della nostra mente e del nostro spirito in modo da non intraprendere nulla prima di esserci rinfrancati col pensiero di Dio, come sta scritto: Mi sono ricordato di Dio e ne ho avuto letizia (Sal 76, 4), né il corpo si applichi al lavoro prima di aver fatto ciò che è stato detto: Ti prego, Signore, al mattino ascolta la mia voce; fin dal mattino t'invoco e sto in attesa (Sal 5,45)».

Oltre questa preoccupazione di carattere «cronologico», cioè la santificazione delle prime ore della giornata, sta la necessità di carattere «misterico» e cioè l'aggancio di questo tempo con la Pasqua di Cristo in modo da renderlo tempo pasquale e quindi tempo di salvezza.

Le Lodi mattutine, che si celebrano allo spuntare della nuova luce del giorno, sono «memoriale» della risurrezione del Signore Gesù, «Luce vera che illumina ogni uomo» (Gv 1,9) e «sole di giustizia» (Mal 4, 2), «che sorge dall'alto» (Lc 1,78).

Perciò ben si comprende la raccomandazione di san Cipriano: «Bisogna pregare al mattino, per celebrare con la preghiera mattutina la risurrezione del Signore».

Pertanto, se vogliamo stare con le direttive e lo spirito del Concilio, le Lodi mattutine devono essere considerate come la preghiera ideale dei cristiani per la mattina, specialmente per quanti fanno vita comunitaria:

«Si devono tenere in grandissima considerazione le Lodi mattutine come preghiera della comunità cristiana: la loro celebrazione pubblica e comune sia incoraggiata specialmente presso coloro che fanno vita in comune. Anzi, la loro recita sia raccomandata anche ai singoli fedeli che non possono partecipare alla celebrazione comune» (IGLO 40).

Vespri: significano «tramonto» e in quanto tali «si celebrano quando si fa sera e il giorno ormai declina» (IGLO 39).

Hanno quindi un carattere marcatamente serale e non pomeridiano; vanno dunque collocati nel tempo che comincia dal tramonto, come ben suggeriscono gli Inni: «Accogli o Padre buono, il canto dei fedeli nel giorno che declina» (martedì); «Ecco il sole scompare all'estremo orizzonte; scende l'ombra e il silenzio sulle fatiche umane» (giovedì).

Scopo di questo secondo «cardine» dell'Ufficio quotidiano è quello di santificare il tempo della sera: «per rendere grazie di ciò che nel medesimo giorno ci è stato donato o con rettitudine abbiamo compiuto»( san Basilio ).

E' la preghiera dell'azione di grazie e dell'offerta.  Superato il culto dell'antica alleanza, Cristo ha voluto che il «sacrificio della sera» fosse ormai costituito dal «levarsi delle nostre mani» in preghiera «come incenso davanti al Signore» (Sal 140,2).

A dar valore a questo «sacrificio vespertino» della nostra preghiera è l'unione ad un duplice avvenimento pasquale di cui noi facciamo memoria quando scende la sera:

«l'autentico sacrificio vespertino è quello che il Signore e Salvatore affidò, nell'ora serale, agli apostoli durante la Cena, sia quello del giorno dopo, quando, con l’elevazione delle sue mani in croce, offrì al Padre per la salvezza del mondo intero se stesso, quale sacrificio della sera, cioè come sacrificio della fine dei secoli» (Cassiano).

Nell'ora in cui Cristo celebra il suo sacrificio eucaristico nell'Ultima Cena e quando questo stesso sacrificio lo compie sulla Croce, la Chiesa si unisce al sacrificio pasquale del suo Sposo e Signore e canta:

«0 luce gioiosa della santa gloria dell'eterno Padre celeste, Gesù, Cristo; giunti al tramonto del sole, vedendo il lume della sera, celebriamo il Padre, e il Figlio e lo Spirito Santo Dio...» (san Basilio).

Si ricorderà che la preghiera del Vespro affonda le sue radici già nella tradizione giudaica: era la preghiera di benedizione che gli ebrei rivolgevano al Signore al momento di accendere la lampada quando si faceva notte.  Questo fatto contribuì a dare alla preghiera cristiana del Vespro sia un significato «escatologico» in quanto indica la fine del tempo e l'eternità gloriosa, sia un significato «trinitario» in quanto canta la gloria di Cristo il Verbo-luce, Luce da Luce, splendore della gloria del Padre (Eb 1,3), datore dello Spirito Santo, Fiamma che viene dal Padre dei lumi ( Gc 1, 17).

Da quanto detto sulla natura e la funzione delle Lodi mattutine e dei Vespri si dovrebbe concludere che oltre «le preghiere» del mattino o della sera, vi è soprattutto «la preghiera» ecclesiale e liturgica delle Ore che ogni cristiano (anche i laici e non solo i religiosi) dovrebbe considerare come propria preghiera personale e comunitaria.

L'Ufficio delle Letture

L'Ufficio delle letture ha lo scopo di proporre al popolo di Dio, e specialmente a coloro che sono consacrati al Signore in modo particolare, una meditazione più sostanziosa della Sacra Scrittura e delle migliori pagine degli autori spirituali. Sebbene, infatti, già la liturgia eucaristica quotidiana offra un ciclo più abbondante di letture della Sacra Scrittura, sarà di grande profitto per lo spirito anche quel tesoro della rivelazione e della tradizione contenuto nell'ufficio delle letture. Soprattutto i sacerdoti devono cercare questa ricchezza per poter dispensare a tutti la parola di Dio, che essi stessi hanno ricevuto, e per fare della dottrina che insegnano il nutrimento per il popolo di Dio (IGLO 55).

L'ufficio delle letture ha quindi un'intonazione contemplativa e meditativa che gli deriva dal fatto di avere nelle letture della Scrittura e dei Padri la parte preponderante.

Più che nelle altre Ore, qui è accentuata l'azione di Dio che parla e si manifesta. Ma la Parola di Dio provoca ed esige una risposta. Per facilitare questo colloquio divino-umano, l'Ufficio delle letture comprende anche un Inno, tre Salmi, un'orazione.

Non dovrebbe sfuggire l'indicazione dell’Istituzione Generale della Liturgia delle Ore (IGLO) che anche qui, come del resto già nella parte generale (cf nn. 20. 28), dopo aver ricordato che questa preghiera è di tutto il popolo di Dio, dichiara che essa appartiene «specialmente a quelli che sono consacrati al Signore in modo particolare» (IGLO 55).

Rispetto al «Mattutino» del precedente Breviario, l'attuale Ufficio delle letture «pur conservando il carattere di preghiera notturna per il coro, deve essere adattato in modo che si possa recitare in qualsiasi ora del giorno, e avere un minor numero di salmi e letture più lunghe» (IGLO 57).

Questo Ufficio ha dunque un duplice carattere: notturno e diurno. Per tale ragione è stata predisposta una duplice serie di Inni, una per quando si prega in ore notturne e una per quando si prega in qualsiasi ora del giorno.

Il tempo più adatto per pregare l'Ufficio delle letture è dunque «qualsiasi ora del giorno» (IGLO 59), pur restando «lodevole» la tradizione di coloro che volessero recitarlo di notte o di buon mattino prima delle Lodi. In questo caso acquista il tono di celebrazione vigiliare e può essere recitato «anche nelle ore notturne del giorno precedente, dopo aver recitato i Vespri» ( IGLO 59 ) .

Celebrazioni vigiliari.

Dopo il ripristino, non senza lentezze, della Veglia pasquale «madre di tutte le veglie» si è sentito il bisogno di estendere questa consuetudine anche ad altre solennità come il Natale e la Pentecoste. Questa tradizione merita di essere conservata e promossa; eventualmente estesa anche ad altre solennità o in occasione di pellegrinaggi. I Padri e gli autori spirituali, infatti, spessissimo hanno esortato i fedeli, specialmente coloro che fanno vita contemplativa, alla preghiera notturna, con la quale si esprime e si incita all'attesa del Signore che tornerà: «A mezzanotte si levò un grido: Ecco lo sposo, andategli incontro!» (Mt 25,6); «Vigilate, dunque, poiché non sapete quando il padrone di casa ritornerà, se alla sera, o a mezzanotte, o al canto del gallo, o al mattino, perché non giunga all’improvviso, trovandovi addormentati» (Mc 13,35-36).

Sono dunque degni di lode tutti coloro che conservano all'Ufficio delle letture il suo carattere notturno (IGLO 70-72).

Ora media.

Secondo una tradizione antichissima i cristiani erano soliti pregare per devozione privata in diversi momenti nel corso della giornata, anche durante il lavoro, per imitare la Chiesa apostolica.

Questa tradizione, con l'andar del tempo, si concretizzò in celebrazioni liturgiche fissate a tempi determinati detti latinamente terza, sesta, nona, secondo la terminologia cronologica dei Romani antichi.

Nel precedente Breviario queste tre Ore erano obbligatorie. La riforma liturgica del Vaticano II ha invece introdotto una duplice possibilità:

- restano obbligatorie: per coloro che fanno vita contemplativa, per coloro che sono tenuti al coro, per coloro che l'hanno prescritta per Regola; sono raccomandate per coloro che fanno dei ritiri, esercizi spirituali o convegni pastorali. Il Concilio, quindi, non solo non le ha soppresse, ma le consiglia come una forma più completa di preghiera per coloro che lo possono o lo vogliono;

- se ne può scegliere una: quella che più si adatta al momento della giornata, in modo che sia conservata la tradizione di pregare nel corso della giornata nel mezzo del lavoro. Per questo motivo è stata chiamata «Ora media» in quanto è destinata a santificare lo spazio intermedio fra Lodi e Vespri, fra la mattina e la sera.

L'uso liturgico di santificare ciascuna di queste tre Ore permise di concentrare attorno a ciascuna ora qualche episodio della Pasqua del Signore o della primitiva comunità apostolica:

- ora terza: si fa memoria della discesa dello Spirito Santo nella Pentecoste e della via dolorosa di Cristo verso il Calvario;

- ora sesta: si fa memoria dell'Ascensione di Cristo, del suo aver sete sulla croce, delle tenebre del mondo al momento della passione, della preghiera di Pietro e la rivelazione che ebbe circa la salvezza dei pagani;

- ora nona: si fa memoria dell’agonia di Cristo, della supplica del buon ladrone e la risposta del Crocifisso, della preghiera degli Apostoli al tempio e la guarigione dello zoppo alla porta Bella, dell'apparizione dell'angelo a Cornelio.

L'ordinamento di Terza, Sesta, Nona è strutturato in modo da tener conto sia di coloro che dicono soltanto un'Ora, cioè l'«Ora media», sia di coloro che devono o desiderano dire tutte e tre le Ore. Per questo motivo ogni Ora ha gli elementi suoi propri. Solo la salmodia è comune; è prevista però una salmodia complementare per chi vuol recitare tutte e tre le Ore.  

Compieta.

Compieta è l'ultima preghiera canonica del giorno, da recitarsi prima del riposo notturno (eventualmente anche dopo la mezzanotte) e pertanto, come dice il significato della parola, è la preghiera che dà «compimento» e «conclusione» al lavoro della giornata.

Essendo la preghiera destinata a preparare e santificare il riposo notturno, ha per tema generale la confidenza in Dio. Si sa infatti che, secondo l'idea degli antichi, la notte è il tempo della pericolosità e delle insidie. Per questo la Chiesa mette sulle nostre labbra espressioni di fiducia nella protezione di Dio misericordioso. Ad essa è associato anche l'esame di coscienza di tutta la giornata e quindi acquista anche un carattere di pentimento e di richiesta di perdono a Dio.

Concludendo questa riflessione sulla «orarietà» delle Ore e sulla natura e lo scopo di ciascuna di esse, vorremmo sottolineare ancora l'elemento specifico che le caratterizza: santificare tutto il corso del giorno e della notte per mezzo della lode divina (SC 84).

L'Ufficio divino diventa così «segno sacramentale» di santificazione di tutta l'attività umana e, con i brevi momenti della preghiera delle Ore, mira a ordinare tutto e tutte le cose alla glorificazione di Dio e a coinvolgerli nell'economia della salvezza.

Avendo come suo primo modello la lode trinitaria che è eterna, senza pause o interruzioni, la Liturgia delle Ore diviene «segno sacramentale» anche della lode trinitaria.

Ne consegue che il rispetto dei tempi previsti per la preghiera delle Ore non è una semplice esigenza rubricale o giuridica, ma piuttosto l'esigenza di rispettare la «sacramentalità» di questa preghiera in quanto memoriale efficace di un determinato tempo di salvezza. Celebrare le Ore fuori del loro spazio sembra dare un tono falso alle preghiere che pure sono legate al mistero di Cristo compiuto in un tempo ben determinato. Per un principio di verità e di autenticità si richiede pertanto che «nel celebrare la Liturgia delle Ore si rispetti, per quanto è possibile, il loro vero tempo» (IGLO 29).

 

Dimensione «personale» della Liturgia delle Ore

L'eccessiva considerazione degli «elementi» della preghiera delle Ore e l'insistenza sulla necessità di una loro celebrazione «comunitaria» potrebbero creare il grosso equivoco di una preghiera estranea a colui che prega, una preghiera che non riesce a coinvolgere la sua personalità orante.

Occorre dunque riflettere sulla dimensione «personale» di questa preghiera nel senso che ciascuno è chiamato ad entrarvi dentro come nella propria preghiera in modo che essa diventi fonte di pietà e nutrimento della propria preghiera personale» (SC 90). In una parola: la Liturgia delle Ore deve essere autenticamente pregata coinvolgendo tutta la persona in un insieme armonico di tempo e di preghiere.

«Perché questa preghiera sia propria di ciascuno di coloro che vi prendono parte e sia parimenti fonte di pietà e di molteplice grazia divina, e nutrimento dell'orazione personale e dell'azione apostolica, è necessario che la mente stessa si trovi in accordo con la voce mediante una celebrazione degna, attenta e fervorosa» (IGLO 19)

Tutto questo suppone che al movimento esteriore delle labbra deve accompagnarsi quello profondo dei pensieri, della volontà e degli affetti. E' forse opportuno ricordare che le «formule di preghiera» non sono preghiera, ma mezzi o strumenti per pregare.

Come tutta la Liturgia, anche la preghiera delle Ore è una realtà sacramentale composta di elementi sensibili chiamati «segni». Mediante questi segni (salmi, letture, orazioni, ecc.) la realtà divina irrompe nella nostra vita di uomini. La Chiesa offre dunque degli strumenti di preghiera, dei «segni», ma il contenuto salvifico viene dall'alto. Attraverso questo spazio orante che noi offriamo, Dio effonde nell'oggi il suo mistero di salvezza.

Possiamo pertanto dire che tutta la Liturgia delle Ore è azione santificante di Dio mediante la grande intercessione di Cristo nostro Sommo Sacerdote. Dal momento però che Cristo ha unito indissolubilmente a sé la Chiesa come sua Sposa, la sua e la nostra voce formano un unico cantico di lode al Padre. Ma come potrebbe Cristo assumere la mia preghiera e farla sua se io di fatto non prego limitandomi a pronunciare dei suoni e a muovere semplicemente le labbra?

«Se il cuore non prega, la bocca si muove invano» e Cristo non può far sua una preghiera che in me non esiste. Se da una parte è doveroso occuparsi delle «tecniche» di preghiera e sul modo di recitare decorosamente la Liturgia delle Ore, dall'altra si tenga presente che a questi strumenti esterni deve fare riscontro una partecipazione interiore e personale di colui che prega.

La quantità sulla quantità.

Gesù stesso aveva messo in guardia i suoi contro la comune concezione pagana della preghiera che consisteva nello «stancare gli dei» moltiplicando le parole. Egli al contrario dice: «Non moltiplicate le parole come i pagani, i quali pensano di essere esauditi per la quantità delle loro parole» (Mt 6,7).

Nel riformare la Liturgia delle Ore, il Vaticano II si è preoccupato della «qualità» della preghiera rivedendo la «quantità» della medesima. Distribuendo ad esempio i Salmi nell'arco di quattro settimane (prima erano concentrati in una settimana) non si è voluto certo incoraggiare la pigrizia col pregare di meno, ma si è voluto privilegiare la qualità aiutando a pregare meglio. Non si è voluto diminuire il tempo da dedicare alla preghiera, ma si è voluto allargare la strada del Signore perché possa più facilmente penetrare nel nostro cuore attraverso la lenta «ruminazione» delle preghiere che pronunciamo («la mente si trovi in accordo con la voce»).

Già l'antico monachesimo orientale era arrivato alle stesse conclusioni secondo quanto ci riferisce Cassiano:

«(I monaci) non pongano la loro compiacenza nella quantità dei versi, ma nella loro comprensione... Ritengano perciò molto più utile dire dieci versi con la necessaria calma contemplativa, che eseguire tutto il Salmo con quella confusione mentale che solitamente è generata dalla fretta di arrivare alla fine» (Cassiano, Institutiones, 2. 11).

Nella nostra comunità, pertanto, interroghiamoci se c'è davvero questo desiderio di favorire una autentica preghiera «personale» ricercando la «qualità» dell'orazione senza per questo rubare il tempo alla preghiera.

Comunione e comunità

Per avere una Liturgia delle Ore che sia autentica preghiera «personale», occorre ricercare anche un giusto equilibrio con la sua dimensione «comunitaria». Coloro che pregano non sono una giustapposizione di persone, ma una «comunità» orante riunita e amalgamata dalla presenza dello Spirito del Signore Risorto. Con le parole di s. Ignazio di Antiochia dovremmo parlare delle nostre comunità in preghiera come di un coro che canta l'unica melodia divina nell'armonia formata dalla diversità delle voci:

«Nel vostro spirito unanime e nella vostra carità all'unisono si canta Gesù Cristo. E formate tutti insieme un coro per cantare in un'armonia unica e in un'unica tonalità a una sola voce per mezzo di Gesù Cristo al Padre, affinché egli pure vi oda e riconosca, attraverso ciò che fate, come voi siete membra di suo Figlio» (s. Ignazio, Agli Efesini IV. 1-2).

