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GIOVANNI
PAOLO II - Lettera enciclica:
FIDES
ET RATIO
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Introduzione
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Introduzione
« Conosci te stesso »
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Capitolo I
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La
rivelazione della Sapienza di Dio
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Capitolo II
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Credo
ut intellegam
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Capitolo III
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Intellego
ut credam
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Capitolo IV
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Il
rapporto tra la fede e la ragione
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Capitolo V
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Gli
interventi del Magistero in materia filosofica
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Capitolo VI
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Interazione
tra teologia e filosofia
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Capitolo VII
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Esigenze
e compiti attuali
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Conclusione
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Conclusione
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Note
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Note
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LETTERA
ENCICLICA
FIDES
ET RATIO
DEL SOMMO PONTEFICE
GIOVANNI PAOLO II
AI VESCOVI DELLA CHIESA CATTOLICA
CIRCA I RAPPORTI
TRA FEDE E RAGIONE
Venerati
Fratelli nell'Episcopato,
salute e Apostolica Benedizione!
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La
fede e la ragione sono come le due ali con le quali lo spirito umano s'innalza
verso la contemplazione della verità. E Dio ad aver posto nel cuore dell'uomo
il desiderio di conoscere la verità e, in definitiva, di conoscere Lui perché,
conoscendolo e amandolo, possa giungere anche alla piena verità su se stesso (cfr
Es 33, 18; Sal
27 [26], 8-9; 63 [62], 2-3; Gv 14,
8; 1 Gv 3, 2).
INTRODUZIONE
«
CONOSCI TE STESSO »
1.
Sia in Oriente che in Occidente, è possibile ravvisare un cammino che, nel
corso dei secoli, ha portato l'umanità a incontrarsi progressivamente con la
verità e a confrontarsi con essa. E un cammino che s'è svolto né poteva
essere altrimenti — entro l'orizzonte dell'autocoscienza personale: più
l'uomo conosce la realtà e il mondo e più conosce se stesso nella sua unicità,
mentre gli diventa sempre più impellente la domanda sul senso delle cose e
della sua stessa esistenza.
Quanto
viene a porsi come oggetto della nostra conoscenza diventa per ciò stesso parte
della nostra vita. Il monito Conosci te
stesso era scolpito sull'architrave del tempio di Delfi, a testimonianza di
una verità basilare che deve essere assunta come regola minima da ogni uomo
desideroso di distinguersi, in mezzo a tutto il creato, qualificandosi come «
uomo » appunto in quanto « conoscitore di se stesso ».
Un
semplice sguardo alla storia antica, d'altronde, mostra con chiarezza come in
diverse parti della terra, segnate da culture differenti, sorgano nello stesso
tempo le domande di fondo che caratterizzano il percorso dell'esistenza umana: chi sono? da dove vengo e dove vado? perché la presenza del male? cosa
ci sarà dopo questa vita? Questi interrogativi sono presenti negli scritti
sacri di Israele, ma compaiono anche nei Veda non meno che negli Avesta; li
troviamo negli scritti di Confucio e Lao-Tze come pure nella predicazione dei
Tirthankara e di Buddha; sono ancora essi ad affiorare nei poemi di Omero e
nelle tragedie di Euripide e Sofocle come pure nei trattati filosofici di
Platone ed Aristotele. Sono domande che hanno la loro comune scaturigine nella
richiesta di senso che da sempre urge nel cuore dell'uomo: dalla risposta a tali
domande, infatti, dipende l'orientamento da imprimere all'esistenza.
2.
La Chiesa non è estranea, né può esserlo, a questo cammino di ricerca. Da
quando, nel Mistero pasquale, ha ricevuto in dono la verità ultima sulla vita
dell'uomo, essa s'è fatta pellegrina per le strade del mondo per annunciare che
Gesù Cristo è « la via, la verità e la vita » (Gv
14, 6). Tra i diversi servizi che essa deve offrire all'umanità, uno ve n'è
che la vede responsabile in modo del tutto peculiare: è la diaconia
alla verità.(1) Questa missione, da una parte, rende la comunità credente
partecipe dello sforzo comune che l'umanità compie per raggiungere la verità;
(2) dall'altra, la obbliga a farsi carico dell'annuncio delle certezze
acquisite, pur nella consapevolezza che ogni verità raggiunta è sempre solo
una tappa verso quella piena verità che si manifesterà nella rivelazione
ultima di Dio: « Ora vediamo come in uno specchio, in maniera confusa; ma
allora vedremo faccia a faccia. Ora conosco in modo imperfetto, ma allora
conoscerò perfettamente » (1 Cor 13,
12).
3.
Molteplici sono le risorse che l'uomo possiede per promuovere il progresso nella
conoscenza della verità, così da rendere la propria esistenza sempre più
umana. Tra queste emerge la filosofia, che contribuisce direttamente a porre la domanda circa il
senso della vita e ad abbozzarne la risposta: essa, pertanto, si configura come
uno dei compiti più nobili dell'umanità. Il termine filosofia, secondo
l'etimologia greca, significa « amore per la saggezza ». Di fatto, la
filosofia è nata e si è sviluppata nel momento in cui l'uomo ha iniziato a
interrogarsi sul perché delle cose e sul loro fine. In modi e forme differenti,
essa mostra che il desiderio di verità appartiene alla stessa natura dell'uomo.
E una proprietà nativa della sua ragione interrogarsi sul perché delle cose,
anche se le risposte via via date si inseriscono in un orizzonte che rende
evidente la complementarità delle differenti culture in cui l'uomo vive.
La
forte incidenza che la filosofia ha avuto nella formazione e nello sviluppo
delle culture in Occidente non deve farci dimenticare l'influsso che essa ha
esercitato anche nei modi di concepire l'esistenza di cui vive l'Oriente. Ogni
popolo, infatti, possiede una sua indigena e originaria saggezza che, quale
autentica ricchezza delle culture, tende a esprimersi e a maturare anche in
forme prettamente filosofiche. Quanto questo sia vero lo dimostra il fatto che
una forma basilare di sapere filosofico, presente fino ai nostri giorni, è
verificabile perfino nei postulati a cui le diverse legislazioni nazionali e
internazionali si ispirano nel regolare la vita sociale.
4.
È, comunque, da rilevare che dietro un unico termine si nascondono significati
differenti. Un'esplicitazione preliminare si rende pertanto necessaria. Spinto
dal desiderio di scoprire la verità ultima dell'esistenza, l'uomo cerca di
acquisire quelle conoscenze universali che gli consentono di comprendersi meglio
e di progredire nella realizzazione di sé. Le conoscenze fondamentali
scaturiscono dalla meraviglia suscitata
in lui dalla contemplazione del creato: l'essere umano è colto dallo stupore
nello scoprirsi inserito nel mondo, in relazione con altri suoi simili dei quali
condivide il destino. Parte di qui il cammino che lo porterà poi alla scoperta
di orizzonti di conoscenza sempre nuovi. Senza meraviglia l'uomo cadrebbe nella
ripetitività e, poco alla volta, diventerebbe incapace di un'esistenza
veramente personale.
La
capacità speculativa, che è propria dell'intelletto umano, porta ad elaborare,
mediante l'attività filosofica, una forma di pensiero rigoroso e a costruire
così, con la coerenza logica delle affermazioni e l'organicità dei contenuti,
un sapere sistematico. Grazie a questo processo, in differenti contesti
culturali e in diverse epoche, si sono raggiunti risultati che hanno portato
all'elaborazione di veri sistemi di pensiero. Storicamente ciò ha spesso
esposto alla tentazione di identificare una sola corrente con l'intero pensiero
filosofico. E però evidente che, in questi casi, entra in gioco una certa «
superbia filosofica » che pretende di erigere la propria visione prospettica e
imperfetta a lettura universale. In realtà, ogni sistema
filosofico, pur rispettato sempre nella sua interezza senza
strumentalizzazioni di sorta, deve riconoscere la priorità del pensare
filosofico, da cui trae origine e a cui deve servire in forma coerente.
In
questo senso è possibile riconoscere, nonostante il mutare dei tempi e i
progressi del sapere, un nucleo di conoscenze filosofiche la cui presenza è
costante nella storia del pensiero. Si pensi, solo come esempio, ai principi di
non contraddizione, di finalità, di causalità, come pure alla concezione della
persona come soggetto libero e intelligente e alla sua capacità di conoscere
Dio, la verità, il bene; si pensi inoltre ad alcune norme morali fondamentali
che risultano comunemente condivise. Questi e altri temi indicano che, a
prescindere dalle correnti di pensiero, esiste un insieme di conoscenze in cui
è possibile ravvisare una sorta di patrimonio spirituale dell'umanità. E come
se ci trovassimo dinanzi a una filosofia
implicita per cui ciascuno sente di possedere questi principi, anche se in
forma generica e non riflessa. Queste conoscenze, proprio perché condivise in
qualche misura da tutti, dovrebbero costituire come un punto di riferimento
delle diverse scuole filosofiche. Quando la ragione riesce a intuire e a
formulare i principi primi e universali dell'essere e a far correttamente
scaturire da questi conclusioni coerenti di ordine logico e deontologico, allora
può dirsi una ragione retta o, come la chiamavano gli antichi, orthòs
logos, recta ratio.
5.
La Chiesa, da parte sua, non può che apprezzare l'impegno della ragione per il
raggiungimento di obiettivi che rendano l'esistenza personale sempre più degna.
Essa infatti vede nella filosofia la via per conoscere fondamentali verità
concernenti l'esistenza dell'uomo. Al tempo stesso, considera la filosofia un
aiuto indispensabile per approfondire l'intelligenza della fede e per comunicare
la verità del Vangelo a quanti ancora non la conoscono.