Lo stesso santo martire, scrivendo ai cristiani di Magnesia, diceva:

«Quando vi radunate insieme, una sola sia la preghiera, una la supplica, una la mente, unica la speranza, nella carità, nella gioia santa che è in Gesù Cristo, oltre il quale nulla vi è di superiore. Tutti correte insieme come in un solo tempio di Dio, come a un solo altare, intorno all'unico Gesù Cristo, che è uscito dal solo Padre, e presso quello solo dimorò, e a quello solo è tornato» (s. Ignazio, Ai Magnesi, 8, 1) .

E san Cipriano aggiungeva: «Vale più l'orazione concorde di pochi, che quella discorde di molti».

Ne consegue che per pregare bene la Liturgia delle Ore si deve creare una «comunità in comunione» dove le singole voci oranti non sono annullate ma piuttosto convergono con il loro personale contributo di preghiera che si manifesta con la fusione delle voci nelle acclamazioni e nel canto, nel ritmo della salmodia, nel modo di eseguire i gesti previsti.

Ci siamo soffermati a riflettere sulla Liturgia delle Ore mettendone in risalto la dimensione «oraria» e «personale». Caratterizzandosi come preghiera destinata, per antica tradizione cristiana, a «santificare tutto il corso del giorno e della notte» (IGLO 10) esige che se ne rispetti questa specifica dimensione «oraria» «celebrando le singole Ore osservando, per quanto è possibile, il loro vero tempo» (IGLO 29).

Inoltre, per il fatto di essere essenzialmente preghiera di Cristo e della Chiesa, non si deve diminuire la portata «personale» di questa preghiera: Cristo e la Chiesa, infatti possono assumere la mia preghiera solo se di fatto io prego. Pronunciare parole ed emettere suoni dalle labbra, non è ancora pregare. La preghiera nasce dall'accordo della voce con la mente e con il cuore. Non dunque una preghiera anonima, ma una preghiera di persone oranti che si fondono insieme per formare una comunità in comunione e per essere membra armoniche dell'unico Corpo sacerdotale di Cristo Signore.

 

5  -  I SALMI

Il nome - Il genere letterario

Proseguendo la nostra riflessione sulla Liturgia delle Ore, siamo arrivati a parlare di quella parte così preponderante costituita dai Salmi.

Già la Costituzione sulla sacra Liturgia esortava a questo studio: «Poiché l'Ufficio divino in quanto preghiera pubblica della Chiesa, è fonte di pietà e nutrimento della preghiera personale, si esortano, nel Signore, i sacerdoti e tutti gli altri che partecipano all'Ufficio divino a fare in modo che, nel recitarlo, la mente corrisponda alla voce. A tale scopo si procurino una maggiore istruzione liturgica e biblica, specialmente riguardo ai Salmi» (SC 90; IGLO 102).

Se vogliamo che la nostra mente si trovi in accordo con la nostra voce, dobbiamo necessariamente conoscere quelle parole e quelle espressioni che la Chiesa pone sulle nostre labbra. Iniziamo quindi con una certa sistematicità a scoprire il senso e il valore di queste antichissime preghiere in modo da avere una partecipazione più intelligente e spirituale alla preghiera liturgica della Chiesa qual è appunto la Liturgia delle Ore.

Il nome

Il nome «Salmo» ha la sua origine nella traduzione greca dei «Settanta»  che dà a questo libro della Bibbia il titolo di «psalmòi», cioè «cantici da eseguire al suono del salterio». Il verbo greco «psallein» significa infatti pizzicare con le dita uno strumento a corda, detto «salterio». Furono quindi chiamati «psalmòi» quei cantici biblici che venivano cantati con l'accompagnamento di uno strumento a corda (il salterio o anche la lira).

Nelle Bibbie ebraiche questo libro porta il nome di «tehillim», cioè «cantici di lode», ed occupava il primo posto tra quei libri che noi siamo soliti chiamare «sapienziali».

I Salmi pertanto non sono letture, né preghiere scritte in prosa, ma poemi di lode. Quindi anche se talvolta sono stati eseguiti come letture, tuttavia, in ragione del loro genere letterario, giustamente furono chiamati dagli ebrei «cantici di lode» da pregare cantando. Ne consegue che, per questo loro costitutivo carattere musicale, anche quando vengono recitati senza canto, devono sempre conservare questo stile musicale che tende a muovere il cuore di quanti li pregano.

L'origine.

Quasi la metà di tutto il Salterio (150 Salmi) è attribuita a Davide. E' probabile che tale attribuzione sia sostanzialmente vera anche se si deve supporre che alcuni di questi Salmi molto antichi siano stati rimaneggiati con aggiunte o soppressioni per esigenze liturgiche. Altri autori sono: Asaf (cui vengono attribuiti 12 Salmi) capo di una famiglia di cantori che sopravvisse fino all'esilio; Core (11 Salmi) capo di un'altra famiglia di cantori; Mosè (1 canto), Salomone (2 Salmi), Heman (1 Salmo). Gli altri Salmi sono anonimi, per lo più inni di lode e di ringraziamento a Dio: fra di essi si distinguono i cosiddetti «Salmi graduali» (120-134) di origine levitica e composti per il canto processionale dei pellegrini in occasione della loro salita al Tempio nelle tre grandi feste di pellegrinaggio (Pasqua, Pentecoste, Tabernacoli).

Come si vede, la formazione del Salterio non è stata fatta né a tavolino né in un ristretto periodo di tempo. Per la sua lenta composizione sono occorsi quasi un migliaio di anni lungo i quali ogni generazione ha portato il suo contributo, trasfondendo in questi canti le fervide preghiere di tutto un popolo, l'amore verso il proprio Dio, il lamento sulle miserie della vita quotidiana, il desiderio ardente verso un avvenire di serenità e di pace.

Per avere un'idea sull'origine del Salterio possiamo fare un qualche paragone con i nostri canti popolari: il più delle volte non sappiamo chi sia l'autore, ma col passare delle generazioni i migliori di questi canti si sono affermati con qualche rimaneggiamento fino a divenire patrimonio comune di tutto un popolo. La stessa cosa possiamo dire dei Salmi: lo Spirito Santo ha ispirato questi poeti dello spirito e della preghiera mettendo sulle loro labbra quelle espressioni che Dio stesso ha ritenuto adatte ad esprimere l'intenso amore che lega un popolo al proprio Signore.

In occasione della preghiera del sabato nella sinagoga, e soprattutto in occasione del lento salire a Gerusalemme per il pellegrinaggio, tutta la carovana dei pellegrini pregava cantando e lodando Dio per le immense meraviglie compiute a favore del suo popolo. I fiori del campo, gli uccelli dell'aria, sono tutti motivi che suscitano sentimenti di lode e di gratitudine a Colui che ha creato con sapienza e amore tutte le cose.

La liturgia della sinagoga o del tempio diviene il momento privilegiato di esecuzione e di ascolto di questi canti; i migliori si imparano subito a memoria e ritornando a casa sono ripetuti con profonda commozione e rispetto quasi assaporando quei momenti indimenticabili trascorsi nella casa del Signore.

All'epoca dei Maccabei (2° sec. a.C.) il libro del Salterio è pressoché definito così come noi oggi lo conosciamo. Dei numerosi canti ne sono conservati 150: quasi tutti portano un titolo che serve ad indicare l'autore, il genere poetico, il tono musicale con cui si deve cantare, l’uso liturgico, la circostanza della sua composizione.

L'insieme dei 150 Salmi formò dunque uno dei Libri della Bibbia dell'Antico Testamento chiamato «Salterio». Al tempo di Gesù tale libro era già stabilizzato nei contenuti e costituiva la base principale della preghiera di ogni pio Israelita. Questo spiega come essi, dopo aver risuonato per secoli sulle labbra dei fedeli e nei cori dei Leviti ebrei, furono amati da Gesù che con parole tratte da essi espresse la sua angoscia e la sua confidenza con il Padre durante tutta la sua vita e soprattutto nei giorni della sua passione.

La Chiesa li accolse come suo tesoro e da due millenni li ripete con quegli stessi sentimenti con i quali Gesù offrì lodi e suppliche al Padre.

I Salmi diventano cosi abituali anche presso i cristiani tanto da suscitare questa testimonianza di S. Giovanni Crisostomo:

«Se noi celebriamo le vigilie in Chiesa, Davide viene primo e ultimo e in mezzo; se facciamo lutto per i trapassati, se le vergini in casa siedono al telaio, ancora Davide è primo e ultimo e in mezzo. O meraviglia! Molti che appena conoscono i primi rudimenti delle lettere sanno il Salterio a memoria».
 

Il Salterio.

Tra i 46 Libri di cui si compone l'antico Testamento nella Bibbia cattolica, il Libro dei Salmi è al 23° posto (dopo i Libri della Legge e i Libri storici e prima dei Libri profetici). Per conoscere meglio questo libro della Bibbia parleremo della sua divisione, del suo genere letterario, della sua numerazione.

La divisione del Salterio

Già la tradizione ebraica prima di Cristo aveva diviso il Salterio in cinque libri: come vi erano i cinque libri o «Pentateuco della Torah», cioè della Legge, intesa come proposta di Dio al suo popolo, così dovevano esserci anche cinque libri, il «Pentateuco della Tefillah», cioè della preghiera e della lode intesa come risposta del popolo al proprio Dio.

Ciascuno di questi cinque libri della preghiera è concluso da una «dossologia» o invocazione di lode (Salmo 41,14; 72, 18-20; 89, 52; 106, 48):

- 1° libro (Sal 1-41). E' dedicato ai Salmi che descrivono l'affronto tra il giusto credente e l'empio. Il Salmo 1, quello delle «due vie», apre la raccolta mostrando l'inconciliabilità e la diversa sorte dell'uomo, a seconda della sua posizione nei confronti di Dio. Il punto più profondo di contrasto si ha nel Salmo 22, il Salmo con cui ha pregato Gesù sulla croce («Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato»: Mt 27, 46) quale massima espressione dell'angoscia e della fiducia in Dio espressa dal giusto perseguitato. Il confronto continua fino al Salmo 41, dove si parla del giusto che languisce nel suo letto di dolore mentre gli stessi amici alzano il calcagno contro di lui: ma il Signore lo custodirà e gli darà vita.

- 2° libro ( Sal 42-47 ). Si apre con Salmi che descrivono il desiderio di Dio da parte dei fedeli che sono in esilio. Qui il nemico non è l'empio, ma il peccato che ostacola la piena comunione con il proprio Dio. Chiave di volta di questo libro è il Salmo 48 che canta la bellezza inespugnabile di Sion ( = Gerusalemme): parallelamente alle esperienze dell'Esodo, il Signore continua a liberare il suo popolo dall'assalto dei nemici; «il nostro Dio è colui che ci guida».

- 3° libro (Sal 73-79). Come il corrispondente Levitico, contiene Salmi di meditazione sul passato e proietta verso i tempi ultimi, quelli messianici. Dio, che ha liberato il suo popolo, lo conduce mediante Davide, il pastore (Sal 79). Questo libro insiste sul culto e trova nel Salmo 84 il suo centro («Quanto amabili sono le tue tende... beati coloro che abitano nella tua casa...»).

- 4° libro (Sal 9-106). E' la celebrazione della potenza del Signore, vero pastore del suo popolo. Egli è il Re della terra e dell'universo, il giudice che sta per arrivare con grande spavento dei suoi nemici, colui che inaugura il suo regno vittorioso.

- 5° libro (Sal 107-150). E' il libro della lode sulla montagna ormai salita. E' il libro che esprime la gioia per il Signore vincitore degli idoli, abitante in Sion sua città santa. Chiave di questo libro è il Salmo 119, il Salmo della legge. Come nel corrispondente libro del Deuteronomio, troviamo qui le benedizioni per chi osserva la legge e le maledizioni verso i trasgressori. Gli ultimi Salmi sono poi tutti una lode al Signore cui partecipano tutte le creature dell'universo.

Il «genere letterario» del Salterio

Non va dimenticato che il Salterio è essenzialmente un libro di preghiera; è questa la sua originalità nei confronti degli altri libri della Bibbia. Una preghiera, però, non tanto «personale», ma piuttosto «comunitaria». Fin dalla loro iniziale redazione i Salmi hanno avuto una evidente destinazione liturgico-comunitaria: prevale quindi il «noi». Il che non significa che poi non siano serviti anche come preghiera personale; in questi casi dal «noi» si passa all'«io» della singola persona.

Il culto ha giocato quindi un ruolo determinante nella composizione e definizione dei Salmi; proprio questa loro struttura liturgica ci permetterà di operare una certa catalogazione secondo alcuni «generi letterari».

Riconoscere il genere letterario di un Salmo è il primo passo da fare per capirlo. Ci permetterà infatti di ritrovare l'intenzione del Salmista, di entrare nella sua prospettiva.

I biblisti hanno individuato ben 13 generi letterari:

- le «Suppliche»: Ne vengono elencate circa 32. Attenzione però a non farsi ingannare dal termine; bisogna invece capire cosa era nell'antichità un supplice. Il supplice era colui che si metteva sotto la protezione di un potente per sfuggire ad un pericolo, che poteva venire dalla stessa persona supplicata, se questa si preparava a punire. Con l'aiuto di vari gesti simbolici, il supplice esprimeva la sua totale remissione alla persona cui si rivolgeva e l'incondizionata dipendenza da questa. «Supplicare Dio», nel linguaggio dei Salmi, significa presentarsi davanti a lui in atteggiamento di supplice: alzare gli occhi, tendere le mani, prosternarsi, rifugiarsi in lui...

Un Salmo di supplica si può dividere, generalmente, in tre parti: a. un preambolo ( ci si presenta a Dio e lo si invoca per alcune necessità); b. la supplica (si espone il caso, si fa la supplica vera e propria, si portano alcuni motivi di persuasione); c. conclusione innica (è un anticipato rendimento di grazie per il beneficio che si suppone ottenuto).

Non abbiamo qui lo spazio per analizzare questi Salmi di «supplica»; invitiamo il lettore ad analizzare lui stesso uno di questi Salmi, ad esempio il Salmo 56 (Lodi, giov. I sett.).

- gli «Inni». Sono chiamati «tehillim» per il loro carattere innico e laudativo. Sono Salmi legati alle feste liturgiche, soprattutto alla festa delle «capanne», festa di gioia in ricordo dell'alleanza. Questi Salmi nascono da un'esigenza gioiosa di ringraziamento a Dio per i suoi prodigi operati nella storia, per l'assistenza e la vicinanza al popolo. I verbi che maggiormente prevalgono esprimono gioia e ripetono spesso 1'«alleluja». Si può prendere in esame il Salmo 91 (lodi sab. II sett.: Inno a Dio creatore).

- Salmi di «ringraziamento». Sono legati al sacrificio di ringraziamento che il pio israelita faceva nel tempio di Gerusalemme dopo aver ricevuto una grazia. Colui che deve rendere grazie si avvicina all'altare del sacrificio seguito da parenti ed amici e li invita ad associarsi alla sua azione di grazie. Poi fa il racconto dell'intervento divino in suo favore e conclude con una riflessione morale: se il Signore ha potuto salvare me che sono un peccatore e che mi trovavo in una situazione senza vie di uscita, potete capire qual è la sua potenza e quanto grande è il suo amore.

Si può prendere in esame il Salmo 29 (Vespri, giov. I sett.: rendimento di grazie per la liberazione dalla morte ).

- Salmi «regali». Questi Salmi venivano usati per l'intronizzazione del Re, il discendente di Davide, il difensore dei poveri, il pastore del popolo. Si augura al Re un regno senza fine, una dominazione universale. Si può prendere in esame il Salmo 109 (2 Vespri dom. 1. 2. 3. 4. sett.: Il Messia re e sacerdote).

Molto simili ai Salmi «regali», ma da essi distinti, sono invece i Salmi del «regno» nei quali si canta l'intronizzazione simbolica di Jahvè. Si cantavano in occasione della processione dell'arca fin dentro il Tempio, nel Santo dei Santi, dove Dio regna invisibile. Ricorrono grida di gioia, battiti di mani, suoni di tromba e il grido «Jahvé regna!». Egli è il Vittorioso che ha messo ordine nel caos fin dall'origine del mondo; per questo anche l'universo lo acclama. Si veda come esempio il Salmo 23 (Lodi, mart. I sett.: Il Signore entra nel suo tempio).

- I «cantici di Sion». Nella Bibbia, la parola «Sion» equivale a Gerusalemme. Il popolo di Israele aveva una speciale celebrazione per esaltare l'elezione in questa città da parte di Jahvé e la supremazia del Tempio destinato ad essere centro di raccolta di tutti i popoli della terra. Si può prendere come esempio il Salmo 75 (Ora media, dom II sett.).

- Salmi «graduali». Sono i Salmi che si cantavano durante la «salita» al tempio in occasione del pellegrinaggio. Cantano la gioia, l’amore, la meraviglia di andare e di stare presso il Tempio del Signore. I Salmi graduali o «canti delle ascese» sono quindici e si susseguono dal Sal 120 al 134. Essi descrivono il pellegrinaggio dal suo annuncio fino ai ringraziamenti al momento del ritorno. La Liturgia delle Ore fa pregare questi Salmi nei Vespri della terza settimana.

- Salmi dell'«alleanza». Sedici Salmi possono venire capiti solo nella prospettiva del rinnovamento dell'Alleanza. L'alleanza è un elemento chiave nella tradizione ebraica e lo sarà poi anche in quella cristiana dal momento che Cristo con la sua morte e risurrezione ha stabilito l'alleanza nuova ed eterna. Poiché Israele ha coscienza di esistere in forza dell'alleanza, ogni anno, soprattutto nella festa delle capanne, rinnovava il rituale dell'Alleanza. Le espressioni più ricorrenti sono: l'adesione del popolo a Colui che è invocato come «Dio nostro»; le benedizioni-maledizioni per la fedeltà o meno all'alleanza; le condizioni per partecipare all'alleanza. Sulla scorta di Giosuè 8 e 24 si può prendere in esame il Salmo 114 (2 Vespri, dom. II sett.).

«Chi recita i Salmi apre il suo cuore a quei sentimenti che i Salmi ispirano secondo il loro “genere letterario”: di lamentazione, di fiducia, di rendimento di grazie. Questi generi letterari giustamente sono tenuti in grande considerazione dagli esegeti» IGLO I06).

La numerazione dei Salmi.

Sarà capitato qualche volta di dover rintracciare un Salmo nella Bibbia ed accorgersi che il numero non corrisponde. Questo inconveniente è dovuto al fatto che esiste una duplice numerazione dei Salmi:

- la numerazione ebraica. E' la numerazione che di solito si trova nelle nostre Bibbie e si rifà al testo originale dei Salmi che è appunto in lingua ebraica. Questo testo fu sistemato a partire dal 6° secolo avanti Cristo dai «Massoreti» («uomini della tradizione»). Poiché l'ebraico, come l'arabo, veniva scritto senza vocali, questi Massoreti vocalizzarono il testo ed è per questo motivo che il testo ebraico è spesso chiamato «testo massoretico».

- la numerazione greca e latina (Volgata). A partire dal 3° secolo avanti Cristo, per rendere più accessibile la Scrittura a quegli Ebrei che vivevano fuori della Palestina, la si tradusse in greco dal momento che questa lingua era più conosciuta che non l'ebraico. Questa traduzione greca dell'originale Bibbia ebraica è chiamata dei «Settanta» perché, secondo una leggenda, sarebbe stata tradotta da 70 uomini saggi in 70 giorni.

A sua volta, quando il greco non fu più la lingua comune del popolo, si sentì la necessità di tradurre nella lingua corrente, il latino, il testo sacro. Verso l'anno 384 d. C. il papa Damaso affidò a san Girolamo quest'opera di traduzione e la Bibbia latina tradotta dal greco fu chiamata «Vulgata»; questa è stata sempre la Bibbia «ufficiale» della Chiesa e quindi adottata nella liturgia.

Sia la traduzione greca che la sua derivazione latina seguirono però una numerazione diversa da quella ebraica dei Massoreti. Dal Salmo 9 al Salmo 147 la numerazione ebraica (usata nelle Bibbie) va avanti di un numero rispetto al testo greco-latino (usato nella nostra liturgia).

Si faccia quindi attenzione a questo scarto di numerazione.

La poesia ebraica

Abbiamo già detto che i Salmi non sono letture, né preghiere scritte in prosa, ma «poemi di lode» composti per essere cantati. Questa loro originaria caratteristica ci obbliga a tener conto dello stile poetico con cui furono composti ed in particolare di quella tecnica chiamata «parallelismo» che consiste nell’enunciare lo stesso concetto in due «stichi» (versetti) consecutivi, equilibrati e simmetrici.

L'esempio più interessante ci è dato dal Salmo 114 (113):

3 il mare vide e si ritrasse, il Giordano si volse indietro,

4 i montoni saltellarono come arieti, le colline come agnelli di un gregge.

5 Che hai tu, mare, per fuggire, e tu, Giordano, perché torni indietro?

5 Perché voi monti saltellate come arieti e voi colline come agnelli di un gregge?

Si faccia dunque attenzione a questa tecnica poetica con cui furono composti i Salmi poiché il «parallelismo», ben lungi dall'essere una semplice ripetizione di una idea o di un'immagine, è piuttosto un tentativo di approfondimento e di scavo per cogliere ogni dimensione ed ogni valore di una determinata realtà.

Se si vuole che i Salmi siano nostra autentica e intelligente preghiera come lo furono per Cristo e lungo i secoli per la Chiesa, dobbiamo procurarci quella «maggiore formazione biblica, specialmente riguardo ai Salmi» (IGLO 102) che ci permetta di arrivare ad assimilare bene il modo e il metodo migliore per pregarli come si conviene.

Per aiutare ad entrare dentro questo mondo che di fatto è molto differente alla nostra mentalità «occidentale» (mentre la mentalità dei Salmi è «orientale» e semita), abbiamo iniziato col descriverne la veste esterna: il nome, il genere letterario che ne ha ispirato la composizione storica, la divisione, alcune caratteristiche (soprattutto lo stile «poetico» del parallelismo ) .

Siamo così pronti a recepire meglio il loro «valore spirituale» dettato dal fatto che i Salmi sono essenzialmente «Preghiera di Cristo» e «Preghiera della Chiesa» e proprio per questo anche «Preghiera nostra».

 

6  -  SPIRITUALITÀ  DEI  SALMI

Preghiera di Cristo - Preghiera della Chiesa

La conoscenza storica e letteraria del Salmi non è che un primo passo verso quella loro piena utilizzazione che si ha unicamente con la preghiera. Dobbiamo dunque ricercare nei Salmi quel profondo significato teologico e spirituale come si addice ad un libro che, pur esprimendosi con il linguaggio di uomini legati al loro tempo e alla loro cultura, resta tuttavia un libro sacro, resta «Parola di Dio» scritta sotto l'ispirazione dello Spirito Santo.

Questa preghiera così sublime ha in un primo tempo alimentato la fede del popolo di Israele; ha continuato a risuo­nare sulle labbra di Cristo e degli Apostoli; è stata accolta con profonda convinzione dalle Chiese di tutti i tempi; deve essere dunque anche nostra preghiera.

 

I Salmi sono «Parola di Dio»

Le eventuali difficoltà che possiamo incontrare nel pregare i Salmi non devono farci dimenticare che questi canti venerandi sono stati scritti sotto l'ispirazione dello Spirito Santo e quindi, come tutti i libri della Bibbia, sono anch'essi «Parola di Dio». Costituiscono quel meraviglioso dialogo tra Dio e il suo popolo dove Dio stesso prende l'iniziativa ed offre alla sua creatura quelle parole necessarie a lodare con purezza e con pienezza il proprio Signore. Il Salmista sa che se Dio non prende questa iniziativa la sua bocca non può cantare le lodi del Signore. Per questo prega: «Apri la mia bocca Signore e la mia lingua canterà la tua lode» (Sal 51 17). Anche il Signore, che conosce questa incapacità umana, apre lui stesso la bocca del Salmista e gliela riempie della sua Parola: «( Apri la tua bocca ed io il Signore la riempirò» (Sal 81,11).

Nei Salmi sono numerosissime le espressioni con cui il Salmista pieno di fiducia prega: «apro anelante la bocca... vienimi incontro ed abbi pietà di me» (Sal 119,131).

Per lui i Salmi sono più dolci del miele; sono il pane che il Signore fa piovere dal cielo per nutrire coloro che sono incamminati verso la santa montagna.

Nei Salmi, dunque, più che in ogni altro libro della Scrittura, i Padri ascoltavano il Canto dello Spirito Santo. «In essi - dice s. Agostino - possiamo intendere più la voce dello Spirito di Dio che la nostra perché non potremmo dire quelle parole se egli non le avesse ispirate» (En. in Ps. 26. 1).

 

I Salmi: preghiera di Israele

I Salmi sono nati in mezzo al popolo di Israele. Lo Spirito e il Verbo di Dio, che erano all'opera nella storia sacra dell'Antica Alleanza, misero sulla bocca di quelle generazioni quelle preghiere di lode a Dio e quelle suppliche che dovevano preparare la pienezza della lode che sarebbe apparsa sulle labbra del Salvatore con l'avvento dei tempi messianici.

Ogni pio Israelita, come ci testimonia il Salmo 55,1 8, ritmava la propria giornata con i tre momenti principali della preghiera: «sera e mattino e mezzodì voglio gemere e sospirare affinché oda la mia voce». Soprattutto per la preghiera del sabato nella sinagoga o in occasione della solenne liturgia del tempio, i Salmi costituivano l'ossatura della preghiera giudaica. Così, tra preghiera pubblica e preghiera personale avveniva quel fecondo scambio che permetteva di rivolgersi al Signore in ogni tempo e in ogni occasione sempre imbevuti della Parola di Dio e mai senza di essa. Una traccia di questa insostituibile base di preghiera costituita dai Salmi la ritroveremo anche nel Nuovo Testamento sulle labbra di Zaccaria, di Maria, di Simeone: il Benedictus o il Manificat non sono altro che una sintesi personalizzata delle più belle espressioni Salmiche che queste anime spirituali, imbevute di preghiera, sapevano far sgorgare dall'abbondanza del proprio spirito orante.

I Salmi sono dunque nati in mezzo ad un popolo che sapeva pregare sotto l'ispirazione dello Spirito di Dio. Così, in occasione della liberazione dall'Egitto, il canto di vittoria diventa un inno di glorificazione per Colui che si è mostrato grande col suo popolo: «Mia forza e mio canto è il Signore: è stato la mia salvezza... Io voglio onorare... Io voglio esaltare» (Es 15 2). Oppure il cantico di Giuditta dopo la liberazione di Betulia: «Inneggiate a Dio con i timpani, cantate al Signore con cembali, componete per lui un Salmo di lode, esaltate e invocate il suo nome! (Gdt 16 1).

Così, mentre nel deserto marciavano verso la Terra promessa, o mentre si recavano pellegrini alla città santa per lodare il Signore e portare davanti a lui la loro lode e la loro supplica, la preghiera dei Salmi era per essi luce e conforto.

E' dunque con grande rispetto e venerazione che noi cristiani dobbiamo accogliere queste antiche preghiere che esprimono un vivo senso di Dio e una sapienza salutare per la vita dell'uomo. «Dio, il quale ha ispirato i libri dell’ uno e dell’altro testamento e ne è l’autore, ha sapientemente disposto che il Nuovo fosse nascosto nel Vecchio e il Vecchio diventasse chiaro nel Nuovo» (Dei Verbum 16 che cita s. Agostino).

I Salmi: preghiera di Cristo

In Palestina, al tempo di Gesù, ogni bambino che nasceva in una famiglia timorata di Dio, apprendeva fin dall'infanzia a ritmare la propria vita con le tre ore di preghiera quotidiane. Non c'è dunque motivo di dubitare che anche nella santa Famiglia di Nazaret il bambino Gesù abbia sùbito imparato ad iniziare la propria giornata unendosi alla liturgia vespertina del tempio (si ricordi che il calendario ebraico, come pure il nostro calendario liturgico, prevedono l'inizio del nuovo giorno con il tramonto del sole). Prima di andare a dormire, avrà certamente pregato col Salmo 4: «in pace, appena mi corico, m’addormento poiché tu o Signore... in sicurezza mi fai riposare» (v. 9). Al mattino, con tutta la famiglia riunita, recitava i Salmi di lode (Sal 146-150) e le benedizioni prescritte.

Alla scuola di Maria sua madre, che nel Magnicat ha dimostrato di conoscere perfettamente il Salterio, Gesù ha ereditato quella sublime scuola di preghiera che sono i Salmi.

A 12 anni, divenuto adulto, inaugurò la sua vita di membro dell'Alleanza facendo il suo primo pellegrinaggio ufficiale al tempio (cf Lc 2, 41-42). Nella gioia della salita al tempio, cantò con tutti i componenti della carovana i «Salmi graduali»: «Mi rallegrai quando mi dissero: Andremo alla casa del Signore» (Sal 122,1).

A Pasqua, come ci testimoniano Matteo 26,30 e Luca 14, 26, in occasione della cena pasquale consumata con i suoi discepoli, recitò l'inno dei prodigi di Dio per il suo popolo, il cosiddetto «Hallel» composto dai Salmi 113-118.

L'uso del Salterio da parte di Gesù ci viene però ampiamente riferito al momento della sua passione, quando i racconti degli Evangelisti si fanno più particolareggiati Così, nel Getsemani, è con le parole del Salmo 42, 6 che Gesù manifesta la propria fiducia nel Padre al momento dell'estremo abbandono umano: «La mia anima è triste fino a morire...» . E sulla croce, l'intenso e sofferto dialogo di Gesù con il Padre, è ancora una volta espresso con le parole dei Salmi. Lo stesso grido straziante del Crocifisso: «Dio mio Dio mio perché mi hai abbandonato»  (Mt 27,46), che altro è se non l'inizio del Salmo 22 che canta appunto l'angoscia e la gioiosa esperienza del giusto che, perseguitato dai nemici, trova in Dio la propria giustizia e salvezza? Solo gli ignoranti delle Scritture hanno visto in questo grido del Crocifisso un gesto di disperazione. E' al contrario un grido di preghiera; e quale preghiera migliore di quella dei Salmi per esprimere al Padre sia il dolore dell'ingiustizia, sia la certezza dell'imminente esaltazione?

L'Evangelista Luca evita di riportare per i suoi lettori - ignoranti delle Scritture come in parte lo siamo anche noi - queste parole «dure» di Gesù; non rinuncia tuttavia a mettere sulla bocca di Gesù crocifisso alcune espressioni di preghiera; lo fa con il Salmo 36, 6: «nelle tue mani rimetto il mio spirito» ( cf Lc 23, 46 ).

Nella vita di Gesù, pertanto, i Salmi sono la preghiera costante che risuona sulla sua bocca da quando era fanciullo fino all’ultimo istante della sua vita terrena. Proprio per questo motivo i Salmi sono da lui citati più di ogni altro libro dell'Antico Testamento. Presentando se stesso come «mite e umile di cuore  (Mt 11, 29) usa espressioni del Salmo 34,19; oppure, quando ha voluto svelare il dramma del tradimento dell'amico Giuda (cf Gv 13, 18), ha fatto sue le parole del giusto sofferente e perseguitato: «Anche il mio amico... quello che mangiava il mio stesso pane ha alzato il calcagno contro di me  (Sal 41,10).

La lode di Dio è dunque risuonata nel cuore e sulle labbra di Cristo con quelle espressioni di propiziazione, di adorazione, di intercessione, che sono tipiche dei Salmi. Espressioni, però, che in Cristo, trovano il loro significato più completo e la loro piena efficacia essendo Egli il Figlio di Dio venuto per ristabilire nella sua pienezza il colloquio tra Dio e l'uomo interrotto dal peccato umano. La sua voce è la sola capace di oltrepassare l'abisso del silenzio prodotto dal peccato, di farsi intendere dal Padre e di ottenere ciò che nei Salmi lo Spirito di Dio domanda per noi. Senza la salvezza di Cristo, la preghiera dei Salmi sarebbe inefficace: nessuno infatti può andare al Padre se non per mezzo suo (cf Gv 14,6). I Salmi sono la preghiera di Cristo perché egli è il Verbo di Dio rivelato nei Salmi, perché egli è il nuovo Adamo, capo della nuova umanità, che in lui trova salvezza.

Per capire meglio questo essenziale valore cristologico dei Salmi, dopo aver mostrato come Gesù ha costantemente pregato con queste espressioni ispirate, diciamo che: i Salmi parlano di Cristo, Cristo parla nei Salmi.

I Salmi parlano di Cristo

Gesù stesso ha indicato questa lettura «cristologica» dei Salmi quando ha detto: «Voi scrutate le Scritture... ebbene sono proprio esse che mi rendono testimonianza» (Gv 5,39). Inoltre «tutto deve compiersi di me come è stato scritto su di me nella legge di Mosè nei profeti e nei Salmi  (Lc 24,44).

Così, quando in una disputa con i Giudei a Gerusalemme Gesù vuol presentare se stesso come il vero Messia davidico atteso da tutto il popolo, citerà il Salmo 110, considerato Salmo messianico dagli stessi Giudei (cf Mt 22,41-44). E' dunque sulla testimonianza di un Salmo che Gesù, in questa occasione, afferma implicitamente la sua figliolanza divina.

Su questo modo di interpretare in chiave cristologica i Salmi avviato dallo stesso Gesù, si mossero più tardi le comunità cristiane e gli stessi Evangeli. Giovanni, ad esempio, volendo indicare l'autorità con cui Gesù aveva purificato il tempio cacciando gli estranei alla preghiera, cita il Salmo 69, 10: «lo zelo per la tua casa mi divora» (Gv 2,17). Lo stesso Salmo è citato anche da Gesù per indicare l'odio dei Giudei verso di lui e verso il Padre: ..«Questo perché si adempisse la parola scritta nella loro Legge: Mi hanno odiato senza ragione» (Gv 15, 25 che cita il Sal 69,5). Ricorreranno a questo Salmo, v. 10, anche s. Paolo in Rom 15,3 e s. Pietro che riferisce a Giuda traditore il v. 26: «Sta scritto nel libro dei Salmi: “La sua dimora diventi deserta e nessuno vi abiti e il suo incarico lo prenda un altro”» (At 1,20).