Facendo
pertanto seguito ad analoghe iniziative dei miei Predecessori, desidero anch'io
rivolgere lo sguardo a questa peculiare attività della ragione. Mi ci spinge il
rilievo che, soprattutto ai nostri giorni, la ricerca della verità ultima
appare spesso offuscata. Senza dubbio la filosofia moderna ha il grande merito
di aver concentrato la sua attenzione sull'uomo. A partire da qui, una ragione
carica di interrogativi ha sviluppato ulteriormente il suo desiderio di
conoscere sempre di più e sempre più a fondo. Sono stati così costruiti
sistemi di pensiero complessi, che hanno dato i loro frutti nei diversi ambiti
del sapere, favorendo lo sviluppo della cultura e della storia. L'antropologia,
la logica, le scienze della natura, la storia, il linguaggio..., in qualche modo
l'intero universo del sapere è stato abbracciato. I positivi risultati
raggiunti non devono, tuttavia, indurre a trascurare il fatto che quella stessa
ragione, intenta ad indagare in maniera unilaterale sull'uomo come soggetto,
sembra aver dimenticato che questi è pur sempre chiamato ad indirizzarsi verso
una verità che lo trascende. Senza il riferimento ad essa, ciascuno resta in
balia dell'arbitrio e la sua condizione di persona finisce per essere valutata
con criteri pragmatici basati essenzialmente sul dato sperimentale, nell'errata
convinzione che tutto deve essere dominato dalla tecnica. E così accaduto che,
invece di esprimere al meglio la tensione verso la verità, la ragione sotto il
peso di tanto sapere si è curvata su se stessa diventando, giorno dopo giorno,
incapace di sollevare lo sguardo verso l'alto per osare di raggiungere la verità
dell'essere. La filosofia moderna, dimenticando di orientare la sua indagine
sull'essere, ha concentrato la propria ricerca sulla conoscenza umana. Invece di
far leva sulla capacità che l'uomo ha di conoscere la verità, ha preferito
sottolinearne i limiti e i condizionamenti.
Ne
sono derivate varie forme di agnosticismo e di relativismo, che hanno portato la
ricerca filosofica a smarrirsi nelle sabbie mobili di un generale scetticismo.
Di recente, poi, hanno assunto rilievo diverse dottrine che tendono a svalutare
perfino quelle verità che l'uomo era certo di aver raggiunte. La legittima
pluralità di posizioni ha ceduto il posto ad un indifferenziato pluralismo,
fondato sull'assunto che tutte le posizioni si equivalgono: è questo uno dei
sintomi più diffusi della sfiducia nella verità che è dato verificare nel
contesto contemporaneo. A questa riserva non sfuggono neppure alcune concezioni
di vita che provengono dall'Oriente; in esse, infatti, si nega alla verità il
suo carattere esclusivo, partendo dal presupposto che essa si manifesta in modo
uguale in dottrine diverse, persino contraddittorie tra di loro. In questo
orizzonte, tutto è ridotto a opinione. Si ha l'impressione di un movimento
ondivago: la riflessione filosofica mentre, da una parte, è riuscita a
immettersi sulla strada che la rende sempre più vicina all'esistenza umana e
alle sue forme espressive, dall'altra, tende a sviluppare considerazioni
esistenziali, ermeneutiche o linguistiche che prescindono dalla questione
radicale circa la verità della vita personale, dell'essere e di Dio. Di
conseguenza, sono emersi nell'uomo contemporaneo, e non soltanto presso alcuni
filosofi, atteggiamenti di diffusa sfiducia nei confronti delle grandi risorse
conoscitive dell'essere umano. Con falsa modestia ci si accontenta di verità
parziali e provvisorie, senza più tentare di porre domande radicali sul senso e
sul fondamento ultimo della vita umana, personale e sociale. E venuta meno,
insomma, la speranza di poter ricevere dalla filosofia risposte definitive a
tali domande.
6.
Forte della competenza che le deriva dall'essere depositaria della Rivelazione
di Gesù Cristo, la Chiesa intende riaffermare la necessità della riflessione
sulla verità. E per questo motivo che ho deciso di rivolgermi a voi, Venerati
Confratelli nell'Episcopato, con i quali condivido la missione di annunziare «
apertamente la verità » (2 Cor 4,
2), come pure ai teologi e ai filosofi a cui spetta il dovere di indagare sui
diversi aspetti della verità, ed anche alle persone che sono in ricerca, per
partecipare alcune riflessioni sul cammino che conduce alla vera sapienza,
affinché chiunque ha nel cuore l'amore per essa possa intraprendere la giusta
strada per raggiungerla e trovare in essa riposo alla sua fatica e gaudio
spirituale.
Mi
spinge a questa iniziativa, anzitutto, la consapevolezza che viene espressa
dalle parole del Concilio Vaticano II, quando afferma che i Vescovi sono «
testimoni della divina e cattolica verità ».(3) Testimoniare la verità è,
dunque, un compito che è stato affidato a noi Vescovi; ad esso non possiamo
rinunciare senza venir meno al ministero che abbiamo ricevuto. Riaffermando la
verità della fede, possiamo ridare all'uomo del nostro tempo genuina fiducia
nelle sue capacità conoscitive e offrire alla filosofia una provocazione perché
possa recuperare e sviluppare la sua piena dignità.
Un
ulteriore motivo mi induce a stendere queste riflessioni. Nella Lettera
enciclica Veritatis splendor, ho
richiamato l'attenzione su « alcune verità fondamentali della dottrina
cattolica che nell'attuale contesto rischiano di essere deformate o negate ».(4)
Con la presente Lettera, desidero continuare quella riflessione concentrando
l'attenzione sul tema stesso della verità e sul suo fondamento in
rapporto alla fede. Non si può
negare, infatti, che questo periodo di rapidi e complessi cambiamenti esponga
soprattutto le giovani generazioni, a cui appartiene e da cui dipende il futuro,
alla sensazione di essere prive di autentici punti di riferimento. L'esigenza di
un fondamento su cui costruire l'esistenza personale e sociale si fa sentire in
maniera pressante soprattutto quando si è costretti a costatare la
frammentarietà di proposte che elevano l'effimero al rango di valore, illudendo
sulla possibilità di raggiungere il vero senso dell'esistenza. Accade così che
molti trascinano la loro vita fin quasi sull'orlo del baratro, senza sapere a
che cosa vanno incontro. Ciò dipende anche dal fatto che talvolta chi era
chiamato per vocazione a esprimere in forme culturali il frutto della propria
speculazione, ha distolto lo sguardo dalla verità, preferendo il successo
nell'immediato alla fatica di una indagine paziente su ciò che merita di essere
vissuto. La filosofia, che ha la grande responsabilità di formare il pensiero e
la cultura attraverso il richiamo perenne alla ricerca del vero, deve recuperare
con forza la sua vocazione originaria. E per questo che ho sentito non solo
l'esigenza, ma anche il dovere di intervenire su questo tema, perché l'umanità,
alla soglia del terzo millennio dell'era cristiana, prenda più chiara coscienza
delle grandi risorse che le sono state concesse, e s'impegni con rinnovato
coraggio nell'attuazione del piano di salvezza nel quale è inserita la sua
storia.
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CAPITOLO
I
LA
RIVELAZIONE
DELLA SAPIENZA DI DIO
Gesù
rivelatore del Padre
7.
Alla base di ogni riflessione che la Chiesa compie vi è la consapevolezza di
essere depositaria di un messaggio che ha la sua origine in Dio stesso (cfr 2
Cor 4, 1-2). La conoscenza che essa propone all'uomo non le proviene da una
sua propria speculazione, fosse anche la più alta, ma dall'aver accolto nella
fede la parola di Dio (cfr 1 Tess 2,
13). All'origine del nostro essere credenti vi è un incontro, unico nel suo
genere, che segna il dischiudersi di un mistero nascosto nei secoli (cfr 1
Cor 2, 7; Rm 16, 25-26), ma ora rivelato: « Piacque a Dio nella sua bontà e
sapienza rivelare se stesso e far conoscere il mistero della sua volontà (cfr Ef
1, 9), mediante il quale gli uomini per mezzo di Cristo, Verbo fatto carne,
nello Spirito Santo hanno accesso al Padre e sono resi partecipi della divina
natura ».(5) E, questa, un'iniziativa pienamente gratuita, che parte da Dio per
raggiungere l'umanità e salvarla. Dio, in quanto fonte di amore, desidera farsi
conoscere, e la conoscenza che l'uomo ha di lui porta a compimento ogni altra
vera conoscenza che la sua mente è in grado di raggiungere circa il senso della
propria esistenza.
8.
Riprendendo quasi alla lettera l'insegnamento offerto dalla Costituzione Dei
Filius del Concilio Vaticano I e tenendo conto dei principi proposti dal
Concilio Tridentino, la Costituzione Dei
Verbum del Vaticano II ha proseguito il secolare cammino di intelligenza
della fede, riflettendo sulla Rivelazione alla luce dell'insegnamento
biblico e dell'intera tradizione patristica. Nel primo Concilio Vaticano, i
Padri avevano sottolineato il carattere soprannaturale della rivelazione di Dio.
La critica razionalista, che in quel periodo veniva mossa contro la fede sulla
base di tesi errate e molto diffuse, verteva sulla negazione di ogni conoscenza
che non fosse frutto delle capacità naturali della ragione. Questo fatto aveva
obbligato il Concilio a ribadire con forza che, oltre alla conoscenza propria
della ragione umana, capace per sua natura di giungere fino al Creatore, esiste
una conoscenza che è peculiare della fede. Questa conoscenza esprime una verità
che si fonda sul fatto stesso di Dio che si rivela, ed è verità certissima
perché Dio non inganna né vuole ingannare.(6)
9.
Il Concilio Vaticano I, dunque, insegna che la verità raggiunta per via di
riflessione filosofica e la verità della Rivelazione non si confondono, né
l'una rende superflua l'altra: « Esistono due ordini di conoscenza, distinti
non solo per il loro principio, ma anche per il loro oggetto: per il loro
principio, perché nell'uno conosciamo con la ragione naturale, nell'altro con
la fede divina; per l'oggetto, perché oltre le verità che la ragione naturale
può capire, ci è proposto di vedere i misteri nascosti in Dio, che non possono
essere conosciuti se non sono rivelati dall'alto ».(7) La fede, che si fonda
sulla testimonianza di Dio e si avvale dell'aiuto soprannaturale della grazia,
è effettivamente di un ordine diverso da quello della conoscenza filosofica.