Sono ancora i Salmi ad essere citati nei racconti della Passione quando si vuol dimostrare che lo «scandalo della croce» non avviene a caso, ma tutto era stato predetto dalle Scritture:

- Salmo 69,22: gli diedero da bere vino mescolato con fiele;

- Salmo 22,19: si spartirono le sue vesti tirandole a sorte;

- Salmo 22,9: ha confidato in Dio; lo liberi lui, ora, se gli vuol bene (Mt 27,43);

- Salmo 34,21: non gli sarà spezzato alcun osso (Gv 19,36);

- Salmo 22,16: «Ho sete» (Gv 19, 28).

 

Lo stesso dicasi per i racconti della risurrezione:

- Salmo 16,8-11: Dice Davide a suo riguardo... «né permetterai che il tuo Santo veda la corruzione» (At 2, 25.27);

- Salmo 110,1: Disse il Signore al mio Signore: siedi alla mia destra (At 2,34);

- Salmo 118,22: la pietra scartata dai costruttori è diventata testata d'angolo (At 4, 11).

E' dunque evidente l'uso cristiano che la comunità primitiva ha fatto dei Salmi: di Cristo essi parlano, annunciando e proclamando i misteri della sua vita. Scrive in proposito s. Ilario: «tutto ciò che è scritto nei Salmi è una rivelazione dell’avvento di Cristo della sua incarnazione passione risurrezione, del suo regno e della nostra risurrezione». «Nei Salmi - afferma s. Ambrogio - non solo nasce a noi Gesù ma soffre, muore, risorge, ascende al cielo e siede alla destra del Padre».

Che i Salmi parlino di Cristo è tanto vero che, se per assurdo non avessimo i Vangeli, con gli stessi Salmi si potrebbero annunciare gli avvenimenti essenziali della vita di Gesù.

Cristo parla nei Salmi

Per cogliere la profonda spiritualità del Salterio dobbiamo riconoscere nei Salmi non solo un messaggio «su» Gesù, ma il messaggio stesso «di» Gesù che attraverso queste parole ispirate si rivolge al Padre e parla anche a noi.

Abbiamo già citato il Salmo 42,6 pregato da Gesù nel Getsemani per rivolgere al Padre la propria tristezza e la propria angoscia (Mt 26,38), oppure il Salmo 22,2 con cui Gesù prega sulla croce esprimendo cosi, allo stesso tempo, il suo dolore per essere ingiustamente condannato dal peccato degli uomini e la sua certezza che il Padre gli darà in eredità le genti a motivo di questa sua fedeltà fino alla morte (cf Mt 27,46).

Quando, dopo la risurrezione, si trattò di riempire il vuoto lasciato da Giuda il traditore, fu proprio nel Salmo 69, 26 che Pietro trovò la soluzione per ristabilire il collegio dei Dodici con l'elezione di Mattia. Nel Salmo era la voce di Cristo che parlava alla sua Chiesa!

Oppure, quando nella persecuzione vedono l'agitarsi dei nemici contro la comunità cristiana, si rilegge il Salmo 2, 1-2 ritrovando in esso la voce del Signore che sostiene i suoi servi per poter annunciare con tutta franchezza la Parola (cf At 4 24-30).

Pertanto, se vogliamo cogliere l'autentica spiritualità dei Salmi, dobbiamo pregarli riconoscendo in essi «la preghiera che Cristo con il suo Corpo (la Chiesa) rivolge al Padre» (SC 84). E con s. Agostino possiamo dire: «è lui stesso unico salvatore del suo Corpo che prega per noi prega in noi ed è pregato da noi... riconosciamo dunque in lui le nostre voci e le sue voci in noi».

 

I Salmi: preghiera della Chiesa.

Nonostante la rottura-separazione delle prime comunità cristiane dalle tradizioni giudaiche (si pensi alla rinuncia del Tempio, della circoncisione, delle stesse preghiere così care agli Ebrei come lo «Shemà Israel» che si ripeteva tre volte al giorno), i Salmi furono mantenuti senza alcun indugio dalla Chiesa ed accolti come suo privilegiato libro di preghiera. E questo non solo presso le comunità giudaiche che già conoscevano questo libro della Scrittura, ma anche presso altri popoli e razze come i Greci o i Romani che erano, tra l'altro, di una cultura e una mentalità molto distanti dal linguaggio semitico orientale dei Salmi.

Presso le Chiese d'Oriente e d'Occidente, il Salterio divenne il libro più letto, più proclamato, cantato e pregato, accanto ai Vangeli. Come dall'antico Israele era sorto il Messia con i suoi misteri, Cristo Signore, così ora la Chiesa accoglieva insieme a Cristo anche questi bellissimi canti che proprio in vista di Lui lo Spirito Santo aveva posto sulla bocca di coloro che con fede e speranza attendevano la pienezza dei tempi.

Non è dunque difficile comprendere come solo nella Chiesa che è il Corpo di Cristo e il nuovo Israele di Dio, i Salmi rivelano il loro significato più profondo. Il medesimo Spirito che aveva ispirato i cantori della fede di Israele nell’attesa del Messia che doveva venire, ispirava ora coloro che in quegli stessi canti riconoscevano la piena e chiara voce del Verbo di Dio fatto uomo.

I Salmi, preghiera di Cristo, devono dunque essere a pieno titolo anche preghiera della Chiesa. Riassumendo la comune convinzione dei Padri, s. Agostino esclama: «Nei Salmi parla la Chiesa in Cristo e parla il Cristo nella Chiesa; il capo nel corpo e il corpo nel capo»  (Enarr. 2 in Ps. 30 4).

«Poiché - dice ancora s. Agostino - il Cristo e la Chiesa sono due in una sola carne, sono anche due in una sola voce»  (Enarr. in Ps. 37,6). Proprio in forza di questa loro pienezza e ricchezza di contenuti derivante dall'incessante azione ispiratrice dello Spirito, i Salmi possono avere varie e sempre nuove possibilità di lettura:

- ora è il Cristo che prega il Padre o come Sposo parla alla Chiesa Sposa;

- ora è la Chiesa Sposa che parla al suo Sposo e Signore;

- ora il Cristo Capo e la Chiesa Corpo, in quanto «Cristo totale», fondono insieme la loro voce pregando il Padre.

Come ben si esprime s. Paolo, il velo che copriva l'Antico Testamento è stato rimosso da Cristo e noi che, a viso scoperto, rispecchiamo la gloria del Signore, possiamo scorgere la realtà soprannaturale che dietro a quell'antica storia si nascondeva ( cf 2 Cor 3, 14.18).

Se i Salmi sono stati l'espressione privilegiata del colloquio di Israele con Dio, quanto più ora, sulle labbra della Chiesa, questi canti esprimeranno la grandezza e l'amore di Dio manifestatisi in Cristo. Non più le a ombre dell'antica alleanza, ma la piena luce della verità rivelata da Cristo stanno ora a significare questi canti e a proclamare il nuovo esodo, suo e nostro, verso la terra promessa e la nuova ed eterna alleanza stipulata nel suo sangue.

La Chiesa, pertanto, recita i Salmi mentre va pellegrinando da questo mondo al Padre. Si riproducono per lei i misteri dell'esodo, del ritorno dall'esilio, del pellegrinaggio verso la santa città della celeste Gerusalemme.

Come per l'antico popolo dell'alleanza i Salmi erano conforto e speranza dell'avvento del Regno messianico, così anche per la Chiesa, che già possiede la caparra dello Spirito, i Salmi sono la preghiera che tiene desta la speranza e la nostalgia del compimento supremo delle promesse di Dio con la certezza della vittoria finale.

Nella Chiesa i Salmi trovano anche quella più piena espressione liturgica che certamente non avevano nel culto sinagogale o nel tempio di Gerusalemme. Nella celebrazione liturgica della Chiesa, che fa ampio uso dei Salmi, ciò che essi annunciano si compie, e ciò che per mezzo di essi domandiamo a Dio ci viene elargito in Cristo.

 

I Salmi: nostra preghiera.

In quanto «preghiera di Cristo»o e «preghiera della Chiesa», i Salmi devono essere anche per ciascuno di noi, proprio perché membra di questo Corpo mistico, l'espressione migliore per la nostra preghiera e per la nostra santificazione (cf IGLO 14). Con Cristo ed in Cristo, «guidati dallo Spirito di Dio» (Rm 8, 14), diventiamo figli: abbiamo quindi parte alla sua comunione col Padre, possiamo entrare nel suo stesso dialogo.

In un testo celebre e stupendo s. Agostino spiega il misterioso rapporto orante tra noi e Cristo nella preghiera dei Salmi:

«Noi dunque preghiamo a Lui per Lui ed in Lui; diciamo con Lui e Lui dice in noi; noi diciamo in Lui e Lui dice in noi l’orazione di questo Salmo... Nessuno dunque quando sente queste parole dica: non è Cristo che le dice; o dica invece: non sono io che le dico; ché anzi se si riconosce parte del Corpo di Cristo deve dire l’una e l’altra cosa: Cristo le dice e io le dico. Non dir nulla senza di Lui ed Egli non dice nulla senza di te» (Enarr. in Ps. 85, 1).

Perché Cristo possa far sua la nostra preghiera e presentarla al Padre si richiede che questa preghiera esista effettivamente in noi. Occorre dunque entrare nello spirito dei Salmi e pregarli con quella intelligenza e convinzione come se fossero nostra preghiera. Per noi i Salmi non devono essere pezzi da museo o preghiere d'altri tempi; essi sono opera dello Spirito del Dio vivente. S. Cassiano, già nel IV secolo suggeriva ai suoi monaci di pregare i Salmi «non come se fosse stato il profeta a comporli ma come se io stesso ne fossi l'autore». Mediante quelle parole, lo stesso Spirito che le ha ispirate ora suscita, orienta, dirige la nostra preghiera perché diventi preghiera del Signore risorto e preghiera della Chiesa sua Sposa.

Tutto questo sarà possibile a patto che i Salmi siano effettivamente anche «nostra preghiera». Cristo e la Chiesa non possono fare sua una preghiera se questa preghiera non è in noi!

S. Atanasio invitava a saper riconoscere nei Salmi non solo la vita di Cristo, ma anche la nostra stessa vita: i nostri sentimenti, la gioia delle nostre anime, la tristezza, la speranza, il timore...

«Ogni Salmo fu dettato e composto in tal modo dallo Spirito Santo che in esso sono raccolti tutti i moti dell’animo nostro come se fossero da noi proferiti e come se realmente fossero nostri» .

Per la preghiera dei Salmi dovrebbe avvenire qualcosa di simile a quello che accade nella Messa quando le nostre offerte vengono trasformate in Corpo e Sangue di Cristo dall'azione santificante dello Spirito. Attraverso le parole dei Salmi, noi possiamo offrire a Dio i nostri dolori, i nostri desideri, le nostre speranze, i nostri timori, immergendoli nelle sofferenze e nelle speranze di Cristo che è l'orante principale dei Salmi. Avviene così una misteriosa «transustanziazione»: noi abbiamo messo nelle sue mani tutto quello che abbiamo, la nostra miseria... Egli che è il tutto e tutto possiede, ha voluto renderci partecipi della sua natura divina: per noi si è fatto povero, pur essendo ricco, per arricchire noi con la sua povertà (cf 2Cor 8 9).

Nelle sue mani la nostra miseria diviene ricchezza senza fine; nelle sue sofferenze le nostre sconfitte si mutano in vittorie e la morte di lui diventa la nostra vita che durerà in eterno.

La preghiera dei Salmi dovrebbe essere per noi come un grande «offertorio» nella solenne liturgia del «sacrificio della lode»: presentiamo sull'altare di questo meraviglioso sacrificio spirituale tutta la varietà dei sentimenti che i Salmi suggeriscono al nostro spirito e chiediamo a Cristo di accettare questi doni, di consacrarli con la sua opera redentrice, di offrirli al Padre a nome nostro, sue membra sacerdotali.

Parafrasando un'espressione di s. Paolo, pregando i Salmi potremmo dire: «Prego io ma non sono io che prego è Cristo che prega in me» (cf Gal 2, 20). Oppure, come diceva Rodolfo di Tungres «Quando mediti i Salmi Cristo è nella tua mente; quando li canti Cristo è nella tua bocca».

«Chi recita i Salmi nella Liturgia delle Ore li recita non tanto a nome proprio quanto a nome di tutto il Corpo di Cristo anzi nella persona di Cristo stesso» (IGLO 108).

«Seguendo questa via i santi Padri accolsero e spiegarono tutto il salterio come profezia di Cristo e sulla Chiesa; e con lo stesso criterio i Salmi sono stati scelti nella sacra liturgia. Sebbene talvolta si proponessero alcune interpretazioni alquanto complicate, tuttavia generalmente sia i Padri che la Liturgia con ragione vedevano nei Salmi Cristo che si rivolge al Padre o il Padre che parla al Figlio; anzi riconoscevano la voce della Chiesa, degli apostoli e dei martiri» (IGLO 109).

 

7 -  I GRANDI TEMI DEL SALTERIO

Dio - L’uomo - La creazione - La legge.

Per pregare convenientemente i Salmi e far sì che essi diventino, oltre che preghiera di Cristo e preghiera della Chiesa, anche nostra preghiera, dobbiamo conoscerne il linguaggio ed i contenuti. Abbiamo già detto che questi bellissimi canti non sono stati composti a tavolino da qualche geniale poeta, ma sono sorti in un vasto arco di secoli in mezzo ad un popolo credente dove lo Spirito di Dio ha ispirato uomini spirituali capaci di interpretare tutta la ricchezza dei rapporti che intercorrono tra Dio e il suo popolo. Tuttavia, in mezzo a questa diversità di epoche, di culture, di Autori, il Salterio contiene una «unità di temi» che formano la struttura portante di questo libro di preghiera.

Scorrendo il Salterio cercheremo di individuare questi «leitmotiv» o «grandi temi» in modo da renderci più familiare il linguaggio dei Salmi e contribuire così ad immedesimarci sempre meglio in questa che deve essere «nostra preghiera».

 

Dio.

I Salmi sono sgorgati da un cuore che crede e ama Dio. Al centro del Salterio sta dunque Dio: i Salmi sono «teocentrici». Pregando i Salmi si farà attenzione a tutta una varietà di sentimenti che legano l'uomo al suo Dio. Non un Dio idealizzato o intellettuale, ma un Dio vivente, concreto, presente, con cui si può entrare in dialogo o addirittura in contesa. I Salmi sono il frutto di questa «esperienza», di Dio che, di volta in volta, se ne percepisce la fedeltà, la lontananza, il silenzio, la presenza, l'attesa: si desidera vederne il volto!

La fedeltà.

Il Dio dei Salmi è il Dio dell'alleanza che si lega al suo popolo con un rapporto di amore-fedeltà-misericordia. Uno dei titoli che più frequentemente viene dato a Dio è «il fedele», colui che mantiene le promesse dell'alleanza per mille generazioni (Sal 40,10; 54,5; 89,1-1-5.8.33); anche quando il popolo diventa infedele alle promesse fatte, rimane sempre la certezza che Dio non tradisce, non abbandona, non rinnega le promesse (Sal 98,3; 146,6). Pregando i Salmi si faccia dunque attenzione a questo linguaggio di alleanza-fedeltà che si esplicita nelle forme più semplici di «Dio nostro» «popolo mio». Verso il suo popolo il Dio-fedele ha sentimenti materni, ha viscere di misericordia, ed anche se umanamente può capitare che una madre abbandoni il proprio figlio, il Dio-fedele non abbandona né si dimentica di questo «primogenito» faticosamente generato al tempo dell'esodo (cf Es 4,22-23; Is 49, 1-15).

Si trovano allora nei Salmi immagini ardite per cantare questa fedeltà: «Signore, la tua fedeltà giunge alle stelle» (Sal 36,6); «Ti loderò tra i popoli, Signore, a te canterò inni tra le genti, perché la tua bontà è grande fino ai cieli e la tua fedeltà fino alle nubi» (Sal 57,1-11).

La lontananza.

Per colui che crede e ama, Dio non è mai trovato-amato abbastanza; Egli è la fonte di cui si ha sete, è la persona che non si può afferrare totalmente, proprio perché non è un «oggetto ma il «totalmente altro».

I Salmi si fanno voce di questo desiderio di vedere-cercare Dio e di sperimentare a volte la sua lontananza. Soprattutto nel momento del dolore e della prova, l'uomo povero e sofferente piange nel suo letto e pensa a Dio chiedendosi: ma Dio dov'è? La preghiera del Salmista si fa grido di invocazione e supplica: «Perché, o Dio, ti nascondi durante le mie sofferenze?» (Sal 10, 22); «Fino a quando Signore continuerai a dimenticarmi? Fino a quando mi nasconderai il tuo volto?» (Sal 13, 2 ).

E' il linguaggio semplice e confidente dei Salmi che fa oggetto del colloquio con Dio persino la paura della sua lontananza.

Il silenzio.

Alla lontananza, a volte si aggiunge anche il silenzio e l'uomo resta solo nel suo dubbio (Sal 44,23). La fede del salmista, però, è più forte del silenzio e sa che Dio è pastore e custode del suo popolo: non sonnecchia e non dorme il custode d'Israele, ma come un mantello copre e protegge la vita di chi a lui si affida (Sal 121,4).

Il Salmista sperimenta anche quella forma più terribile di silenzio che è il dubbio e la tentazione nella fede: «Dov'è il tuo Dio?» (Sal 42,11). Subito però si riprende e dice: «Spera in Dio... salvezza del mio volto e mio Dio " (v. 12).

Colui che momentaneamente tace è Colui che «ti coprirà con le sue penne, sotto le sue ali troverai rifugio» (Sal 91,4). Del resto, Gesù stesso farà suo il gesto materno della gallina che raccoglie i pulcini sotto le ali al sopraggiungere della tempesta (Mt 23, 37). I Salmi diventano per noi sublime scuola di fiducia in Dio, di confidenza grande nella sua protezione, anche nei momenti della prova in cui sembra essere lontano e silenzioso.

La presenza.

Il Salterio ci dà un'immagine di Dio come una «presenza» nella quale ci muoviamo, viviamo, gioiamo. Dio è davanti e dietro di noi, nell'alto dei cieli e nelle profondità della terra: Egli è dappertutto e a Lui non si può sfuggire (Sal 139). La presenza di Dio è, per il Salmista, così profonda in noi che Egli già conosce le nostre parole prima ancora che noi le pronunciamo (Sal 139,4); Egli scruta tutta la nostra vita e conosce anche le nostre più recondite intenzioni. Più che una presenza timorosa, però, la vicinanza di Dio è, per il Salmista, una garanzia di guida e di sostegno. Se Dio è più intimo a noi di noi stessi (cf GS 22), per l'uomo di fede ne deriva un intimo rapporto di comunione, di alleanza. di collaborazione.

Il volto di Dio.

L'esperienza della divina presenza di Dio nella vita del credente suscita il profondo desiderio di «vedere il suo volto» (Sal 4,6; 31,16; 67,1; 119,135). Se si pensa alle parole dette dal Signore a Mosè («non potrai vedere il mio volto, perché nessun uomo può vedermi e restare vivo... vedrai le mie spalle, ma il mio volto non lo si può vedere»: Es 33,20.23), si può anche immaginare con quanto ardire il Salmista ha osato chiedere: «il tuo volto, Signore, io cerco. Non nascondermi il tuo volto» (Sal 27, 8-9).

Per noi cristiani, che nel volto di Cristo possiamo vedere il volto del Padre (2 Cor 4, 6), queste espressioni dei Salmi stanno a ricordarci che anche in noi deve esserci il desiderio di raggiungere la Patria beata per poter vedere finalmente Dio così come Egli è (1 Gv 3, 2). Ci insegnano anche ad avere l'atteggiamento del servo fedele che attende il proprio signore o quello della sentinella che, vigilante, attende il mattino (Sal 130,6). I Salmi ci insegnano a fare della nostra vita un tempo di attesa nell'umiltà e nella semplicità di ogni giorno: «Io sono tranquillo e sereno come un bimbo svezzato in braccio a sua madre, come un bimbo svezzato è l'anima mia» (Sal 131, 2).

Un Dio unico, un Dio geloso.

In mezzo a popoli politeisti e idolatri, Israele ha sempre difeso l'unicità di Dio: «grande tu sei e compi meraviglie; tu solo sei Dio» (Sal 86,10). Dunque solo da Dio può venire la salvezza e quindi solo a lui spetta l'adorazione e la lode. I Salmi richiamano con frequenza questa assoluta necessità e per esprimerla adeguatamente ricorrono al tema della «gelosia» (Es 20,45) o dello a zelo (Sal 78,58; 79,5). Gesù stesso quando purificò il tempio dai venditori e dai cambiavalute applicò a se stesso le espressioni del Salmo 69,9-10: «Lo zelo per la tua casa mi divora» (Gv 2,17). Quale richiamo, anche per noi, contro facili tentazioni idolatriche che ci impediscono di avere Dio come unico amore o di introdurre nel tempio della nostra vita, purificata con il Battesimo, inutili mercanzie, affetti, attenzioni... che non si addicono alla santità che ci ha comunicato il Santo (1 Pt 1,14-16).

Con queste ed altre immagini il Salmista descrive la sua profonda fede in Dio. Con la rivelazione del volto del Padre compiuta da Cristo queste immagini non hanno perduto la loro efficacia; restano valide anche sulla nostra bocca per indicarci con quanto amore e quanta fiducia dobbiamo anche noi «accostarci a Dio con cuore sincero nella pienezza della fede, con i cuori purificati da ogni cattiva coscienza e il corpo lavato con acqua pura» (Eb 10, 22).
 

L'uomo.

La visione «geocentrica» del Salterio non impedisce al Salmista di avere sufficiente attenzione anche all'uomo. L'uomo, anzi, è l'altro termine di paragone, indispensabile per quel dialogo di amore e di alleanza che caratterizza Dio e la sua creatura.

La grandezza dell'uomo sta nel fatto di essere stato creato ad immagine e somiglianza di Dio. Come leggiamo nel Salmo 8,4-5, Dio ha reso l'uomo di poco inferiore a se stesso e l'ha collocato al di sopra di ogni creatura. Nell'uomo, Dio ha raccolto e sintetizzato la gloria e lo splendore dell'universo; per mezzo della sua intelligenza, l'uomo diviene il collaboratore di Dio nella gestione del creato. Per mezzo dell'uomo, infine, tutto il creato può parlare al suo creatore: l'uomo è l'interprete e il sacerdote dell'universo presso Dio.

Più spesso ancora che la grandezza, però, i Salmi mettono in rilievo la limitatezza dell'uomo: colui che «è fatto e plasmato da Dio» (Sal 119) è anche colui che «ritorna alla terra» (Sal 146) e non può sfuggire né alle sofferenze della vita né tantomeno alla morte. I Salmi descrivono con attenzione i momenti di debolezza dell'uomo: la malattia, la solitudine, la persecuzione, il tradimento, la calunnia... Mai però con un intento psicologico, ma unicamente per mettere in rilievo la fiducia e l'abbandono del «povero» in Colui che solo può aiutarlo e fargli giustizia.

Quando preghiamo i Salmi, pertanto, dobbiamo fare attenzione che quell'uomo concreto di cui si parla siamo anche noi, con tutta la nostra grandezza derivante dalla dignità filiale che il Padre ci ha concesso mediante il dono dello Spirito (Rm 8,14-17), e con tutta la nostra debolezza derivante dalla solidarietà con il primo Adamo. Impariamo dunque dal Salmista a «gettare sul Signore il nostro affanno ed egli ci darà sostegno» (Sal 55,23). Questi, del resto, furono anche i sentimenti di Cristo durante la sua passione, e questi stessi sentimenti egli li insegnò alla nostra umanità peccatrice e sofferente per liberarla dai suoi travagli, dal male del peccato, conseguenza dell'orgoglio e dell'allontanamento da Dio.

L'uomo di cui si parla nei Salmi, però non è un uomo generico o un uomo che vive fuori della storia: è invece un uomo «giusto» o un uomo «empio»: tutto dipende dalla via che decide di scegliere (cf Sal 1: le due vie).

L'uomo giusto.

E' il credente, l'oppresso, il povero, il fedele, il cercatore di Dio, lo zelante, l'alleato, l'ospite di Dio. Il suo volto è pieno di luce, sta lontano dal male, fa il bene, cerca la pace, rivolge al Signore le proprie suppliche, ripone in lui completa fiducia ( Sal 34 ).

L'uomo giusto dei Salmi è colui che non ripone la propria fiducia negli idoli d'argento o d'oro; sua unica eredità invece, è il Signore (Sal 16,5: Il Signore è mia parte di eredità e mio calice) .

Giusto è colui che rinuncia a farsi giustizia da solo, che non viene meno nella fede neppure dinanzi ai prolungati silenzi di Dio, che si sforza di camminare nella perfezione.

Giusto è colui che è convinto che Dio è preferibile al mondo intero e che la suprema felicità consiste nel vivere con lui, in attesa del grande momento in cui si apriranno i nostri occhi, dopo l'esistenza terrena, per saziarci nella contemplazione del suo volto (cf Sal 17,15).

L'uomo malvagio.

E' il nemico, il mentitore, lo stolto, il violento, l'operatore di ingiustizie, l'orgoglioso, l'oppressore, il peccatore, il bestemmiatore, la lingua perfida, il bugiardo...

Egli sa che Dio esiste, ma vive come se non esistesse. Di lui, proprio il primo Salmo dice: «come pula che il vento disperde non reggeranno gli empi nel giudizio, né i peccatori nell'assemblea dei giusti (Sal 1,45).

Tutta la sua forza poggia nella negazione di Dio: Dio non c'è (Sal 53,1). Astuto, perseguita i deboli e nella sua avarizia cerca di fare soldi con tutti i mezzi, approfittando del povero e del debole. Disprezzo di Dio e violenza contro il prossimo sono il suo comportamento. Dalla descrizione particolareggiata dell'uomo malvagio che troviamo, ad esempio, nel Sal 10, appare che un tale comportamento costituisce una forte tentazione per i giusti: mentre infatti questi si vedono continuamente perseguitati e sopraffatti, costatano invece che «le imprese dell'empio riescono sempre!» (Sal 10,26).

Quante volte anche a noi sarà successo di ragionare, pieni di sfiducia, come questo Salmista: ai furbi sembra che tutto vada liscio, e a me che cerco di fare il mio dovere sembra che tutto vada a rovescio!

Già il Salmista, però, pieno di fiducia in Dio, risponde: «A te si abbandona il misero... Tu accogli il suo desiderio, rafforzi il suo cuore, porgi l'orecchio per far giustizia all'orfano e all'oppresso» (Sal 10,35-39).

Pregando i Salmi troveremo in continuazione questa duplice categoria di uomini concreti. Troveremo soprattutto il lamento del povero che grida giustizia al Signore contro le sopraffazioni dei malvagi. In questi Salmi dovremo riconoscere la preghiera di Cristo al Padre che chiede di essere liberato dal calice dell'amarezza (Mt 26,39). Molte volte capiterà che questo stesso Salmo si addica anche alla nostra concreta situazione. Quale sollievo, allora, poter ripetere con il Salmista: «Gioiscano quanti in te si rifugiano, esultino senza fine. Tu li proteggi e in te si allieteranno quanti amano il tuo nome. Signore, tu benedici il giusto: come scudo lo copre la tua benevolenza» (Sal 5,12-13)

 

La creazione.

Nei Salmi la creazione è molto più che un semplice scenario che fa da sfondo all'agire di Dio e dell'uomo nella storia di un popolo. La creazione è «personalizzata» e diventa, in quanto creatura di Dio, un interlocutore nel dialogo di salvezza tra Dio e il suo popolo. Prendiamo ad esempio il Sal 8: è l'esaltazione della grandezza di Dio che si manifesta nell'opera della creazione. Nel silenzio notturno il Salmista contempla le meraviglie del cielo stellato e davanti a tanta magnificenza si domanda con stupore come abbia potuto Iddio ricordarsi di lui e dimostrargli tanta bontà; ed esclama: «O Signore, nostro Dio, quanto è grande il tuo nome su tutta la terra». In questo senso la creazione è uno specchio della grandezza e bontà del Signore. Anche se il peccato ha offuscato la trasparenza di questo specchio, i Salmi cercano di recuperare la giusta lettura delle cose create alla luce di Dio. Parlando a tutto l'uomo, ai suoi occhi, alle sue orecchie, a tutta la sensibilità del credente, i Salmi ci aiutano a ritrovare il senso sacro dell'universo presentandocelo in quel contesto di bellezza e di bontà con cui Dio lo aveva creato. Dinanzi a questo squarcio di paradiso, il Salmista si sente spontaneamente ricondotto a Dio salendo a lui per questa scala che serve di comunicazione tra il Creatore e le sue creature.

Altre volte, nei Salmi, le creature stesse prendono voce per dare lode al Creatore. E' il caso del Sal 104, l’inno a Dio creatore, dove la creazione non è più «strumento» per l'uomo per cantare la grandezza di Dio, ma «soggetto» che per il fatto di esistere già da sé è lode della sapienza del Creatore. La creazione quindi non è muta, ma canta anch'essa le lodi di Dio nel modo che le è proprio.

Dovremmo anche noi imparare dai Salmi questa semplice pedagogia della preghiera e dinanzi alla bellezza delle realtà create (s. Francesco le chiamava «sorella» acqua, terra, stelle...) saper riconoscere l'epifanìa della grandezza e misericordia di Dio che fa sorgere tutte queste cose belle sui giusti e sugli ingiusti (Mt 5, 45). Come nella celebrazione della Messa il pane e il vino diventano «Eucaristia», sacrificio dell'azione di grazie per la meravigliosa opera della Redenzione compiuta per noi da Cristo, così nella celebrazione dei Salmi tutte le realtà della creazione dovrebbero diventare, sulla nostra bocca una «eucaristia», una lode-glorificazione a Dio per la bontà e sapienza che ha riversato su di noi mediante queste sue creature. In questo senso possiamo esercitare quel meraviglioso dono del «sacerdozio battesimale» che fa di noi i «sacerdoti del creato», come dice la IV Preghiera eucaristica: «fatti voce di ogni creatura, esultanti cantiamo...».

 

La legge.

Un altro tema che percorre tutto il Salterio è la Legge. Per pregare bene i Salmi dobbiamo capire il significato e il ruolo che aveva la «legge» presso gli Ebrei.

Essa è la rivelazione della volontà di Dio nei confronti del suo popolo, e per Israele il mezzo per sapere ciò che il suo Dio attende da lui. La legge è dunque legata all'alleanza, e per Israele sarà sempre un vanto avere la legge perché essa sta a significare il particolare amore che Dio ha avuto verso Israele e non verso gli altri popoli. La legge è dunque il segno dell'alleanza: Dio l'ha data unicamente al suo popolo eletto che deve ormai dimostrare la sua fedeltà con l'obbedienza a questa legge. In essa si vede non tanto l'imposizione tirannica di un sovrano, ma piuttosto la manifestazione di una grazia misericordiosa di Dio verso il suo popolo, una prova del suo amore e della sua benedizione (cf Dt 7,6-15).

Nel Salmo 119, il più lungo di tutto il Salterio (22 strofe, 176 versetti: è il primo Salmo dell'Ora Media nelle 4 settimane), è concentrato il pensiero di Israele sulla Legge. Sembra essere sorto dopo la triste esperienza dell'esilio (VI sec. a.C. ) in un momento in cui la Legge del Signore restava l'unica espressione dell'alleanza di Dio con Israele, l'unica difesa e baluardo contro i nemici esterni e contro le tentazioni interiori di sfiducia e di amaro scoraggiamento. Scomparsa l'arca dell'alleanza, la pietà di Israele si concentrò sulla Legge; e come l'arca era gelosamente custodita nel Tempio di Gerusalemme, così il libro della Legge era custodito nelle Sinagoghe: ogni sabato si leggeva alla presenza della comunità riunita ed era così grande il rispetto verso questo libro che si evitava di toccarlo con le dita durante la lettura.

In questo Salmo 119 troviamo dunque espresso il continuo e interiore frutto della contemplazione della Legge di Dio. Il pio salmista riversa qui la sua meravigliosa e ineffabile esperienza spirituale esaltando la legge del Signore e dichiarando il suo attaccamento e il suo amore ad essa. La si chiama: verità, via, luce, saggezza, bontà, amore e grazia, misericordia; è dolce più del miele, dona pace grande, dona consolazione e gioia, dona salvezza, saggezza, intelligenza; essa è la vita.

Noi sappiamo che Gesù stesso trattò con rispetto questa Legge quando disse: «Non pensate che io sia venuto ad abolire la Legge o i Profeti; non sono venuto per abolire, ma per dare compimento» (Mt 5,17). Quando dunque nei Salmi troviamo espresso l'amore verso la Legge possiamo benissimo far nostre quelle espressioni ricordando che la nostra legge è Cristo e il suo Spirito che abita in noi e che ci sospinge all'amore del Padre e del prossimo. Pronunciando la parola «Legge», il nostro pensiero andrà a Colui che ne è l'espressione massima, cioè il Verbo di Dio, la sua Parola fatta carne. Con le parole del Salmo potremo dire a Cristo, Sapienza incarnata del Padre: ho un desiderio ardente di conoscerti, di comprenderti, di impararti; te desidero, te anelo, te bramo; te ricordo, te medito, di te parlo; te ho scelto, te preferisco, te amo, te prediligo; per te mi struggo, verso te mi volgo e corro, a te aderisco; in te confido, in te spero, in te gioisco più che per le ricchezze; tu sei la mia delizia, il mio consigliere.

Solo un cieco non può vedere la bellezza e la ricchezza di questi sentimenti che la Sapienza divina ci offre mediante i Salmi. Con umiltà restiamo aperti a queste espressioni poetiche e come gli stessi Padri della Chiesa hanno insegnato, vediamo in esse un annuncio profetico della vita evangelica, dell'avvento del Regno di Dio nelle anime e quasi una introduzione alla vita beatifica nel cielo, di cui i versetti del Salmo possono essere considerati come i raggi luminosi pieni di calore e di sapore.

 

Il nemico.

Sotto la voce «nemico» vogliamo condensare tutta una serie di espressioni che frequentemente incontriamo nei Salmi: nemico è il malvagio, l'avversario, colui che non teme Dio e non si cura della sua legge; nemico è il dolore, la morte, lo «Sheol» (tradotto con «inferi»: è il luogo sotterraneo dove vanno le anime dei defunti; luogo di oblio e di non ritorno ); nemico può essere il mare o il mostro «Leviathan» del Sal 74,14.

Più di un terzo dei Salmi esprime il «lamento» del povero verso il Signore perché intervenga in suo aiuto e lo difenda dal «nemico». Questi Salmi hanno uno schema facile da seguire: si aprono con un «Perché?». Dopo aver rievocato un passato felice, si espone lo squallore del presente tragico. Il grido del povero per essere aiutato contro il nemico non cade mai nella disperazione: questi Salmi terminano sempre con una visione di speranza e di liberazione e sono espressione della fede del Salmista nella misericordia e nella giustizia divina. In queste suppliche si fa leva sull'onore di Dio il quale non può tollerare il trionfo del male e dell'ingiustizia. Di fronte al nemico sta dunque la certezza che Dio prenderà posizione e dopo un momentaneo periodo di prova, accettato come purificazione dei propri peccati, Dio farà giustizia: il povero sarà liberato dal nemico e Dio sarà glorificato nella sua potenza.