Questa, infatti, poggia sulla percezione dei sensi, sull'esperienza e si muove
alla luce del solo intelletto. La filosofia e le scienze spaziano nell'ordine
della ragione naturale, mentre la fede, illuminata e guidata dallo Spirito,
riconosce nel messaggio della salvezza la « pienezza di grazia e di verità »
(cfr Gv 1, 14) che Dio ha voluto
rivelare nella storia e in maniera definitiva per mezzo di suo Figlio Gesù
Cristo (cfr 1 Gv 5, 9; Gv
5, 31-32).
10.
Al Concilio Vaticano II i Padri, puntando lo sguardo su Gesù rivelatore, hanno
illustrato il carattere salvifico della rivelazione di Dio nella storia e ne
hanno espresso la natura nel modo seguente: « Con questa rivelazione, Dio
invisibile (cfr Col 1, 15; 1
Tm 1, 17) nel suo immenso amore parla agli uomini come ad amici (cfr Es
33, 11; Gv 15, 14-15) e si
intrattiene con essi (cfr Bar 3, 38)
per invitarli ed ammetterli alla comunione con sé. Questa economia della
Rivelazione avviene con eventi e parole intimamente connessi tra loro, in modo
che le opere, compiute da Dio nella storia della salvezza, manifestano e
rafforzano la dottrina e le realtà significate dalle parole, e le parole
dichiarano le opere e chiariscono il mistero in esse contenuto. La profonda
verità, poi, su Dio e sulla salvezza degli uomini, per mezzo di questa
Rivelazione risplende a noi in Cristo, il quale è insieme il mediatore e la
pienezza di tutta la rivelazione ».(8)
11.
La rivelazione di Dio, dunque, si inserisce nel tempo e nella storia.
L'incarnazione di Gesù Cristo, anzi, avviene nella « pienezza del tempo » (Gal
4, 4). A duemila anni di distanza da quell'evento, sento il dovere di
riaffermare con forza che « nel cristianesimo il tempo ha un'importanza
fondamentale ».(9) In esso, infatti, viene alla luce l'intera opera della
creazione e della salvezza e, soprattutto, emerge il fatto che con
l'incarnazione del Figlio di Dio noi viviamo e anticipiamo fin da ora ciò che
sarà il compimento del tempo (cfr Eb 1,
2).
La
verità che Dio ha consegnato all'uomo su se stesso e sulla sua vita si
inserisce, quindi, nel tempo e nella storia. Certo, essa è stata pronunciata
una volta per tutte nel mistero di Gesù di Nazareth. Lo dice con parole
eloquenti la Costituzione Dei Verbum:
« Dio, dopo avere a più riprese e in più modi parlato per mezzo dei Profeti,
“alla fine, nei nostri giorni, ha parlato a noi per mezzo del Figlio” (Eb
1, 1-2). Mandò infatti suo Figlio, cioè il Verbo eterno, che illumina
tutti gli uomini, affinché dimorasse tra gli uomini e ad essi spiegasse i
segreti di Dio (cfr Gv 1, 1-18). Gesù Cristo, Verbo
fatto carne, mandato come “uomo agli uomini”, “parla le parole di Dio” (Gv
3, 34) e porta a compimento l'opera di salvezza affidatagli dal Padre (cfr Gv
5, 36; 17, 4). Perciò Egli, vedendo il quale si vede anche il Padre (cfr Gv
14, 9), con tutta la sua presenza e con la manifestazione di sé, con le
parole e con le opere, con i segni e con i miracoli, e specialmente con la sua
morte e la gloriosa risurrezione di tra i morti, e infine con l'invio dello
Spirito di verità, compie e completa la Rivelazione ».(10)
La
storia, pertanto, costituisce per il Popolo di Dio un cammino da percorrere
interamente, così che la verità rivelata esprima in pienezza i suoi contenuti
grazie all'azione incessante dello Spirito Santo (cfr Gv
16, 13). Lo insegna, ancora una volta, la Costituzione Dei
Verbum quando afferma che « la Chiesa, nel corso dei secoli, tende
incessantemente alla pienezza della verità divina, finché in essa giungano a
compimento le parole di Dio ».(11)
12.
La storia, quindi, diventa il luogo in cui possiamo costatare l'agire di Dio a
favore dell'umanità. Egli ci raggiunge in ciò che per noi è più familiare e
facile da verificare, perché costituisce il nostro contesto quotidiano, senza
il quale non riusciremmo a comprenderci.
L'incarnazione
del Figlio di Dio permette di vedere attuata la sintesi definitiva che la mente
umana, partendo da sé, non avrebbe neppure potuto immaginare: l'Eterno entra
nel tempo, il Tutto si nasconde nel frammento, Dio assume il volto dell'uomo. La
verità espressa nella Rivelazione di Cristo, dunque, non è più rinchiusa in
un ristretto ambito territoriale e culturale, ma si apre a ogni uomo e donna che
voglia accoglierla come parola definitivamente valida per dare senso
all'esistenza. Ora, tutti hanno in Cristo accesso al Padre; con la sua morte e
risurrezione, infatti, Egli ha donato la vita divina che il primo Adamo aveva
rifiutato (cfr Rm 5, 12-15). Con questa Rivelazione viene offerta all'uomo la verità
ultima sulla propria vita e sul destino della storia: « In realtà solamente
nel mistero del Verbo incarnato trova vera luce il mistero dell'uomo », afferma
la Costituzione Gaudium et spes.(12)
Al di fuori di questa prospettiva il mistero dell'esistenza personale rimane un
enigma insolubile. Dove l'uomo potrebbe cercare la risposta ad interrogativi
drammatici come quelli del dolore, della sofferenza dell'innocente e della
morte, se non nella luce che promana dal mistero della passione, morte e
risurrezione di Cristo?
La
ragione dinanzi al mistero
13.
Non sarà, comunque, da dimenticare che la Rivelazione permane carica di
mistero. Certo, con tutta la sua vita Gesù rivela il volto del Padre, essendo
Egli venuto per spiegare i segreti di Dio; (13) eppure, la conoscenza che noi
abbiamo di tale volto è sempre segnata dalla frammentarietà e dal limite del
nostro comprendere. Solo la fede permette di entrare all'interno del mistero,
favorendone la coerente intelligenza.
Insegna
il Concilio che « a Dio che si rivela è dovuta l'obbedienza della fede ».(14)
Con questa breve ma densa affermazione, viene indicata una fondamentale verità
del cristianesimo. Si dice, anzitutto, che la fede è risposta di obbedienza a
Dio. Ciò comporta che Egli venga riconosciuto nella sua divinità, trascendenza
e libertà suprema. Il Dio che si fa conoscere, nell'autorità della sua
assoluta trascendenza, porta anche con sé la credibilità dei contenuti che
rivela. Con la fede, l'uomo dona il suo assenso a tale testimonianza divina. Ciò
significa che riconosce pienamente e integralmente la verità di quanto
rivelato, perché è Dio stesso che se ne fa garante. Questa verità, donata
all'uomo e da lui non esigibile, si inserisce nel contesto della comunicazione
interpersonale e spinge la ragione ad aprirsi ad essa e ad accoglierne il senso
profondo. E per questo che l'atto con il quale ci si affida a Dio è sempre
stato considerato dalla Chiesa come un momento di scelta fondamentale, in cui
tutta la persona è coinvolta. Intelletto e volontà esercitano al massimo la
loro natura spirituale per consentire al soggetto di compiere un atto in cui la
libertà personale è vissuta in maniera piena.(15) Nella fede, quindi, la
libertà non è semplicemente presente: è esigita. E la fede, anzi, che
permette a ciascuno di esprimere al meglio la propria libertà. In altre parole,
la libertà non si realizza nelle scelte contro Dio. Come infatti potrebbe
essere considerato un uso autentico della libertà il rifiuto di aprirsi verso
ciò che permette la realizzazione di se stessi? E nel credere che la persona
compie l'atto più significativo della propria esistenza; qui, infatti, la
libertà raggiunge la certezza della verità e decide di vivere in essa.
In
aiuto alla ragione, che cerca l'intelligenza del mistero, vengono anche i segni
presenti nella Rivelazione. Essi servono a condurre più a fondo la ricerca
della verità e a permettere che la mente possa autonomamente indagare anche
all'interno del mistero. Questi segni, comunque, se da una parte danno maggior
forza alla ragione, perché le consentono di ricercare all'interno del mistero
con i suoi propri mezzi di cui è giustamente gelosa, dall'altra la spingono a
trascendere la loro realtà di segni per raccoglierne il significato ulteriore
di cui sono portatori. In essi, pertanto, è già presente una verità nascosta
a cui la mente è rinviata e da cui non può prescindere senza distruggere il
segno stesso che le viene proposto.
Si
è rimandati, in qualche modo, all'orizzonte sacramentale
della Rivelazione e, in particolare, al segno eucaristico dove l'unità
inscindibile tra la realtà e il suo significato permette di cogliere la
profondità del mistero. Cristo nell'Eucaristia è veramente presente e vivo,
opera con il suo Spirito, ma, come aveva ben detto san Tommaso, « tu non vedi,
non comprendi, ma la fede ti conferma, oltre la natura. E un segno ciò che
appare: nasconde nel mistero realtà sublimi ».(16) Gli fa eco il filosofo
Pascal: « Come Gesù Cristo è rimasto sconosciuto tra gli uomini, così la sua
verità resta, tra le opinioni comuni, senza differenza esteriore. Così resta
l'Eucaristia tra il pane comune ».(17)
La
conoscenza di fede, insomma, non annulla il mistero; solo lo rende più evidente
e lo manifesta come fatto essenziale per la vita dell'uomo: Cristo Signore «
rivelando il mistero del Padre e del suo amore svela anche pienamente l'uomo
all'uomo e gli fa nota la sua altissima vocazione »,(18) che è quella di
partecipare al mistero della vita trinitaria di Dio.(19)
14.