Dinanzi a questi Salmi si è confrontato lo stesso Gesù che «nei giorni della sua vita terrena offrì preghiere e suppliche con forti grida e lacrime a colui che poteva liberarlo da morte e fu esaudito per la sua pietà» (Eb 5,7).

Quante volte, anche noi, dovremo ripetere in prima persona quelle stesse parole espressione della nostra vita terrena intessuta di miseria e di tribolazione, di angoscia e di tentazione e che tuttavia trova in Dio la roccia sicura su cui poggiare la propria fede e la propria speranza; dopo questo intimo tormento Egli farà risplendere la giustizia.

Questi Salmi, espressione di una umanità sofferente ma fiduciosa, perseguitata ma non sopraffatta, devono diventare nostra autentica preghiera. E' nella preghiera supplice e fiduciosa che il nostro vuoto si incontra con la ricchezza di Dio, il nostro buio con la sua luce, la nostra debolezza con la sua forza.

Sapersi abbandonare nelle mani di Dio, come il bambino si abbandona nelle braccia della madre (Sal 131,2), è segreto di ogni vittoria e di ogni progresso spirituale.

Lo Spirito è libertà e soffia dove vuole: non bisogna estinguerlo o limitarlo entro categorie umane (1 Ts 5,19). Con assoluta libertà guidò gli autori sacri a comporre questi bellissimi canti-preghiere che sono i Salmi; con altrettanta libertà guida coloro che pregano i Salmi come se essi stessi ne fossero oggi gli autori.

 

8  -  I SALMI: PREGHIERA DIFFICILE?

 

Pur convinti che la Liturgia delle Ore rinnovata e restaurata dalla riforma liturgica del Vaticano II costituisce, assieme alla celebrazione dell'Eucaristia, quel duplice pilastro su cui poggia tutta la vita orante della Chiesa, tuttavia si constata ancora una notevole lentezza nell'accogliere questo strumento indispensabile di preghiera offerto indistintamente a tutto il popolo cristiano.

Uno dei principali ostacoli che impediscono una vasta penetrazione della Liturgia delle Ore, sembra essere la difficoltà a pregare con i Salmi. Le contestazioni più frequenti a questo tipo di preghiera si riassumono in questa frase: i Salmi sono una preghiera difficile!

Dire che i Salmi sono una preghiera «non facile», non è una novità. La stessa Istruzione Generale sulla Liturgia delle Ore (IGLO), pur ammettendo che i Salmi sono «bellissimi canti composti sotto l'ispirazione dello Spirito Santo... ed hanno una capacità tate da elevare la mente degli uomini a Dio...» (IGLO 100), non nasconde che essi comportino alcune difficoltà:

- sono un'immagine imperfetta di quella pienezza dei tempi che apparve in Cristo Signore;

- può dunque accadere che, pur concordando tutti i cristiani nella somma stima dei Salmi, trovino qualche difficoltà quando cercano farli propri nella preghiera (IGLO 101).

E' dunque lecito affermare che per i Salmi non è ancora finita l'epoca dell'esilio come lo è stato fino a qualche tempo fa per la Parola di Dio? Assolutamente no! Dice infatti la stessa Istruzione sulla Liturgia delle Ore:

- lo Spirito Santo, sotto la cui ispirazione i Salmisti hanno cantato, assiste sempre con la sua grazia coloro che eseguono tali inni con fede e buona volontà;

- è tuttavia necessario che ciascuno, secondo le sue possibilità, si procuri una maggiore formazione biblica, specialmente riguardo ai Salmi;

- inoltre si deve arrivare ad assimilare bene il modo e il metodo migliore per pregarli come si conviene (IGLO 102).

Queste, dunque, le ricette contro una certa ostilità verso i Salmi: spirito di fede, buona volontà, maggiore formazione, migliore modo e metodo nel pregarli.

Proseguendo nel nostro servizio destinato ad offrire una adeguata formazione biblica e liturgica sulla Liturgia delle Ore, con particolare riguardo ai Salmi, si cercherà qui di rispondere ad una domanda: perché i Salmi non possono essere una preghiera difficile. Si dirà allora che: se Cristo e la Chiesa hanno pregato con i Salmi, perché proprio noi dovremmo farne a meno? Sono vere o false certe difficoltà che noi attribuiamo ai Salmi? Qual è il modo e il metodo migliore per pregarli come si conviene ?

 

Cristo e la Chiesa hanno pregato con i Salmi.

I Salmi sono stati preghiera di Cristo.

Gesù è nato ed è cresciuto in mezzo ad un popolo che faceva grande uso dei Salmi soprattutto in connessione con i tre momenti principali della preghiera quotidiana: al mattino, al vespro e prima di coricarsi.

Gesù conosceva e praticava la preghiera dei Salmi tanto che essi sono il libro da lui citato più di ogni altro scritto dell’Antico Testamento.

I Salmi sono stati da sempre anche preghiera della Chiesa. Mentre la prima comunità cristiana prese chiara distanza da tutte le istituzioni giudaiche (es. il tempio, la sinagoga) dando vita a sue proprie feste e luoghi di culto, non così fece per i Salmi. Nei Salmi la Chiesa vede proclamato il mistero del suo Signore morto e risorto.

I Salmi divennero il libro di preghiera della prima comunità cristiana (At 4, 23-28; 1 Cor 14, 26; Ef 5, 19; Col 3,16). Non ci fu dunque difficoltà per la Chiesa ad appropriarsi di quanto i Salmi dicevano dell'antico popolo di Israele, dell'alleanza, del tempio. Sotto la guida dello Spirito la Chiesa percepì subito che tutti gli annunci contenuti nei Salmi trovavano il loro pieno compimento in Cristo e nel Nuovo Popolo che Egli si era acquistato con il Sangue della Nuova Alleanza.

Così dalla liturgia del tempio e della sinagoga, i Salmi passarono nella liturgia della Chiesa per cantare con la stessa voce le meraviglie della nuova Pasqua e dell'alleanza eterna celebrata nell'Eucaristia, nei Sacramenti e in quella che divenne la Liturgia delle Ore.

Solo in certe epoche di decadenza spirituale venne meno la preghiera dei Salmi da parte di tutto il popolo cristiano, dovuta alla incomprensione della lingua latina e alla mancanza di istruzione religiosa (forse già verso il sec. VIII-IX). Secondo alcuni studiosi la stessa origine del Rosario con le 150 Ave Maria distribuite in 5 misteri, sarebbe da legarsi al cosiddetto «salterio dei poveri» in sostituzione dei 150 Salmi e dei 5 libri in cui sono divisi (o delle 5 antifone di cui era composta ogni ora canonica). Nonostante tutto, però, nelle parrocchie sempre si era mantenuta la tradizione di cantare il Vespro la Domenica sera, anche con i Salmi in latino.

Ecco perché è sommamente triste vedere certa contestazione verso i Salmi (e quindi verso la Liturgia delle Ore), anche da parte di coloro che dovrebbero essere invece gli «apostoli» di questa preghiera in modo che essa «pervada profondamente, ravvivi, guidi ed esprima tutta la preghiera cristiana e alimenti efficacemente la vita spirituale del popolo di Dio» (Paolo VI, Laudis canticum, n. 8).

Ma a che serve lamentarsi? Resta pur sempre vero che senza una adeguata istruzione biblica e liturgica specialmente riguardo ai Salmi (espressamente raccomandata da SC 90 e IGLO 23.102) essi continueranno ad essere «una preghiera difficile». Spesso chi prega i Salmi si trova nella situazione dell'eunuco della regina d'Etiopia: «come posso capire, se nessuno me lo spiega?» (cf At 8, 31).

 

Vere o false difficoltà?

Proveremo qui a riassumere alcune tra le principali difficoltà che si attribuiscono ai Salmi e cercheremo di riflettere se siano vere o false difficoltà.

I Salmi preghiera antiquata?

Qualcuno dice: se lo Spirito Santo ha ispirato, molti secoli fa, gli autori sacri che composero questi canti in un contesto storico e culturale molto diverso dal nostro, non può oggi ispirare dentro la Chiesa altre persone capaci di comporre preghiere adatte per il nostro tempo e con il nostro stesso linguaggio?

A questa obiezione risponde la stessa Istruzione sulla Liturgia delle Ore quando dice:

«Chi vuole salmeggiare con spirito di intelligenza deve percorrere i Salmi versetto per versetto e rimanere sempre pronto nel suo cuore alla risposta. Cosi vuole lo Spirito, che ha ispirato il salmista e che assisterà ogni uomo di sentimenti religiosi aperto ad accogliere la sua grazia» (IGLO 104 ).

Se si desse retta a questa obiezione si dovrebbe ritenere antiquata tutta la Bibbia e gli stessi Vangeli. Se invece si considera che, terminata la fase della «scrittura», lo Spirito Santo continua a presiedere la fase inesauribile della «lettura» e della «preghiera», si dovrà costatare che quella Scrittura non sarà mai antiquata nello spirito di coloro che la proclameranno con la gioia del cuore e ispirati dall'amore. Già Cassiano, nel IV secolo, insegnava a recitare i Salmi «non come se fosse stato il profeta a comporli, ma come se io stesso ne fossi l'autore». Ed il Concilio, nella Costituzione Dei Verbum ha insegnato che «la Sacra Scrittura deve essere letta e interpretata con l'aiuto dello stesso Spirito mediante il quale è stata scritta» (DV 12).

Ciò non significa chiudere la porta ad ogni spontaneità creatrice, quasi che nessun'altra espressione moderna debba esistere al di fuori della Scrittura. Il Salmo, tuttavia, resta sempre una preghiera ispirata, divina, e con s. Agostino si dovrà ripetere: «Dio, volendo essere lodato dagli uomini, si è lodato lui stesso». Dobbiamo dunque vedere i Salmi non come una preghiera «antiquata», ma come una preghiera che Dio stesso ha offerto agli uomini ispirandola mediante il suo Spirito affinché gli uomini di tutti i tempi, mossi dal medesimo Spirito, potessero restituirgliela come loro propria preghiera. Se pregheremo i Salmi secondo questa luce, essi saranno per noi non una preghiera antiquata di altri tempi, ma una preghiera giovane; non a caso, all'inizio delle Ore, la Chiesa ci fa ripetere: «Apri la mia bocca e la mia lingua canterà la tua lode» (Sal 51,17), che significa: «Apri la tua bocca ed io il Signore la riempirò» (Sal 81,11).

I Salmi preghiera poco cristiana?

Non si può nascondere che in alcuni Salmi si trovano espressioni che a prima vista mal si conciliano con il messaggio evangelico: il concetto della vita oltre la morte e le invettive.

Il concetto della vita oltre la morte. Israele ha maturato molto lentamente l'idea di una vita oltre la morte. Si incomincia a parlare di risurrezione dei morti solo all’epoca dei Maccabei (circa 180 a. C.). Ecco perché in molti Salmi si parla solo di una vita presente da vivere serenamente, mentre l'aldilà è visto solo come un baratro oscuro senza ritorno: «nella morte nessuno può ricordarsi di te: nello sheol chi potrà lodarti?» (Sal 6,5-6). E' la preghiera di coloro che ancora non hanno ricevuto la luce di Cristo, Colui che morendo ha distrutto la morte e risorgendo ha ridato a noi la vita.

La Chiesa, però, pregando questi Salmi sa che li prega unita a Colui che è il Signore Risorto, il Dio dei viventi, non il Dio dei morti (cf Mt 22,32). Quando questi Salmi scorrono sulla mia bocca e penetrano nella mia mente dovrò dire: che cosa sarebbe della mia vita se Cristo non mi avesse dato la certezza della risurrezione? Sono creato per la vita, non per la morte. Ma quando il peccato intacca la radice profonda di questa vita nuova che mi è stata data nel Battesimo, non sono anch’io nel baratro della morte? Sulle mie labbra il Salmo avrà allora questo significato: liberami dalla morte vera, quella del peccato, perché quando verrà la morte di questo corpo possa lodarti per sempre alla tua presenza nella luce e nella pace.

Le invettive contro i nemici. Come è possibile chiamare preghiera cristiana la frase del Salmo 137,9 «benedetto chi afferra e stritola i tuoi bambini contro la pietra»? In questi casi si dovrà tener conto dello stile particolare della poesia orientale che ama esprimersi con immagini forti e colorite fino all'esagerazione. E' un modo molto efficace per esprimere la distanza che il giusto deve prendere dal peccatore; per indicare che noi vogliamo restare fedeli all’alleanza senza patteggiamenti con i nemici dl Dio.

A ben riflettere, però, ci sono anche nella nostra vita situazioni molo simili. Quando non riesco a perdonare, ad amare chi mi ha fatto del male... devo constatare di essere rimasto fermo all'Antico Testamento e che la novità del Vangelo ancora non ha permeato la mia vita. In quei momenti, Colui che sulla croce ha perdonato i suoi crocifissori (Lc 23,34), viene a tendermi una mano là dove mi trovo per farmi passare dal Vecchio al Nuovo Comandamento; viene non per cancellarmi dalla sua presenza, ma per completare in me quello che mi manca in rapporto al comandamento nuovo dell'amore.

I Salmi preghiera impersonale? La mentalità moderna che sopravvaluta 1'«io» e tende a rifiutare ciò che è imposto dall'esterno, produce anche dentro la Chiesa quei fenomeni di allergia e di rigetto verso tutto ciò che è precostituito: non si accettano le Preghiere eucaristiche della Chiesa universale per improvvisarne di nuovo ritenute più adeguate e personalizzanti; si mettono da parte i vecchi Salmi per accoglierne di nuovi molto solleticanti all'udito.

Ma è proprio vero che i Salmi siano cosi distanti dalla mentalità dell'uomo moderno e, pur cosi antichi, non abbiano nulla di dire oggi? Quante volte ci sarà capitato di recitare un Salmo e accorgerci che aveva ancora qualcosa di nuovo da dirci ed a cui non avevamo ancora fatto esperienza...

Non dunque una preghiera .«prefabbricata», ma una preghiera universale che la Chiesa mi offre ricordandomi che:

Sono espressione della comunione ecclesiale. Quando li recito mi sento in comunione con tutti coloro che, prima di me sia giudei che cristiani, si sono riconosciuti e si sono espressi in queste formule di lode e di amore verso il Signore; mi sento soprattutto in comunione con Cristo che ha cantato questi stessi Salmi «con la sua voce e la sua vita» (s. Agostino), ed in comunione con la Madre del Signore, Maria, che nel Magnificat ha lodato Dio facendo scaturire dal suo cuore la ricchezza del Salterio.

Mi liberano dai limiti del mio personalismo. Dal momento che la Liturgia delle Ore è essenzialmente una preghiera ecclesiale, colui che prega deve avere la capacità di amalgamarsi con una preghiera comune ed oggettiva. La libertà dei figli di Dio non viene coartata da formule preordinate che limitano lo spazio della mia inventiva personale: mi inserisco invece in una realtà ben più grande di me e, facendomi uscire dai limiti angusti della mia povertà spirituale, dilata il mio spirito verso gli orizzonti sconfinati del respiro orante della Chiesa e della sua secolare esperienza di preghiera. In questo caso la mia voce non è più singola ma diventa coro congiungendosi all'universale armonia di coloro che con Cristo e la Chiesa soffrono, gioiscono, credono, amano, sperano. E tutto questo non è un perdersi, ma un ritrovassi, non un impoverimento, ma una ricchezza.

Mi insegnano a pregare. Mettendomi alla scuola della Chiesa che prega, anch'io imparerò a pregare modellandomi su quelle espressioni che portano in sé tutta la ricchezza dell'esperienza orante della Chiesa nel suo impegno di celebrare la pienezza del Mistero cristiano.

I Salmi diventano così la «forma normativa di preghiera», il modello universale cui ispirarsi per avere una preghiera personale ben fatta; diventano per noi «lex orandi, regola del pregare». Mi aiutano a liberarmi dal banale, dall'utilitarismo, dal contingente, e mi spingono verso il gratuito della lode divina. Lo stesso Tagore, un poeta non cristiano, descrive la preghiera come un perdersi nell'amore divino: «Nell'ebbrezza del canto dimentico me stesso, e chiamo te amico, che sei il mio Signore».

Il Salmi mi insegnano anche a rifuggire da quel certo psicologismo e servilismo di tante preghiere moderne che sono solo «prurito alle orecchie» (2 Tm 4,3). I Salmi no! I Salmi sono autentica scuola di fede quando ci insegnano a orientare tutto a Dio senza ripiegamenti su noi stessi in sterili narcisismi.

Lo stesso Lutero ha avuto parole di incoraggiamento all'uso dei Salmi quando, nell'introduzione alla sua traduzione del Salterio, scriveva: «Che cosa c'è di più grande dei Salmi, di questo serio parlare in mezzo a questi venti impetuosi di ogni genere? Dove trovare parole di gioia più adatte di quelle dei Salmi... Di qui viene che il Salterio è il libro di tutti i santi. E dunque, in qualsiasi situazione possa trovarsi, trova Salmi e parole che si adattano al suo caso, che si accordano alla sua situazione come se fossero stati composti per lui, così che egli non potrebbe farne di migliori o trovare o desiderare qualcosa di meglio».