L'insegnamento dei due Concili Vaticani apre un vero orizzonte di novità anche
per il sapere filosofico. La Rivelazione immette nella storia un punto di
riferimento da cui l'uomo non può prescindere, se vuole arrivare a comprendere
il mistero della sua esistenza; dall'altra parte, però, questa conoscenza
rinvia costantemente al mistero di Dio che la mente non può esaurire, ma solo
ricevere e accogliere nella fede. All'interno di questi due momenti, la ragione
possiede un suo spazio peculiare che le permette di indagare e comprendere,
senza essere limitata da null'altro che dalla sua finitezza di fronte al mistero
infinito di Dio.
La
Rivelazione, pertanto, immette nella nostra storia una verità universale e
ultima che provoca la mente dell'uomo a non fermarsi mai; la spinge, anzi, ad
allargare continuamente gli spazi del proprio sapere fino a quando non avverte
di avere compiuto quanto era in suo potere, senza nulla tralasciare. Ci viene in
aiuto per questa riflessione una delle intelligenze più feconde e significative
della storia dell'umanità, a cui fanno doveroso riferimento sia la filosofia
che la teologia: sant'Anselmo. Nel suo Proslogion,
l'Arcivescovo di Canterbury così si esprime: « Volgendo spesso e con impegno
il mio pensiero a questo problema, a volte mi sembrava di poter ormai afferrare
ciò che cercavo, altre volte invece sfuggiva completamente al mio pensiero;
finché finalmente, disperando di poterlo trovare, volli smettere di ricercare
qualcosa che era impossibile trovare. Ma quando volli scacciare da me quel
pensiero perché, occupando la mia mente, non mi distogliesse da altri problemi
dai quali potevo ricavare qualche profitto, allora cominciò a presentarsi con
sempre maggior importunità [...]. Ma povero me, uno dei poveri figli di Eva,
lontani da Dio, che cosa ho cominciato a fare e a che cosa sono riuscito? A che
cosa tendevo e a che cosa sono giunto? A che cosa aspiravo e di che sospiro?
[...]. O Signore, tu non solo sei ciò di cui non si può pensare nulla di più
grande (non solum es quo maius cogitari
nequit), ma sei più grande di tutto ciò che si possa pensare (quiddam maius quam cogitari possit) [...]. Se tu non fossi tale, si
potrebbe pensare qualcosa più grande di te, ma questo è impossibile ».(20)
15.
La verità della Rivelazione cristiana, che si incontra in Gesù di Nazareth,
permette a chiunque di accogliere il « mistero » della propria vita. Come
verità suprema, essa, mentre rispetta l'autonomia della creatura e la sua
libertà, la impegna ad aprirsi alla trascendenza. Qui il rapporto libertà e
verità diventa sommo e si comprende in pienezza la parola del Signore: «
Conoscerete la verità e la verità vi farà liberi » (Gv
8, 32).
La
Rivelazione cristiana è la vera stella di orientamento per l'uomo che avanza
tra i condizionamenti della mentalità immanentistica e le strettoie di una
logica tecnocratica; è l'ultima possibilità che viene offerta da Dio per
ritrovare in pienezza il progetto originario di amore, iniziato con la
creazione. All'uomo desideroso di conoscere il vero, se ancora è capace di
guardare oltre se stesso e di innalzare lo sguardo al di là dei propri
progetti, è data la possibilità di recuperare il genuino rapporto con la sua
vita, seguendo la strada della verità. Le parole del Deuteronomio bene si possono applicare a questa situazione: «
Questo comando che oggi ti ordino non è troppo alto per te, né troppo lontano
da te. Non è nel cielo perché tu dica: Chi salirà per noi in cielo per
prendercelo e farcelo udire sì che lo possiamo eseguire? Non è di là dal
mare, perché tu dica: Chi attraverserà per noi il mare per prendercelo e
farcelo udire sì che lo possiamo eseguire? Anzi, questa parola è molto vicina
a te, è nella tua bocca e nel tuo cuore, perché tu la metta in pratica »
(30,11-14). A questo testo fa eco il famoso pensiero del santo filosofo e
teologo Agostino: « Noli foras ire, in te
ipsum redi. In interiore homine habitat veritas ».(21)
Alla
luce di queste considerazioni, una prima conclusione si impone: la verità che
la Rivelazione ci fa conoscere non è il frutto maturo o il punto culminante di
un pensiero elaborato dalla ragione. Essa, invece, si presenta con la
caratteristica della gratuità, produce pensiero e chiede di essere accolta come
espressione di amore. Questa verità rivelata è anticipo, posto nella nostra
storia, di quella visione ultima e definitiva di Dio che è riservata a quanti
credono in lui o lo ricercano con cuore sincero. Il fine ultimo dell'esistenza
personale, dunque, è oggetto di studio sia della filosofia che della teologia.
Ambedue, anche se con mezzi e contenuti diversi, prospettano questo « sentiero
della vita » (Sal 16 [15], 11) che,
come la fede ci dice, ha il suo sbocco ultimo nella gioia piena e duratura della
contemplazione del Dio Uno e Trino.
|
CAPITOLO
II
CREDO
UT INTELLEGAM
«
La sapienza tutto conosce e tutto comprende » (Sap
9, 11)
16.
Quanto profondo sia il legame tra la conoscenza di fede e quella di ragione è
indicato già nella Sacra Scrittura con spunti di sorprendente chiarezza. Lo
documentano soprattutto i Libri sapienziali. Ciò che colpisce nella lettura, fatta senza
preconcetti, di queste pagine della Scrittura è il fatto che in questi testi
venga racchiusa non soltanto la fede di Israele, ma anche il tesoro di civiltà
e di culture ormai scomparse. Quasi per un disegno particolare, l'Egitto e la
Mesopotamia fanno sentire di nuovo la loro voce ed alcuni tratti comuni delle
culture dell'antico Oriente vengono riportati in vita in queste pagine ricche di
intuizioni singolarmente profonde.
Non
è un caso che, nel momento in cui l'autore sacro vuole descrivere l'uomo
saggio, lo dipinga come colui che ama e ricerca la verità: « Beato l'uomo che
medita sulla sapienza e ragiona con l'intelligenza, considera nel cuore le sue
vie, ne penetra con la mente i segreti. La insegue come uno che segue una pista,
si apposta sui suoi sentieri. Egli spia alle sue finestre e sta ad ascoltare
alla sua porta. Fa sosta vicino alla sua casa e fissa un chiodo nelle sue
pareti; alza la propria tenda presso di essa e si ripara in un rifugio di
benessere; mette i propri figli sotto la sua protezione e sotto i suoi rami
soggiorna; da essa sarà protetto contro il caldo, egli abiterà all'ombra della
sua gloria » (Sir 14, 20-27).
Per
l'autore ispirato, come si vede, il desiderio di conoscere è una caratteristica
che accomuna tutti gli uomini. Grazie all'intelligenza è data a tutti, sia
credenti che non credenti, la possibilità di « attingere alle acque profonde
» della conoscenza (cfr Pro 20, 5).
Certo, nell'antico Israele la conoscenza del mondo e dei suoi fenomeni non
avveniva per via di astrazione, come per il filosofo ionico o il saggio
egiziano. Ancor meno il buon israelita concepiva la conoscenza con i parametri
propri dell'epoca moderna, tesa maggiormente alla divisione del sapere.
Nonostante questo, il mondo biblico ha fatto confluire nel grande mare della
teoria della conoscenza il suo apporto originale.
Quale?
La peculiarità che distingue il testo biblico consiste nella convinzione che
esista una profonda e inscindibile unità tra la conoscenza della ragione e
quella della fede. Il mondo e ciò che accade in esso, come pure la storia e le
diverse vicende del popolo, sono realtà che vengono guardate, analizzate e
giudicate con i mezzi propri della ragione, ma senza che la fede resti estranea
a questo processo. Essa non interviene per umiliare l'autonomia della ragione o
per ridurne lo spazio di azione, ma solo per far comprendere all'uomo che in
questi eventi si rende visibile e agisce il Dio di Israele. Conoscere a fondo il
mondo e gli avvenimenti della storia non è, pertanto, possibile senza
confessare al contempo la fede in Dio che in essi opera. La fede affina lo
sguardo interiore aprendo la mente a scoprire, nel fluire degli eventi, la
presenza operante della Provvidenza. Un'espressione del libro dei Proverbi è
significativa in proposito: « La mente dell'uomo pensa molto alla sua via, ma
il Signore dirige i suoi passi » (16, 9). Come dire, l'uomo con la luce della
ragione sa riconoscere la sua strada, ma la può percorrere in maniera spedita,
senza ostacoli e fino alla fine, se con animo retto inserisce la sua ricerca
nell'orizzonte della fede. La ragione e la fede, pertanto, non possono essere
separate senza che venga meno per l'uomo la possibilità di conoscere in modo
adeguato se stesso, il mondo e Dio.
17.
Non ha dunque motivo di esistere competitività alcuna tra la ragione e la fede:
l'una è nell'altra, e ciascuna ha un suo spazio proprio di realizzazione. E
sempre il libro dei Proverbi che orienta in questa direzione quando esclama: «
E gloria di Dio nascondere le cose, è gloria dei re investigarle » (Pro
25, 2). Dio e l'uomo, nel loro rispettivo mondo, sono posti in un rapporto
unico. In Dio risiede l'origine di ogni cosa, in Lui si raccoglie la pienezza
del mistero, e questo costituisce la sua gloria; all'uomo spetta il compito di
investigare con la sua ragione la verità, e in ciò consiste la sua nobiltà.
Un'ulteriore tessera a questo mosaico è aggiunta dal Salmista quando prega
dicendo: « Quanto profondi per me i tuoi pensieri, quanto grande il loro
numero, o Dio; se li conto sono più della sabbia, se li credo finiti, con te
sono ancora » (139 [138], 17-18). Il desiderio di conoscere è così grande e
comporta un tale dinamismo, che il cuore dell'uomo, pur nell'esperienza del
limite invalicabile, sospira verso l'infinita ricchezza che sta oltre, perché
intuisce che in essa è custodita la risposta appagante per ogni questione
ancora irrisolta.
18.
Possiamo dire, pertanto, che Israele con la sua riflessione ha saputo aprire
alla ragione la via verso il mistero. Nella rivelazione di Dio ha potuto
scandagliare in profondità quanto con la ragione cercava di raggiungere senza
riuscirvi. A partire da questa più profonda forma di conoscenza, il popolo
eletto ha capito che la ragione deve rispettare alcune regole di fondo per poter
esprimere al meglio la propria natura. Una prima regola consiste nel tener conto
del fatto che la conoscenza dell'uomo è un cammino che non ha sosta; la seconda
nasce dalla consapevolezza che su tale strada non ci si può porre con
l'orgoglio di chi pensa che tutto sia frutto di personale conquista; una terza
si fonda nel « timore di Dio », del quale la ragione deve riconoscere la
sovrana trascendenza ed insieme il provvido amore nel governo del mondo.
Quando
s'allontana da queste regole, l'uomo s'espone al rischio del fallimento e
finisce per trovarsi nella condizione dello « stolto ». Per la Bibbia, in
questa stoltezza è insita una minaccia per la vita. Lo stolto infatti si illude
di conoscere molte cose, ma in realtà non è capace di fissare lo sguardo su
quelle essenziali. Ciò gli impedisce di porre ordine nella sua mente (cfr Pro
1, 7) e di assumere un atteggiamento adeguato nei confronti di se stesso e
dell'ambiente circostante. Quando poi giunge ad affermare « Dio non esiste » (cfr
Sal 14 [13], 1), rivela con definitiva chiarezza quanto la sua
conoscenza sia carente e quanto lontano egli sia dalla verità piena sulle cose,
sulla loro origine e sul loro destino.
19.
Alcuni testi importanti, che gettano ulteriore luce su questo argomento, sono
contenuti nel Libro della Sapienza. In essi l'Autore sacro parla di Dio che si
fa conoscere anche attraverso la natura. Per gli antichi lo studio delle scienze
naturali coincideva in gran parte con il sapere filosofico. Dopo aver affermato
che con la sua intelligenza l'uomo è in grado di « comprendere la struttura
del mondo e la forza degli elementi [...] il ciclo degli anni e la posizione
degli astri, la natura degli animali e l'istinto delle fiere » (Sap
7, 17.19-20), in una parola, che è capace di filosofare, il testo sacro
compie un passo in avanti di grande rilievo. Ricuperando il pensiero della
filosofia greca, a cui sembra riferirsi in questo contesto, l'Autore afferma
che, proprio ragionando sulla natura, si può risalire al Creatore: « Dalla
grandezza e bellezza delle creature, per analogia si conosce l'autore » (Sap
13, 5). Viene quindi riconosciuto un primo stadio della Rivelazione divina,
costituito dal meraviglioso « libro della natura », leggendo il quale, con gli
strumenti propri della ragione umana, si può giungere alla conoscenza del
Creatore. Se l'uomo con la sua intelligenza non arriva a riconoscere Dio
creatore di tutto, ciò non è dovuto tanto alla mancanza di un mezzo adeguato,
quanto piuttosto all'impedimento frapposto dalla sua libera volontà e dal suo
peccato.
20.
La ragione, in questa prospettiva, viene valorizzata, ma non sopravvalutata.
Quanto essa raggiunge, infatti, può essere vero, ma acquista pieno significato
solamente se il suo contenuto viene posto in un orizzonte più ampio, quello
della fede: « Dal Signore sono diretti i passi dell'uomo e come può l'uomo
comprendere la propria via? » (Pro 20,
24). Per l'Antico Testamento, pertanto, la fede libera la ragione in quanto le
permette di raggiungere coerentemente il suo oggetto di conoscenza e di
collocarlo in quell'ordine supremo in cui tutto acquista senso. In una parola,
l'uomo con la ragione raggiunge la verità, perché illuminato dalla fede scopre
il senso profondo di ogni cosa e, in particolare, della propria esistenza.
Giustamente, dunque, l'autore sacro pone l'inizio della vera conoscenza proprio
nel timore di Dio: « Il timore del Signore è il principio della scienza » (Pro
1, 7; cfr Sir 1, 14).
«
Acquista la sapienza, acquista l'intelligenza »
(Pro 4, 5)
21.
La conoscenza, per l'Antico Testamento, non si fonda soltanto su una attenta
osservazione dell'uomo, del mondo e della storia, ma suppone anche un
indispensabile rapporto con la fede e con i contenuti della Rivelazione. Qui si
trovano le sfide che il popolo eletto ha dovuto affrontare e a cui ha dato
risposta. Riflettendo su questa sua condizione, l'uomo biblico ha scoperto di
non potersi comprendere se non come « essere in relazione »: con se stesso,
con il popolo, con il mondo e con Dio. Questa apertura al mistero, che gli
veniva dalla Rivelazione, è stata alla fine per lui la fonte di una vera
conoscenza, che ha permesso alla sua ragione di immettersi in spazi di infinito,
ricevendone possibilità di comprensione fino allora insperate.
Lo
sforzo della ricerca non era esente, per l'Autore sacro, dalla fatica derivante
dallo scontro con i limiti della ragione. Lo si avverte, ad esempio, nelle
parole con cui il Libro dei Proverbi denuncia la stanchezza dovuta al tentativo
di comprendere i misteriosi disegni di Dio (cfr 30, 1-6). Tuttavia, malgrado la
fatica, il credente non si arrende. La forza per continuare il suo cammino verso
la verità gli viene dalla certezza che Dio lo ha creato come un « esploratore
» (cfr Qo 1, 13), la cui missione è
di non lasciare nulla di intentato nonostante il continuo ricatto del dubbio.
Poggiando su Dio, egli resta proteso, sempre e dovunque, verso ciò che è
bello, buono e vero.
22.
San Paolo, nel primo capitolo della sua Lettera ai Romani, ci aiuta a meglio
apprezzare quanto penetrante sia la riflessione dei Libri Sapienziali.
Sviluppando un'argomentazione filosofica con linguaggio popolare, l'Apostolo
esprime una profonda verità: attraverso il creato gli « occhi della mente »
possono arrivare a conoscere Dio. Egli, infatti, mediante le creature fa intuire
alla ragione la sua « potenza » e la sua « divinità » (cfr Rm
1, 20). Alla ragione dell'uomo, quindi, viene riconosciuta una capacità che
sembra quasi superare gli stessi suoi limiti naturali: non solo essa non è
confinata entro la conoscenza sensoriale, dal momento che può riflettervi sopra
criticamente, ma argomentando sui dati dei sensi può anche raggiungere la causa
che sta all'origine di ogni realtà sensibile. Con terminologia filosofica
potremmo dire che, nell'importante testo paolino, viene affermata la capacità
metafisica dell'uomo.
Secondo
l'Apostolo, nel progetto originario della creazione era prevista la capacità
della ragione di oltrepassare agevolmente il dato sensibile per raggiungere
l'origine stessa di tutto: il Creatore. A seguito della disobbedienza con la
quale l'uomo scelse di porre se stesso in piena e assoluta autonomia rispetto a
Colui che lo aveva creato, questa facilità di risalita a Dio creatore è venuta
meno.
Il
Libro della Genesi descrive in maniera plastica questa condizione dell'uomo,
quando narra che Dio lo pose nel giardino dell'Eden, al cui centro era situato
« l'albero della conoscenza del bene e del male » (2, 17). Il simbolo è
chiaro: l'uomo non era in grado di discernere e decidere da sé ciò che era
bene e ciò che era male, ma doveva richiamarsi a un principio superiore. La
cecità dell'orgoglio illuse i nostri progenitori di essere sovrani e autonomi,
e di poter prescindere dalla conoscenza derivante da Dio. Nella loro originaria
disobbedienza essi coinvolsero ogni uomo e ogni donna, procurando alla ragione
ferite che da allora in poi ne avrebbero ostacolato il cammino verso la piena
verità. Ormai la capacità umana di conoscere la verità era offuscata
dall'avversione verso Colui che della verità è fonte e origine. E ancora
l'Apostolo a rivelare quanto i pensieri degli uomini, a causa del peccato,
fossero diventati « vani » e i ragionamenti distorti e orientati al falso (cfr
Rm 1, 21-22). Gli occhi della mente
non erano ormai più capaci di vedere con chiarezza: progressivamente la ragione
è rimasta prigioniera di se stessa. La venuta di Cristo è stata l'evento di
salvezza che ha redento la ragione dalla sua debolezza, liberandola dai ceppi in
cui essa stessa s'era imprigionata.
23.
Il rapporto del cristiano con la filosofia, pertanto, richiede un discernimento
radicale. Nel Nuovo Testamento, soprattutto nelle Lettere di san Paolo, un dato
emerge con grande chiarezza: la contrapposizione tra « la sapienza di questo
mondo » e quella di Dio rivelata in Gesù Cristo. La profondità della sapienza
rivelata spezza il cerchio dei nostri abituali schemi di riflessione, che non
sono affatto in grado di esprimerla in maniera adeguata.