A conclusione di questo punto dedicato alle vere o false difficoltà nel pregare i Salmi, vorremmo formulare una ipotesi per assurdo: e se mancassero i Salmi? Con s. Girolamo dovremmo dire: «Al di là dei Salmi c'è il silenzio». Come potremmo pregare nei giorni di aridità spirituale, nei giorni di stanchezza, senza il sicuro sostegno dei Salmi? Ripensando al travaglio della sua conversione, s. Agostino scriveva a proposito dell'aiuto trovato nella preghiera dei Salmi:

«Leggevo i tuoi cantici fedeli; come me ne infiammavo, come mi accendevo a recitarli, se avessi potuto, per tutta la faccia della terra» (s. Agostino, Confessioni, IX, 4).

E s. Basilio, per esprimere la stima sconfinata che aveva verso i Salmi, scriveva:

«Un Salmo mette in fuga il demonio, attira il soccorso degli angeli. É un’arma nei terrori della notte, un riposo nei lavori del giorno. Preserva dal cadere i fanciulli, serve da ornamento ai giovani, dà consolazione agli anziani. Anche per le donne non c'è monile migliore» (s. Basilio, Hom. in Ps. 2).

Vediamo piuttosto di offrire proposte concrete che aiutino a superare le difficoltà esistenti nel pregare i Salmi.

 

Proposte per pregare i Salmi.

La Liturgia non è opera di improvvisazione. Fin dall'antichità si accedeva ai santi misteri dopo un adeguato tempo di catechesi-catecumenato ed anche dopo il Battesimo proseguiva la istruzione con la cosiddetta «mistagogìa». I Padri del Concilio hanno avuto estrema lungimiranza quando hanno detto che non ci sarebbe stata autentica riforma liturgica senza una «adeguata formazione» anzitutto del clero e poi dei laici (cf SC 14). La stessa raccomandazione è stata fatta a proposito dei Salmi: «si procurino una maggiore istruzione liturgica e biblica, specialmente riguardo ai Salmi (SC 90 e IGLO 102).

Si avrà dunque l'accortezza di arrivare alla preghiera dei Salmi, soprattutto con i laici, dopo una adeguata catechesi biblica e liturgica.

Occorre poi una preparazione prossima che aiuti ad entrare nel clima adatto alla celebrazione. A volte il passaggio immediato dal ritmo frenetico della nostra giornata ai momenti di preghiera è così repentino che, senza aver creato un clima di silenzio e di adorazione, finisce per vanificare la stessa preghiera.

Una volta entrati nella preghiera, si dovrà creare armonia dentro di noi tra mente, voce, cuore, corpo, in modo che tutte le nostre facoltà partecipino attivamente alla preghiera. Si inizia così a recitare i Salmi: non tanto a nome nostro, quanto a nome di tutto il Corpo di Cristo, anzi nella persona di Cristo stesso ed a nome di tutta la Chiesa. Attraverso questa apertura «cristologica» ed «ecclesiale», scopriremo nei Salmi il volto, il pensiero, i sentimenti di Dio; sperimenteremo la dolcezza del colloquio con Dio che ha voluto darci la sua stessa Parola sempre pronti e restituirgliela come dialogo orante sotto la potente intercessione dello Spirito: lo Spirito infatti viene in aiuto della nostra debolezza ed intercede per noi secondo i disegni di Dio (cf Rm 8,26-27).

 

Sussidi per pregare i Salmi.

Per facilitare la preghiera «cristiana» dei Salmi, la Liturgia stessa ci fornisce degli elementi utili:

I titoli dei Salmi.

«Nel salterio della Liturgia delle Ore, ad ogni Salmo è premesso un titolo sul suo significato e la sua importanza per la vita umana del credente»; sotto il titolo, in corsivo, «si aggiunge una sentenza del Nuovo Testamento o dei Padri che invita a pregare in senso cristologico» (IGLO 111).

Sia il titolo che la sentenza non si recitano a voce alta, ma devono ugualmente essere tenuti in considerazione per rendere più facile la lettura cristologica ed ecclesiale del Salmo. Sarebbe dunque opportuno che, proclamata l'antifona, si facesse un adeguato spazio di silenzio per amalgamare insieme antifona-titolo-sentenza quali elementi che mi permettono di fare una lettura «cristiana» del Salmo.

Le antifone.

L'antifona è un ritornello che ha una doppia funzione: la prima è musicale (segnala e prepara il tono sul quale si deve cantare il Salmo), la seconda è di contenuto (suggerisce il significato che si vuol dare al Salmo in rapporto al Mistero celebrato; aiuta ad illustrare il genere letterario del Salmo; trasforma il Salmo in preghiera personale; aiuta a sottolineare una qualche frase degna di attenzione).

Le collette salmiche.

Purtroppo queste antiche «collette» non si trovano nelle edizioni ordinarie della liturgia delle Ore (esistono tuttavia in edizioni particolari). «Le orazioni salmiche hanno lo scopo di aiutare coloro che recitano i Salmi a interpretarli in senso cristiano... Così terminato il Salmo e fatta una pausa di silenzio, la orazione raccoglie e conclude i sentimenti di coloro che hanno recitato il Salmo» (IGLO 112).

Possiamo richiamare in sintesi le attitudini essenziali che permettono una autentica e fruttuosa preghiera dei Salmi.

I Salmi sono Parola di Dio. Dal momento che questa Parola si è fatta Carne, nei Salmi è Cristo stesso che prega ed i Salmi pregano Cristo. I Salmi diventano per la Chiesa un momento privilegiato di dialogo e di comunione tra Dio e l'uomo sotto la continua assistenza dello Spirito che, come ha presieduto alla scrittura, così presiede anche alla lettura- preghiera del Salmo stesso. Nei Salmi non si dovrà dunque cercare in primo luogo ciò che può interessare o piacere al nostro gusto, le risposte ai nostri interrogativi, quanto piuttosto il disegno divino di salvezza, il Mistero di Cristo e della Chiesa. I Salmi diventano così una guida che ci aiuta ad immergerci in questo disegno, ad incontrare il pensiero di Dio, a porre Dio e Cristo al centro della nostra esistenza, a perdere la nostra vita per ritrovarla in Cristo.

Concludiamo con queste significative espressioni di s. Ambrogio:

«Tutta la Scrittura divina spira la bontà di Dio, tuttavia lo fa più di tutto il dolce libro dei Salmi. Che cosa di più dolce di un Salmo? Per questo lo stesso Davide dice splendidamente: “Lodate il Signore: è bello cantare al nostro Dio dolce è lodarlo come a lui conviene” (Sal 146,1). Davvero! Il Salmo infatti è benedizione per i fedeli, lode a Dio, inno del popolo, plauso di tutti, parola universale, voce della Chiesa, professione e canto di fede, espressione di autentica devozione, gioia di libertà, grido di giubilo, suono di letizia. Mitiga l'ira, libera dalle sollecitudini, solleva dalla mestizia. E' protezione nella notte, istruzione nel giorno, scudo nel timore, festa nella santità, immagine di tranquillità, pegno di pace e di concordia che, a modo di cetra, da voci molteplici e differenti ricava un'unica melodia.

Il Salmo canta il sorgere del giorno, il Salmo ne fa risuonare il tramonto. Nel Salmo il gusto gareggia con la istruzione» (s Ambrogio, Commento sul Salmo 1).

9 - Come pregare i Salmi

Celebrarecon l’anima, con il corpo

Dopo esserci soffermati a riflettere sulla Liturgia delle Ore ed avendo dedicata particolare attenzione ai Salmi, e giunto il momento di chiederci: come dobbiamo pregare i Salmi? La stessa Istruzione Generale sulla Liturgia delle Ore dice infatti: «si deve arrivare ad assimilare bene il modo e il metodo migliore per pregare i Salmi come si conviene» (IGLO 102).

Compito non facile perché la stessa Istruzione non dà un criterio unico di celebrazione, ma indica una varietà di possibilità tra le quali scegliere a seconda delle esigenze pastorali delle singole comunità. Le indicazioni che daremo qui, pertanto, sono solo orientative. Ci sforzeremo piuttosto di creare una mentalità capace di stabilire una celebrazione ottimale della Liturgia delle Ore.

«Celebrare», più che recitare.

Le parole hanno un loro significato. Parlando di «recita» è facile intendere quell'attività che consiste nel ripetere una parte che altri hanno preparato per noi. Può ingenerare un senso di «passività», mentre al contrario abbiamo più volte ripetuto che la Liturgia delle Ore è un'azione che ci vede protagonisti, con Cristo e con la Chiesa. di quel cantico di lode che il Signore Risorto ha lasciato come meravigliosa eredità alla Chiesa sua Sposa E' più corretto invece parlare di «celebrazione» (cf IGLO 32, 243). Per avere una celebrazione però, si richiedono le seguenti condizioni:

Un'assemblea celebrante.

«La Liturgia delle Ore come tutte le altre azioni liturgiche non è un’azione privata, ma appartiene a tutto il Corpo della Chiesa lo manifesta e influisce su di esso . (IGLO 20). Essendo un'azione altamente liturgica e quindi ecclesiale «è da preferirsi la celebrazione comunitaria... alla celebrazione individuale e quasi privata» (SC 27)

Quest'assemblea celebrante, meglio se sotto la presidenza di un Ministro, non compie dunque una recita di testi prestabiliti, ma è convocata per celebrare un evento di salvezza, l'incontro con Cristo che si fa trovare nei suoi Misteri!

Non è dunque giusto scusarsi dicendo: anche se non vado a celebrare le Ore con la Comunità, basta che le reciti per conto mio. No! Le Ore sono una «preghiera corale» e per fare un coro bisogna cantare tutti insieme, nell'unica armonia che detta lo Spirito accordandoci al cantico dello Sposo e della Sposa.

Un clima di festa e di gioia.

Non possono essere tristi gli invitati quando lo Sposo è con loro. La presenza del Signore Risorto in mezzo all'assemblea deve creare quel senso di festa e di gioia tale da rendere ogni celebrazione un avvenimento pasquale. Che dire allora di certe preghiere che si trascinano con monotonia, con stanchezza, senza alcun entusiasmo interiore, senza quella gioia che dovrebbe derivare dal sentirsi in comunione con gli Angeli e con i Santi nel cantare le lodi del Signore? Per questo, come si dirà più avanti, è opportuno dare ampio spazio al canto nella celebrazione delle Ore quale espressione della gioia che sgorga da cuori in festa, traboccanti di fede per essere fatti degni di stare alla divina Presenza per cantare le sue lodi.

Quale gioia, inoltre, nel sapere che l’adorazione, la lode e il ringraziamento sono assunti dalla voce di Cristo e acquistano una perfezione e una pienezza che ci permette di essere fin d'ora membri della Liturgia celeste. Le parole del Salmo, ad esempio, mentre esprimono il pentimento del cuore ci fanno assaporare la misericordia di Dio, mentre si fanno grido di supplica già ci pongono nelle mani ciò che si implora.

Celebrazione, dunque, non semplice recita.

 

Varietà dl celebrazioni.

La nuova Liturgia delle Ore ha evitato volutamente di dare una forma rigida di celebrazione sia perché ha voluto rispettare la legittima creatività di ogni assemblea liturgica, sia per permettere che questa comunità si inserisca adeguatamente nel mistero celebrato nel corso dell'anno liturgico. Questa creativita però non deve diventare anarchia. Pur nella varietà delle celebrazioni, vi deve essere l'osservanza delle norme generali che permetta alla Liturgia delle Ore di mantenere la sua specifica caratteristica. Ad ogni modo, sia nelle piccole comunità, sia in assemblee composte da persone di diversa provenienza, si dovrà sempre stabilire in precedenza la modalità di celebrazione. Improvvisazione e creatività non vanno certo d'accordo.

Per facilitare una corretta utilizzazione dei singoli elementi che compongono la Liturgia delle Ore, diamo qui una loro descrizione ed indichiamo anche alcune modalità di esecuzione.

 

Varietà di elementi.

La Liturgia delle Ore è composta da una varietà di elementi che vanno dalla acclamazione-invocazione, alla proclamazione, al canto, alla salmodia, all'inno. Per pregare bene con la varietà di queste formule, occorre conoscerne le caratteristiche.

L'acclamazione-invocazione.

Rientrano sotto questo genere espressivo le parti iniziali e conclusive della celebrazione (es. O Dio, vieni a salvarmi), gli Alleluia, gli Amen, i ritornelli delle invocazioni ed intercessioni. Data la loro forma breve, richiedono incisività di espressione e coralità di intervento Devono scuotere l’attenzione, immettere nella preghiera, fondere l’assemblea. La forma più adatta è dunque il canto che, come un pugno di lievito, fermenta tutto il resto

L'inno.

Trovandosi all'inizio di ogni celebrazione, l’inno ha lo scopo di creare il clima della celebrazione, di immettere nel mistero celebrato, di dare tono e colore, di suscitare gioia e letizia spirituale ( IGLO 42. 173).

Anche l'Inno ha una sua natura musicale ed è quindi preferibile cantarlo. Attenzione però alla scelta degli Inni; è preferibile dare la preferenza a quelli proposti dalle Ore evitando quei canti «passe-partout» che non sono affatto adatti a quel tempo liturgico e a quella celebrazione.

La lettura.

Rientrano in questo genere le Letture della Scrittura e dei Padri, le Orazioni. Hanno lo scopo di dare un annuncio, di trasmettere un messaggio. Richiedono dunque una proclamazione solenne, con dizione chiara, con voce sufficientemente elevata capace di raggiungere tutta l'assemblea, con ritmo pacato che permette assimilazione, con enfasi e gioia come si addice ad un lieto annuncio.

E' evidente che tutte queste qualità si acquistano con esercizio e preparazione. Il rispetto per la Parola di Dio esige di prepararsi sempre prima della proclamazione delle letture.

La stessa cosa si può dire delle Orazioni. Queste, però, possono essere anche cantate, in certe solennità, od anche « cantillate » cioè proclamate con tono elevato che sta tra il canto e il parlato.

Il responsorio.

E' strettamente legato alla lettura; se nella lettura è Dio che parla, nel responsorio è l'assemblea che risponde. Essendo una risposta, necessita di essere preceduto da un minimo di riflessione. Pertanto è consigliabile di creare uno spazio di silenzio prima del responsorio (cf IGLO 202). Il responsorio diventerà allora un grido di riconoscenza e di lode che permetterà alla Parola di Dio di penetrare più profondamente nella nostra vita.

Per questi motivi è preferibile che il responsorio sia cantato.

La salmodia.

I Salmi costituiscono la parte più caratteristica e predominante della Liturgia delle Ore, e sono anche l'elemento che richiede maggiore attenzione nella celebrazione. Per pregare correttamente i Salmi occorre tener presente la loro costituzione: « I salmi non sono letture, né preghiere scritte in prosa ma poemi di lode. Quindi anche se talvolta fossero stati eseguiti come letture, tuttavia in ragione del loro genere letterario, giustamente furono detti dagli ebrei “Tehillim”, cioè “cantici di lode” e dai greci “psalmoi” cioè cantici da eseguire al suono del salterio (IGLO 103).

Essendo dunque composizioni poetico-musicali, i Salmi sono strettamente connessi con la musica e con il canto. Senza tuttavia dimenticare che il canto ha la funzione di mettere in rilievo il testo: non deve dunque prevalere, ma servire.

Tenuto conto di questo loro « genere letterario», i Salmi possono essere pregati secondo alcune modalità:

recita continua di un solista: l’assemblea ascolta in silenzio. Si richiede capacità di proclamazione c scelta dei Salmi adeguati (ad es. i Salmi didattici o i salmi storici posti di preferenza nell'Ufficio delle letture);

recita continua collettiva: due cori si alternano nel proclamare i versetti. Questi versetti, nell'edizione italiana, sono generalmente raggruppati in quartine quasi ad indicare che la unità di preghiera è costituita dai due stichi messi insieme. Si suppone infatti che il passaggio troppo frequente da un coro all'altro ad ogni singolo stico sia troppo incalzante e quindi rischi di soffocare il respiro della preghiera personale. Per questo stesso motivo, seguendo l'antica tradizione monastica, è anche consigliabile che tra un coro e l'altro il passaggio non sia immediato e precipitoso, ma si lasci piuttosto un abbondante respiro senza tuttavia perdere il ritmo della preghiera;

recita responsoriale: al solista o alla scola che proclamano le strofe del salmo, risponde l'assemblea con una antifona-ritornello dopo un certo numero di strofe. Ha il vantaggio di combinare le due forme precedenti: concilia l'ascolto contemplativo e l’intervento attivo (soprattutto in grandi assemblee, con un ritornello di facile esecuzione).

 

Il canto del Salmi.

Occorre riaffermare che il canto dovrebbe essere la forma ordinaria di pregare i Salmi. Realisticamente bisogna riconoscere, però, che non sempre è possibile osservare questa regola ottimale. Si dovrà allora ricercare un certo equilibrio all'interno delle comunità tenendo conto sia dei tempi liturgici, sia delle esigenze pastorali in cui la comunità si trova.

Per essere in grado di fare una scelta ragionata, è necessario avere idee chiare sul valore del canto nella preghiera dei Salmi.

«Il canto non si deve considerare come un certo ornamento che si aggiunge alla preghiera quasi dall’esterno ma piuttosto come qualcosa che scaturisce dal profondo dell’anima che prega e loda Dio e manifesta in modo pieno e perfetto il carattere comunitario del culto cristiano» (IGLO 270 ) .

«É risaputo che i Salmi sono strettamente connessi con la musica; lo dimostra la tradizione sia giudaica che cristiana. In verità alla piena comprensione di molti Salmi contribuisce non poco il fatto che essi vengano cantati o almeno siano sempre considerati in questa luce poetica e musicale» (IGLO 278).