L'inizio
della prima Lettera ai Corinzi pone con radicalità questo dilemma. Il Figlio di
Dio crocifisso è l'evento storico contro cui s'infrange ogni tentativo della
mente di costruire su argomentazioni soltanto umane una giustificazione
sufficiente del senso dell'esistenza. Il vero punto nodale, che sfida ogni
filosofia, è la morte in croce di Gesù Cristo. Qui, infatti, ogni tentativo di
ridurre il piano salvifico del Padre a pura logica umana è destinato al
fallimento. « Dov'è il sapiente? Dov'è il dotto? Dove mai il sottile
ragionatore di questo mondo? Non ha forse Dio dimostrato stolta la sapienza di
questo mondo? » (1 Cor 1, 20), si
domanda con enfasi l'Apostolo. Per ciò che Dio vuole realizzare non è più
possibile la sola sapienza dell'uomo saggio, ma è richiesto un passaggio
decisivo verso l'accoglienza di una novità radicale: « Dio ha scelto ciò che
nel mondo è stolto per confondere i sapienti [...]; Dio ha scelto ciò che nel
mondo è ignobile e disprezzato e ciò che è nulla per ridurre a nulla le cose
che sono » (1 Cor 1, 27-28). La
sapienza dell'uomo rifiuta di vedere nella propria debolezza il presupposto
della sua forza; ma san Paolo non esita ad affermare: « Quando sono debole, è
allora che sono forte » (2 Cor 12,
10). L'uomo non riesce a comprendere come la morte possa essere fonte di vita e
di amore, ma Dio ha scelto per rivelare il mistero del suo disegno di salvezza
proprio ciò che la ragione considera « follia » e « scandalo ». Parlando il
linguaggio dei filosofi suoi contemporanei, Paolo raggiunge il culmine del suo
insegnamento e del paradosso che vuole esprimere: « Dio ha scelto ciò che nel
mondo [...] è nulla per ridurre a nulla le cose che sono » (1
Cor 1, 28). Per esprimere la natura della gratuità dell'amore rivelato
nella croce di Cristo, l'Apostolo non ha timore di usare il linguaggio più
radicale che i filosofi impiegavano nelle loro riflessioni su Dio. La ragione
non può svuotare il mistero di amore che la Croce rappresenta, mentre la Croce
può dare alla ragione la risposta ultima che essa cerca. Non la sapienza delle
parole, ma la Parola della Sapienza è ciò che san Paolo pone come criterio di
verità e, insieme, di salvezza.
La
sapienza della Croce, dunque, supera ogni limite culturale che le si voglia
imporre e obbliga ad aprirsi all'universalità della verità di cui è
portatrice. Quale sfida viene posta alla nostra ragione e quale vantaggio essa
ne ricava se vi si arrende! La filosofia, che già da sé è in grado di
riconoscere l'incessante trascendersi dell'uomo verso la verità, aiutata dalla
fede può aprirsi ad accogliere nella « follia » della Croce la genuina
critica a quanti si illudono di possedere la verità, imbrigliandola nelle
secche di un loro sistema. Il rapporto fede e filosofia trova nella predicazione
di Cristo crocifisso e risorto lo scoglio contro il quale può naufragare, ma
oltre il quale può sfociare nell'oceano sconfinato della verità. Qui si mostra
evidente il confine tra la ragione e la fede, ma diventa anche chiaro lo spazio
in cui ambedue si possono incontrare.
|
CAPITOLO
III
INTELLEGO
UT CREDAM
In
cammino alla ricerca della verità
24.
Racconta l'evangelista Luca negli Atti degli Apostoli che, durante i suoi viaggi
missionari, Paolo arrivò ad Atene. La città dei filosofi era ricolma di statue
rappresentanti diversi idoli. Un altare colpì la sua attenzione ed egli ne
trasse prontamente lo spunto per individuare una base comune su cui avviare
l'annuncio del kerigma: « Cittadini ateniesi, — disse — vedo che in tutto
siete molto timorati degli dei. Passando, infatti, e osservando i monumenti del
vostro culto, ho trovato anche un'ara con l'iscrizione: Al Dio ignoto. Quello
che voi adorate senza conoscere, io ve lo annunzio » (At 17, 22-23). A partire
da qui, san Paolo parla di Dio come creatore, come di Colui che trascende ogni
cosa e che a tutto dà vita. Continua poi il suo discorso così: « Egli creò
da uno solo tutte le nazioni degli uomini, perché abitassero su tutta la faccia
della terra. Per essi ha stabilito l'ordine dei tempi e i confini del loro
spazio, perché cercassero Dio, se mai arrivino a trovarlo andando come a
tentoni, benché non sia lontano da ciascuno di noi » (At
17, 26-27).
L'Apostolo
mette in luce una verità di cui la Chiesa ha sempre fatto tesoro: nel più
profondo del cuore dell'uomo è seminato il desiderio e la nostalgia di Dio. Lo
ricorda con forza anche la liturgia del Venerdì Santo quando, invitando a
pregare per quanti non credono, ci fa dire: « O Dio onnipotente ed eterno, tu
hai messo nel cuore degli uomini una così profonda nostalgia di te, che solo
quando ti trovano hanno pace ».(22) Esiste quindi un cammino che l'uomo, se
vuole, può percorrere; esso prende il via dalla capacità della ragione di
innalzarsi al di sopra del contingente per spaziare verso l'infinito.
In
differenti modi e in diversi tempi l'uomo ha dimostrato di saper dare voce a
questo suo intimo desiderio. La letteratura, la musica, la pittura, la scultura,
l'architettura ed ogni altro prodotto della sua intelligenza creatrice sono
diventati canali attraverso cui esprimere l'ansia della sua ricerca. La
filosofia in modo peculiare ha raccolto in sé questo movimento ed ha espresso,
con i suoi mezzi e secondo le modalità scientifiche sue proprie, questo
universale desiderio dell'uomo.
25.
« Tutti gli uomini desiderano sapere »,(23) e oggetto proprio di questo
desiderio è la verità. La stessa vita quotidiana mostra quanto ciascuno sia
interessato a scoprire, oltre il semplice sentito dire, come stanno veramente le
cose. L'uomo è l'unico essere in tutto il creato visibile che non solo è
capace di sapere, ma sa anche di sapere, e per questo si interessa alla verità
reale di ciò che gli appare. Nessuno può essere sinceramente indifferente alla
verità del suo sapere. Se scopre che è falso, lo rigetta; se può, invece,
accertarne la verità, si sente appagato. E la lezione di sant'Agostino quando
scrive: « Molti ho incontrato che volevano ingannare, ma che volesse farsi
ingannare, nessuno ».(24) Giustamente si ritiene che una persona abbia
raggiunto l'età adulta quando può discernere, con i propri mezzi, tra ciò che
è vero e ciò che è falso, formandosi un suo giudizio sulla realtà oggettiva
delle cose. Sta qui il motivo di tante ricerche, in particolare nel campo delle
scienze, che hanno portato negli ultimi secoli a così significativi risultati,
favorendo un autentico progresso dell'umanità intera.
Non
meno importante della ricerca in ambito teoretico è quella in ambito pratico:
intendo alludere alla ricerca della verità in rapporto al bene da compiere. Con
il proprio agire etico, infatti, la persona, operando secondo il suo libero e
retto volere, si introduce nella strada della felicità e tende verso la
perfezione. Anche in questo caso si tratta di verità. Ho ribadito questa
convinzione nella Lettera enciclica Veritatis
splendor: « Non si dà morale senza libertà [...]. Se esiste il diritto di
essere rispettati nel proprio cammino di ricerca della verità, esiste ancora
prima l'obbligo morale grave per ciascuno di cercare la verità e di aderirvi
una volta conosciuta ».(25)
E
necessario, dunque, che i valori scelti e perseguiti con la propria vita siano
veri, perché soltanto valori veri possono perfezionare la persona realizzandone
la natura. Questa verità dei valori, l'uomo la trova non rinchiudendosi in se
stesso ma aprendosi ad accoglierla anche nelle dimensioni che lo trascendono. E
questa una condizione necessaria perché ognuno diventi se stesso e cresca come
persona adulta e matura.
26.
La verità inizialmente si presenta all'uomo in forma interrogativa: ha
un senso la vita? verso dove è diretta? A prima vista, l'esistenza
personale potrebbe presentarsi radicalmente priva di senso. Non è necessario
ricorrere ai filosofi dell'assurdo né alle provocatorie domande che si
ritrovano nel Libro di Giobbe per dubitare del senso della vita. L'esperienza
quotidiana della sofferenza, propria ed altrui, la vista di tanti fatti che alla
luce della ragione appaiono inspiegabili, bastano a rendere ineludibile una
questione così drammatica come quella sul senso.(26) A ciò si aggiunga che la
prima verità assolutamente certa della nostra esistenza, oltre al fatto che
esistiamo, è l'inevitabilità della nostra morte. Di fronte a questo dato
sconcertante s'impone la ricerca di una risposta esaustiva. Ognuno vuole — e
deve — conoscere la verità sulla propria fine. Vuole sapere se la morte sarà
il termine definitivo della sua esistenza o se vi è qualcosa che oltrepassa la
morte; se gli è consentito sperare in una vita ulteriore oppure no. Non è
senza significato che il pensiero filosofico abbia ricevuto un suo decisivo
orientamento dalla morte di Socrate e ne sia rimasto segnato da oltre due
millenni. Non è affatto casuale, quindi, che i filosofi dinanzi al fatto della
morte si siano riproposti sempre di nuovo questo problema insieme con quello sul
senso della vita e dell'immortalità.
27.
A questi interrogativi nessuno può sfuggire, né il filosofo né l'uomo comune.
Dalla risposta ad essi data dipende una tappa decisiva della ricerca: se sia
possibile o meno raggiungere una verità universale e assoluta. Di per sé, ogni
verità anche parziale, se è realmente verità, si presenta come universale. Ciò
che è vero, deve essere vero per tutti e per sempre. Oltre a questa universalità,
tuttavia, l'uomo cerca un assoluto che sia capace di dare risposta e senso a
tutta la sua ricerca: qualcosa di ultimo, che si ponga come fondamento di ogni
cosa. In altre parole, egli cerca una spiegazione definitiva, un valore supremo,
oltre il quale non vi siano né vi possano essere interrogativi o rimandi
ulteriori. Le ipotesi possono affascinare, ma non soddisfano. Viene per tutti il
momento in cui, lo si ammetta o no, si ha bisogno di ancorare la propria
esistenza ad una verità riconosciuta come definitiva, che dia certezza non più
sottoposta al dubbio.
I
filosofi, nel corso dei secoli, hanno cercato di scoprire e di esprimere una
simile verità, dando vita a un sistema o una scuola di pensiero. Al di là dei
sistemi filosofici, tuttavia, vi sono altre espressioni in cui l'uomo cerca di
dare forma a una sua « filosofia »: si tratta di convinzioni o esperienze
personali, di tradizioni familiari e culturali o di itinerari esistenziali in
cui ci si affida all'autorità di un maestro. In ognuna di queste manifestazioni
ciò che permane sempre vivo è il desiderio di raggiungere la certezza della
verità e del suo valore assoluto.
I
differenti volti della verità dell'uomo
28.
Non sempre, è doveroso riconoscerlo, la ricerca della verità si presenta con
una simile trasparenza e consequenzialità. La nativa limitatezza della ragione
e l'incostanza del cuore oscurano e deviano spesso la ricerca personale. Altri
interessi di vario ordine possono sopraffare la verità. Succede anche che
l'uomo addirittura la sfugga non appena comincia ad intravederla, perché ne
teme le esigenze. Nonostante questo, anche quando la evita, è sempre la verità
ad influenzarne l'esistenza. Mai, infatti, egli potrebbe fondare la propria vita
sul dubbio, sull'incertezza o sulla menzogna; una simile esistenza sarebbe
minacciata costantemente dalla paura e dall'angoscia. Si può definire, dunque,
l'uomo come colui che cerca la verità.
29.
Non è pensabile che una ricerca così profondamente radicata nella natura umana
possa essere del tutto inutile e vana. La stessa capacità di cercare la verità
e di porre domande implica già una prima risposta. L'uomo non inizierebbe a
cercare ciò che ignorasse del tutto o stimasse assolutamente irraggiungibile.
Solo la prospettiva di poter arrivare ad una risposta può indurlo a muovere il
primo passo. Di fatto, proprio questo è ciò che normalmente accade nella
ricerca scientifica. Quando uno scienziato, a seguito di una sua intuizione, si
pone alla ricerca della spiegazione logica e verificabile di un determinato
fenomeno, egli ha fiducia fin dall'inizio di trovare una risposta, e non
s'arrende davanti agli insuccessi. Egli non ritiene inutile l'intuizione
originaria solo perché non ha raggiunto l'obiettivo; con ragione dirà
piuttosto che non ha trovato ancora la risposta adeguata.
La
stessa cosa deve valere anche per la ricerca della verità nell'ambito delle
questioni ultime. La sete di verità è talmente radicata nel cuore dell'uomo
che il doverne prescindere comprometterebbe l'esistenza. E sufficiente, insomma,
osservare la vita di tutti i giorni per costatare come ciascuno di noi porti in
sé l'assillo di alcune domande essenziali ed insieme custodisca nel proprio
animo almeno l'abbozzo delle relative risposte. Sono risposte della cui verità
si è convinti, anche perché si sperimenta che, nella sostanza, non
differiscono dalle risposte a cui sono giunti tanti altri. Certo, non ogni verità
che viene acquisita possiede lo stesso valore. Dall'insieme dei risultati
raggiunti, tuttavia, viene confermata la capacità che l'essere umano ha di
pervenire, in linea di massima, alla verità.
30.
Può essere utile, ora, fare un rapido cenno a queste diverse forme di verità.
Le più numerose sono quelle che poggiano su evidenze immediate o trovano
conferma per via di esperimento. E questo l'ordine di verità proprio della vita
quotidiana e della ricerca scientifica. A un altro livello si trovano le verità
di carattere filosofico, a cui l'uomo giunge mediante la capacità speculativa
del suo intelletto. Infine, vi sono le verità religiose, che in qualche misura
affondano le loro radici anche nella filosofia. Esse sono contenute nelle
risposte che le varie religioni nelle loro tradizioni offrono alle domande
ultime. (27)
Quanto
alle verità filosofiche, occorre precisare che esse non si limitano alle sole
dottrine, talvolta effimere, dei filosofi di professione. Ogni uomo, come già
ho detto, è in certo qual modo un filosofo e possiede proprie concezioni
filosofiche con le quali orienta la sua vita. In un modo o in un altro, egli si
forma una visione globale e una risposta sul senso della propria esistenza: in
tale luce egli interpreta la propria vicenda personale e regola il suo
comportamento. E qui che dovrebbe porsi la domanda sul rapporto tra le verità
filosofico-religiose e la verità rivelata in Gesù Cristo. Prima di rispondere
a questo interrogativo è opportuno valutare un ulteriore dato della filosofia.
31.
L'uomo non è fatto per vivere solo. Egli nasce e cresce in una famiglia, per
inserirsi più tardi con il suo lavoro nella società. Fin dalla nascita,
quindi, si trova immerso in varie tradizioni, dalle quali riceve non soltanto il
linguaggio e la formazione culturale, ma anche molteplici verità a cui, quasi
istintivamente, crede. La crescita e la maturazione personale, comunque,
implicano che queste stesse verità possano essere messe in dubbio e vagliate
attraverso la peculiare attività critica del pensiero. Ciò non toglie che,
dopo questo passaggio, quelle stesse verità siano « ricuperate » sulla base
dell'esperienza che se ne è fatta, o in forza del ragionamento successivo.
Nonostante questo, nella vita di un uomo le verità semplicemente credute
rimangono molto più numerose di quelle che egli acquisisce mediante la
personale verifica. Chi, infatti, sarebbe in grado di vagliare criticamente gli
innumerevoli risultati delle scienze su cui la vita moderna si fonda? Chi
potrebbe controllare per conto proprio il flusso delle informazioni, che giorno
per giorno si ricevono da ogni parte del mondo e che pure si accettano, in linea
di massima, come vere? Chi, infine, potrebbe rifare i cammini di esperienza e di
pensiero per cui si sono accumulati i tesori di saggezza e di religiosità
dell'umanità? L'uomo, essere che cerca la verità, è dunque anche colui
che vive di credenza.
32.
Nel credere, ciascuno si affida alle conoscenze acquisite da altre persone. E
ravvisabile in ciò una tensione significativa: da una parte, la conoscenza per
credenza appare come una forma imperfetta di conoscenza, che deve perfezionarsi
progressivamente mediante l'evidenza raggiunta personalmente; dall'altra, la
credenza risulta spesso umanamente più ricca della semplice evidenza, perché
include un rapporto interpersonale e mette in gioco non solo le personali
capacità conoscitive, ma anche la capacità più radicale di affidarsi ad altre
persone, entrando in un rapporto più stabile ed intimo con loro.
E
bene sottolineare che le verità ricercate in questa relazione interpersonale
non sono primariamente nell'ordine fattuale o in quello filosofico. Ciò che
viene richiesto, piuttosto, è la verità stessa della persona: ciò che essa è
e ciò che manifesta del proprio intimo. La perfezione dell'uomo, infatti, non
sta nella sola acquisizione della conoscenza astratta della verità, ma consiste
anche in un rapporto vivo di donazione e di fedeltà verso l'altro. In questa
fedeltà che sa donarsi, l'uomo trova piena certezza e sicurezza. Al tempo
stesso, però, la conoscenza per credenza, che si fonda sulla fiducia
interpersonale, non è senza riferimento alla verità: l'uomo, credendo, si
affida alla verità che l'altro gli manifesta.
Quanti
esempi si potrebbero portare per illustrare questo dato! Il mio pensiero, però,
corre direttamente alla testimonianza dei martiri. Il martire, in effetti, è il
più genuino testimone della verità sull'esistenza. Egli sa di avere trovato
nell'incontro con Gesù Cristo la verità sulla sua vita e niente e nessuno potrà
mai strappargli questa certezza. Né la sofferenza né la morte violenta lo
potranno fare recedere dall'adesione alla verità che ha scoperto nell'incontro
con Cristo. Ecco perché fino ad oggi la testimonianza dei martiri affascina,
genera consenso, trova ascolto e viene seguita. Questa è la ragione per cui ci
si fida della loro parola: si scopre in essi l'evidenza di un amore che non ha
bisogno di lunghe argomentazioni per essere convincente, dal momento che parla
ad ognuno di ciò che egli nel profondo già percepisce come vero e ricercato da
tanto tempo. Il martire, insomma, provoca in noi una profonda fiducia, perché
dice ciò che noi già sentiamo e rende evidente ciò che anche noi vorremmo
trovare la forza di esprimere.
33.
Si può così vedere che i termini del problema vanno progressivamente
completandosi. L'uomo, per natura, ricerca la verità. Questa ricerca non è
destinata solo alla conquista di verità parziali, fattuali o scientifiche; egli
non cerca soltanto il vero bene per ognuna delle sue decisioni. La sua ricerca
tende verso una verità ulteriore che sia in grado di spiegare il senso della
vita; è perciò una ricerca che non può trovare esito se non nell'assoluto.(28)
Grazie alle capacità insite nel pensiero, l'uomo è in grado di incontrare e
riconoscere una simile verità. In quanto vitale ed essenziale per la sua
esistenza, tale verità viene raggiunta non solo per via razionale, ma anche
mediante l'abbandono fiducioso ad altre persone, che possono garantire la
certezza e l'autenticità della verità stessa. La capacità e la scelta di
affidare se stessi e la propria vita a un'altra persona costituiscono certamente
uno degli atti antropologicamente più significativi ed espressivi.
Non
si dimentichi che anche la ragione ha bisogno di essere sostenuta nella sua
ricerca da un dialogo fiducioso e da un'amicizia sincera. Il clima di sospetto e
di diffidenza, che a volte circonda la ricerca speculativa, dimentica
l'insegnamento dei filosofi antichi, i quali ponevano l'amicizia come uno dei
contesti più adeguati per il retto filosofare.
Da
quanto ho fin qui detto, risulta che l'uomo si trova in un cammino di ricerca,
umanamente interminabile: ricerca di verità e ricerca di una persona a cui
affidarsi. La fede cristiana gli viene incontro offrendogli la possibilità
concreta di vedere realizzato lo scopo di questa ricerca. Superando lo stadio
della semplice credenza, infatti, essa immette l'uomo in quell'ordine di grazia
che gli consente di partecipare al mistero di Cristo, nel quale gli è offerta
la conoscenza vera e coerente del Dio Uno e Trino. Così in Gesù Cristo, che è
la Verità, la fede riconosce l'ultimo appello che viene rivolto all'umanità,
perché possa dare compimento a ciò che sperimenta come desiderio e nostalgia.