Il canto, dunque, non è un semplice abbellimento della preghiera, ma una sua esigenza interiore, una manifestazione più intensa della lode e dell’amore di colui che prega. Con s. Agostino si può ripetere: «il cantare è proprio di chi ama; e già dall'antichità si formò il detto: «Chi canta bene prega due volte».

Coloro che si radunano in preghiera nell'attesa del loro Signore, sono esortati dall'Apostolo a cantare insieme Salmi, inni e cantici spirituali (cf Col 3,16).

Nel pregare i Salmi si dia dunque grande importanza al canto, tenendo ovviamente conto della capacità di ciascuna comunità e del debito equilibrio tra le parti da cantare.

A questo proposito si possono suggerire alcuni criteri operativi:

Esecuzioni differenziate.

Non è necessario cantare sempre e tutto: si deve tener conto dei tempi, delle persone, dei testi da cantare. Un indiscriminato livellamento delle parti e dei toni, ucciderebbe lo spirito della preghiera. Ogni parte dell’ufficio va pregata secondo il suo stile più appropriato. Una esecuzione variata può essere anche un'esigenza psicologica per tener più desta l'attenzione, l'interesse, il gusto e, conseguentemente, la qualità della preghiera e dei suoi benefici.

Varietà di esecuzione, ad esempio, può significare alternanza tra parlato e cantato; fra solista e assemblea; fra due cori della stessa assemblea; fra monodia e polifonia; fra le differenti possibilità dei toni melodici.

Varietà di ministeri.

La preghiera delle Ore deve fare spazio ai seguenti ministeri: il salmista (che canta o proclama un salmo), il lettore (che proclama le letture), il coro (che esegue, eventualmente, anche brani a più voci cui si unisce l'assemblea con un ritornello di facile esecuzione), i suonatori di strumenti musicali ( oltre l'organo o l'armonium, sono possibili anche altri strumenti secondo le varie culture).

Gradualità.

Non si può pretendere che una comunità raggiunga subito l'ottimo della celebrazione. Senza indulgere a pigrizie, si dovrà tuttavia attendere i necessari tempi di maturazione secondo la legge della gradualità: « Anche se la celebrazione tutta in canto è la più raccomandabile sempre,... tuttavia in alcuni casi si potrà seguire utilmente il criterio della gradualità... (seguendo) il principio della solennizzazione progressiva che ammette vari gradi intermedi tra l’Ufficio cantato integralmente e la semplice recita di tutte le parti » ( IGLO 273 )

 

Il sacro silenzio.

Non va dimenticato che tra gli elementi costitutivi della Liturgia delle Ore c'è anche quello di « osservare a suo tempo il sacro silenzio» (IGLO 201).

I motivi principali per cui si deve osservare il silenzio nella Liturgia delle Ore, come in ogni liturgia, sono:

- favorire la risonanza della lettura o della preghiera nell'animo;

- permettere alla Parola di Dio di penetrare più profondamente nella nostra vita per essere assimilata vitalmente;

- favorire la sintonizzazione con la preghiera di Cristo e della Chiesa;

- preparare ad una partecipazione più intensa ai testi e alle azioni che seguiranno;

- permettere di accogliere nei cuori la piena risonanza della voce dello Spirito;

- facilitare una maggiore personalizzazione della preghiera.

Il silenzio è dunque un valore attivo e non semplice assenza di suoni! Esso deve scavare nei cuori una fame, «una capacità di Dio». Per questo è stato scritto: il silenzio talvolta è tacere, sempre è ascoltare; non e una evasione, ma un raccogliere noi stessi in Dio.

La stessa Istruzione generale (IGLO 202)prevede questi momenti di silenzio:

* dopo i singoli Salmi, appena ripetuta l'antifona e specialmente se, dopo il silenzio, si aggiunge l'orazione salmica (cf IGLO 112);

* dopo le letture, sia brevi che lunghe, e precisamente prima o dopo il responsorio;

«Si deve pero evitare di introdurre momenti di silenzio che potrebbero deformare la struttura dell’Ufficio o recare molestia o fastidio ai partecipanti» (IGLO 202)

Regola saggissima, tenuto conto che la preghiera in assemblea deve pur avere un suo « ritmo» da non interrompere frequentemente, lasciando invece alla preghiera individuale una più ampia possibilità di fermarsi nella meditazione di qualche formula che stimoli gli affetti dello spirito, senza che l'Ufficio perda per questo la sua caratteristica di preghiera pubblica (cf IGLO 203).

La recita non diventi quindi una lagna, sottraendole quel carattere gioioso, solenne, ritmato, che prevede una globale armonia tra parlato, cantato, recitato, silenzio.

 

Gli atteggiamenti del corpo.

Pregando i Salmi riceviamo spesso l'invito del salmista a lodare Dio con la danza (Sal 86 7; 149,3; 150,4), ad applaudire battendo le mani (Sal 46,1), ad alzare le mani (Sal 62 5; 76 3; 87,10), a prostrarsi davanti al Signore (Sal 28 2; 131,7), ecc.

Generalmente, però, non attuiamo mai questo invito e ce ne restiamo ben fermi ed immobili nel nostro « raccoglimento».

Non va invece dimenticato che coloro che si riuniscono per la preghiera sono persone vive, che si esprimono ed agiscono non come automi, ma come persone coscienti della loro libera adesione all'incontro orante con Cristo presente nella sua Chiesa.

I gesti e l’atteggiamento esteriore del corpo devono dunque essere l’espressione di un impulso interiore; devono essere sostenuti, animati, giustificati dalla dinamica spirituale, senza indulgere a formalismo o ad ostentazione. La loro esecuzione sarà tanto più degna di Dio quanto più sarà illuminata e riscaldata dallo spirito interiore di preghiera.

I principali gesti previsti dalla Liturgia delle Ore sono:

- stare in piedi: introduzioni, inni, cantici evangelici, preci, orazioni;

- stare seduti: durante le letture ed i relativi responsori; durante la salmodia (si consiglia di sedersi già prima dell'antifona, lasciando eventualmente che rimanga in piedi chi proclama l'antifona; questo per evitare di compiere movimenti mentre si esegue un canto o si recita una formula); nulla però vieta che si stia in piedi durante il canto di alcuni salmi;

- segni di croce: all'inizio delle Ore e prima dei canti evangelici.

Oltre a questi gesti principali già previsti dalla Liturgia, non andrebbe trascurata tutta un'altra gamma di gestualità che potrebbe comprendere l'inchino profondo alle dossologie (gloria...), le mani alzate al Padre nostro come nella Messa, il battere le mani in certi salmi cantati con un ritmo appropriato.

In altre parole: non possiamo mettere da parte il nostro corpo durante la preghiera, ma dovremmo piuttosto coinvolgerlo in una totale collaborazione con il nostro spirito in modo che tutte le forze che sono in noi diano lode al Signore e cantino la sua gloria.

Come già dicevamo a proposito del silenzio, anche per i gesti e gli atteggiamenti del corpo si richiede equilibrio e buon senso.

Si ricordi allora che:

* la comunione esterna dei gesti è espressione della comunione interiore dei cuori;

* rinuncio volentieri ad un mio gusto per unirmi all'armonia dell'assemblea;

* fare il contrario degli altri non è manifestare la propria personalità ma piuttosto il proprio individualismo (lo stesso dicasi per chi corre troppo o va troppo lento nella recita dei salmi );

* rimanderò ai momenti di preghiera personale l'attuazione di quei gesti che non fossero serenamente accolti da tutta la comunità.

 

Ritualità e solennità.

La Istruzione generale sulla Liturgia delle Ore non ci offre elementi specifici circa l'aspetto rituale della celebrazione. Troviamo queste indicazioni:

- le vesti liturgiche: il sacerdote o il diacono che presiedono la celebrazione possono indossare la stola sopra il camice o la cotta; il sacerdote può indossare anche il piviale (IGLO 255).

- l’incenso: si può usare per incensare l'altare, il sacerdote e il popolo mentre si esegue alle Lodi mattutine e ai Vespri il cantico evangelico (IGLO 261); aiuta a percepire il significato di «sacrificio della lode» tipico della Liturgia delle Ore: « Salga la mia preghiera come incenso davanti a te; l’elevazione delle mie mani come il sacrificio della sera» (Sal 141,2).

- le candele accese: non vengono nominate (e quindi richieste); non va tuttavia dimenticato che l'uso dei lumi nella liturgia oraria (come in quella eucaristica, è stato sempre segno di onore, di decoro, di festosità, di gioia, di solennità, in quanto simbolo di Cristo luce divina, sole che sorge dall'alto per illuminare coloro che sono nelle tenebre e nell'ombra della morte (cf il cantico del Benedictus) E' dunque più che opportuno accendere i lumi durante la celebrazione delle Ore: per assonanza con il cero pasquale indicheranno la presenza del Cristo Risorto in mezzo all'assemblea dei suoi discepoli che lo attendono con le lampade accese (cf Lc 12,35; Mt 25,1-8).

Il concetto di ritualità richiama necessariamente quello di solennità. Dobbiamo dunque chiederci: quando è che una celebrazione è solenne? Come rendere solenne una celebrazione? Qualcuno, almeno in passato, calcolava la solennità in rapporto al numero di lampade accese, al numero di fiori sull'altare, ecc. E' evidente che questo e un metro di misura molto corto. La vera solennità di una celebrazione non è data tanto dagli elementi esterni, quanto piuttosto dal grado di partecipazione attiva-piena-consapevole (cf SC 14) di coloro che prendono parte alla celebrazione. Un secondo criterio è questo: la solennità è data dalla completa utilizzazione di tutti gli elementi celebrativi messi a disposizione dalla liturgia. In una parola: tutto il rito, tutta la persona, valorizzati in pienezza, danno il vero concetto di solennità. Le luci ed i fiori da soli, sarebbero solo coreografia per gli occhi. Acquistano un senso solo se ad essi si uniscono persone che autenticamente pregano con tutte le possibilità messe a disposizione dai testi e dal rito. Ad esempio: una liturgia cantata, sarà certamente più solenne di una recitata. Il rispetto degli spazi di silenzio, la presidenza di un ministro, la corretta esecuzione dei toni musicali, la distribuzione dei servizi, ecc. sono un evidente elemento di solennità che nasce dalla verità del rito e non da una semplice aggiunta di elementi esteriori. Meglio gli uni e gli altri, ma non gli uni senza gli altri!

 

Alcuni rischi da evitare.

Lo zelo per la casa del Signore non deve avere limiti. Può accadere, però, che col pretesto dello zelo si annidino possibili rischi, come:

- rubricismo: è il rischio che corrono coloro che ricercano la lettera senza prima essersi impadroniti dello spirito. Le rubriche sono un aiuto, non il fine della preghiera. Le rubriche devono aiutare le persone non soffocarle. Il rubricismo impedisce di assumere forme nuove capaci di « essere segno e testimonianza di comunità piene di vita e di freschezza» (IGLO 273) e riduce la liturgia « ad un bel monumento dell’età passata da conservare intatto per l’ammirazione degli intenditori;

- estetismo: è la ricerca esasperata della novità, dell’originalità; è il voler cambiare sempre, ad ogni costo. Così facendo, molti fedeli sono esclusi dalla partecipazione perché fanno appena in tempo ad imparare un canto che subito viene cambiato; oppure vengono eseguiti canti così ricercati che solo pochi possono apprendere, mentre gli altri sono costretti ad ascoltare. Il bello deve essere anche utile. Dal lato opposto va pure evitata la sciatteria, la mancanza di entusiasmo, la svogliatezza, il meccanismo dei gesti e delle parole, la fissità delle abitudini... La liturgia deve essere sempre giovane, sempre aperta a tutto quanto può favorire l'autentica partecipazione alla preghiera;

- l’attivismo: è l'eccessiva preoccupazione per ciò che si deve fare e finisce per distrarre da ciò che si deve dire E' la confusione tra animazione dell'assemblea, sempre da ricercare ed utile, e la teatralità di certe celebrazioni svuotate del loro carattere mistico, contemplativo, aperto all'azione preminente dello Spirito. Se la celebrazione è ben preparata in anticipo, non ci sarà bisogno di tanta gente che si dimena con gesti inutili e goffi per guidare l'assemblea o interviene continuamente con parole dell'uomo che finiscono per indebolire la unicità e preminenza della Parola di Dio.

Rifuggendo sia dall’improvvisazione incompetente, sia del freddo rubricismo, ricordiamo una saggia indicazione dell'Istruzione che dice: « Quel che conta più di tutto è che la celebrazione non si leghi a schemi rigidi e artificiosi, non obbedisca solo a norme puramente formali, ma risponda allo spirito autentico dell’azione che si compie. Il primo scopo da raggiungere è infatti quello di formare gli animi all’amore per la preghiera genuina della Chiesa e di rendere gioiosa la celebrazione della lode di Dio» (IGLO 279).

Di san Francesco è stato scritto che: Più che recitare preghiere, lui stesso, con tutta la sua vita era diventato preghiera. Sia, questo, un augurio anche per tutti noi. Può esserci di aiuto questo bel testo di Eusebio di Cesarea (265-339):

«Gli Ebrei eseguivano inni con l’accompagnamento di strumenti musicali quali i salteri e le cetre. Noi cristiani invece eseguiamo il nostro inno con un salterio vivo e una cetra animata. Infatti il canto corale del popolo di Cristo ha il potere di divenire più gradito a Dio di qualsiasi strumento musicale. Con la salmodia in tutta la Chiesa di Dio noi eseguiamo un canto fuso nell’unità della mente, del cuore, della fede, della pietà, dei sentimenti e della voce.

Noi ci serviamo della salmodia e di codeste cetre spirituali perché ce lo ha insegnato l’Apostolo quando ha detto: con salmi e cantici e inni spirituali. Secondo un’altra maniera di vedere, per cetra può essere inteso tutto il corpo nel quale attraverso i movimenti e le attività l’anima eleva a Dio un inno confacente.

Il salterio dalle dieci corde è il culto che lo Spirito Santo presta attraverso i cinque sensi del corpo e le cinque potenze dell’anima E’ ciò che vuol intendere s. Paolo quando dice: Salmeggerò con lo spirito e salmeggerò con la mente (1 Cor 14,15) quasi che la mente abbia anch’essa i suoi movimenti con i quali far agire il corpo ed anche lo spirito abbia i propri impulsi con i quali muova l’anima» (Eusebio, Esposit. in ps. 91).

 

CONCLUSIONE

Gesù Cristo prega per noi, prega in noi,

è pregato da noi

«Dio non poteva elargire agli uomini un dono più grande di questo: costituire loro capo lo stesso suo Verbo, per mezzo del quale creò l'universo.  Ci unì a lui come membra, in modo che egli fosse Figlio di Dio e figlio dell'uomo, unico Dio con il Padre, un medesimo uomo con gli uomini.

Di conseguenza, quando rivolgiamo a Dio la nostra preghiera, non dobbiamo separare da lui il Figlio, e quando prega il corpo del Figlio, esso non deve considerarsi come staccato dal capo. In tal modo la stessa persona, cioè l'unico Salvatore del corpo, il Signore nostro Gesù Cristo, Figlio di Dio, sarà colui che prega per noi, prega in noi, è pregato da noi.

Prega per noi come nostro sacerdote, prega in noi come nostro capo, è pregato da noi come nostro Dio.

Riconosciamo, quindi, sia le nostre voci in lui, come pure la sua voce in noi.  E quando, specialmente nelle profezie, troviamo qualche cosa che suona umiliazione, nei riguardi del Signore Gesù Cristo, e perciò non ci sembra degna di Dio, non dobbiamo temere di attribuirla a lui, che non ha esitato a unirsi a noi, pur essendo il padrone di tutta la creazione, perché per mezzo di lui sono state fatte tutte le creature.

Perciò noi guardiamo alla sua grandezza divina quando sentiamo proclamare: “In principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio.  Egli era in principio presso Dio: tutto è stato fatto per mezzo di Lui e senza di Lui niente è stato fatto” (Gv 1, 1-3).  In questo passo ci è dato di contemplare la divinità del Figlio di Dio, tanto eccelsa e sublime da sorpassare ogni più nobile Creatura.

In altri passi della Scrittura, invece, sentiamo che egli geme, prega, dà lode a Dio.  Ebbene ci è difficile attribuire a lui queste parole.  La nostra mente stenta a discendere immediatamente dalla contemplazione della sua divinità al suo stato di profondo abbassamento. Temiamo quasi di offendere Cristo, se riferiamo le parole che egli dice alla sua umanità. Prima rivolgevamo a lui la nostra supplica, pregandolo come Dio.  Rimaniamo perciò perplessi davanti a quelle espressioni e ci verrebbe fatto di cambiarle.  Ma nella Scrittura non si incontra se non ciò che gli si addice e che non permette di falsare la sua identità.

Si desti dunque il nostro animo e resti saldo nella sua fede.  Tenga presente che colui che poco prima contemplava nella sua natura di Dio, ha assunto la natura di servo. E’ divenuto simile agli uomini, e “apparso in forma umana, umiliò se stesso, facendosi obbediente fino alla morte”» (Fil 2, 7-8).  Inoltre ha voluto far sue, mentre pendeva dalla croce, le parole del salmo: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?” (Sal 21, 1).

E’ pregato dunque per la sua natura divina, prega nella natura di servo. Troviamo là il creatore, qui colui che è creato.  Lui immutato assume la creatura, che doveva essere mutata, e fa di noi con sé medesimo un solo uomo: capo e corpo.

Perciò noi preghiamo lui, per mezzo di lui e in lui; diciamo con lui ed egli dice con noi» (S. Agostino, Commento sui salmi. Sal 85,1; in Mercoledì V di Quaresima).

 

BIBLIOGRAFIA

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