34.
Questa verità, che Dio ci rivela in Gesù Cristo, non è in contrasto con le
verità che si raggiungono filosofando. I due ordini di conoscenza conducono
anzi alla verità nella sua pienezza. L'unità della verità è già un
postulato fondamentale della ragione umana, espresso nel principio di
non-contraddizione. La Rivelazione dà la certezza di questa unità, mostrando
che il Dio creatore è anche il Dio della storia della salvezza. Lo stesso e
identico Dio, che fonda e garantisce l'intelligibilità e la ragionevolezza
dell'ordine naturale delle cose su cui gli scienziati si appoggiano
fiduciosi,(29) è il medesimo che si rivela Padre di nostro Signore Gesù
Cristo. Quest'unità della verità, naturale e rivelata, trova la sua
identificazione viva e personale in Cristo, così come ricorda l'Apostolo: « La
verità che è in Gesù » (Ef 4, 21;
cfr Col 1, 15-20). Egli è la Parola
eterna, in cui tutto è stato creato, ed è insieme la Parola
incarnata, che in tutta la sua persona (30) rivela il Padre (cfr Gv 1, 14.18). Ciò che la ragione umana cerca « senza conoscerlo »
(cfr At 17, 23), può essere trovato
soltanto per mezzo di Cristo: ciò che in Lui si rivela, infatti, è la « piena
verità » (cfr Gv 1, 14-16) di ogni
essere che in Lui e per Lui è stato creato e quindi in Lui trova compimento (cfr
Col 1, 17).
35.
Sullo sfondo di queste considerazioni generali, è necessario ora esaminare in
maniera più diretta il rapporto tra la verità rivelata e la filosofia. Questo
rapporto impone una duplice considerazione, in quanto la verità che ci proviene
dalla Rivelazione è, nello stesso tempo, una verità che va compresa alla luce
della ragione. Solo in questa duplice accezione, infatti, è possibile precisare
la giusta relazione della verità rivelata con il sapere filosofico.
Consideriamo, pertanto, in primo luogo i rapporti tra la fede e la filosofia nel
corso della storia. Da qui sarà possibile individuare alcuni principi, che
costituiscono i punti di riferimento a cui rifarsi per stabilire il corretto
rapporto tra i due ordini di conoscenza.
|
CAPITOLO
IV
IL
RAPPORTO
TRA LA FEDE E LA RAGIONE
Tappe
significative dell'incontro tra fede e ragione
36.
Secondo la testimonianza degli Atti degli Apostoli, l'annuncio cristiano venne a
confronto sin dagli inizi con le correnti filosofiche del tempo. Lo stesso libro
riferisce della discussione che san Paolo ebbe ad Atene con « certi filosofi
epicurei e stoici » (17, 18). L'analisi esegetica di quel discorso all'Areopago
ha posto in evidenza le ripetute allusioni a convincimenti popolari di
provenienza per lo più stoica. Certamente ciò non era casuale. Per farsi
comprendere dai pagani, i primi cristiani non potevano nei loro discorsi
rinviare soltanto « a Mosè e ai profeti »; dovevano anche far leva sulla
conoscenza naturale di Dio e sulla voce della coscienza morale di ogni uomo (cfr
Rm 1, 19-21; 2, 14-15; At 14, 16-17).
Poiché però tale conoscenza naturale, nella religione pagana, era scaduta in
idolatria (cfr Rm 1, 21-32),
l'Apostolo ritenne più saggio collegare il suo discorso al pensiero dei
filosofi, i quali fin dagli inizi avevano opposto ai miti e ai culti misterici
concetti più rispettosi della trascendenza divina.
Uno
degli sforzi maggiori che i filosofi del pensiero classico operarono, infatti,
fu quello di purificare la concezione che gli uomini avevano di Dio da forme
mitologiche. Come sappiamo, anche la religione greca, non diversamente da gran
parte delle religioni cosmiche, era politeista, giungendo fino a divinizzare
cose e fenomeni della natura. I tentativi dell'uomo di comprendere l'origine
degli dei e, in loro, dell'universo trovarono la loro prima espressione nella
poesia. Le teogonie rimangono, fino ad oggi, la prima testimonianza di questa
ricerca dell'uomo. Fu compito dei padri della filosofia far emergere il legame
tra la ragione e la religione. Allargando lo sguardo verso i principi
universali, essi non si accontentarono più dei miti antichi, ma vollero
giungere a dare fondamento razionale alla loro credenza nella divinità. Si
intraprese, così, una strada che, uscendo dalle tradizioni antiche particolari,
si immetteva in uno sviluppo che corrispondeva alle esigenze della ragione
universale. Il fine verso cui tale sviluppo tendeva era la consapevolezza
critica di ciò in cui si credeva. La prima a trarre vantaggio da simile cammino
fu la concezione della divinità. Le superstizioni vennero riconosciute come
tali e la religione fu, almeno in parte, purificata mediante l'analisi
razionale. Fu su questa base che i Padri della Chiesa avviarono un dialogo
fecondo con i filosofi antichi, aprendo la strada all'annuncio e alla
comprensione del Dio di Gesù Cristo.
37.
Nell'accennare a questo movimento di avvicinamento dei cristiani alla filosofia,
è doveroso ricordare anche l'atteggiamento di cautela che in essi suscitavano
altri elementi del mondo culturale pagano, quali ad esempio la gnosi. La
filosofia, come saggezza pratica e scuola di vita, poteva facilmente essere
confusa con una conoscenza di tipo superiore, esoterico, riservato a pochi
perfetti. E senza dubbio a questo genere di speculazioni esoteriche che san
Paolo pensa, quando mette in guardia i Colossesi: « Badate che nessuno vi
inganni con la sua filosofia e con vuoti raggiri ispirati alla tradizione umana,
secondo gli elementi del mondo e non secondo Cristo » (2, 8). Quanto mai
attuali si presentano le parole dell'Apostolo, se le riferiamo alle diverse
forme di esoterismo che dilagano oggi anche presso alcuni credenti, privi del
dovuto senso critico. Sulle orme di san Paolo, altri scrittori dei primi secoli,
in particolare sant'Ireneo e Tertulliano, sollevano a loro volta riserve nei
confronti di un'impostazione culturale che pretendeva di subordinare la verità
della Rivelazione all'interpretazione dei filosofi.
8.
L'incontro del cristianesimo con la filosofia, dunque, non fu immediato né
facile. La pratica di essa e la frequentazione delle scuole apparve ai primi
cristiani più come un disturbo che come un'opportunità. Per loro, primo e
urgente dovere era l'annuncio di Cristo risorto da proporre in un incontro
personale capace di condurre l'interlocutore alla conversione del cuore e alla
richiesta del Battesimo. Ciò non significa, comunque, che essi ignorassero il
compito di approfondire l'intelligenza della fede e delle sue motivazioni.
Tutt'altro. Ingiusta e pretestuosa, pertanto, risulta la critica di Celso, che
accusa i cristiani di essere gente « illetterata e rozza ».(31) La spiegazione
di questo loro iniziale disinteresse va ricercata altrove. In realtà,
l'incontro con il Vangelo offriva una risposta così appagante alla questione,
fino a quel momento ancora non risolta, circa il senso della vita, che la
frequentazione dei filosofi appariva loro come una cosa lontana e, per alcuni
versi, superata.
Ciò
appare oggi ancora più chiaro, se si pensa a quell'apporto del cristianesimo
che consiste nell'affermazione dell'universale diritto d'accesso alla verità.
Abbattute le barriere razziali, sociali e sessuali, il cristianesimo aveva
annunciato fin dai suoi inizi l'uguaglianza di tutti gli uomini dinanzi a Dio.
La prima conseguenza di questa concezione si applicava al tema della verità.
Veniva decisamente superato il carattere elitario che la sua ricerca aveva
presso gli antichi: poiché l'accesso alla verità è un bene che permette di
giungere a Dio, tutti devono essere nella condizione di poter percorrere questa
strada. Le vie per raggiungere la verità rimangono molteplici; tuttavia, poiché
la verità cristiana ha un valore salvifico, ciascuna di queste vie può essere
percorsa, purché conduca alla meta finale, ossia alla rivelazione di Gesù
Cristo.
Quale
pioniere di un incontro positivo col pensiero filosofico, anche se nel segno di
un cauto discernimento, va ricordato san Giustino: questi, pur conservando anche
dopo la conversione grande stima per la filosofia greca, asseriva con forza e
chiarezza di aver trovato nel cristianesimo « l'unica sicura e proficua
filosofia ».(32) Similmente, Clemente Alessandrino chiamava il Vangelo « la
vera filosofia »,(33) e interpretava la filosofia in analogia alla legge
mosaica come una istruzione propedeutica alla fede cristiana (34) e una
preparazione al Vangelo.(35) Poiché « la filosofia brama quella sapienza che
consiste nella rettitudine dell'anima e della parola e nella purezza della vita,
essa è ben disposta verso la sapienza e fa tutto il possibile per raggiungerla.
Presso di noi si dicono filosofi coloro che amano la sapienza che è creatrice e
maestra di ogni cosa, cioè la conoscenza del Figlio di Dio ».(36) La filosofia
greca, per l'Alessandrino, non ha come primo scopo quello di completare o
rafforzare la verità cristiana; suo compito è, piuttosto, la difesa della
fede: « La dottrina del Salvatore è perfetta in se stessa e non ha bisogno di
appoggio, perché essa è la forza e la sapienza di Dio. La filosofia greca, col
suo apporto, non rende più forte la verità, ma siccome rende impotente
l'attacco della sofistica e disarma gli attacchi proditori contro la verità, la
si è chiamata a ragione siepe e muro di cinta della vigna ».(37)
39.
Nella storia di questo sviluppo è possibile, comunque, verificare l'assunzione
critica del pensiero filosofico da parte dei pensatori cristiani. Tra i primi
esempi che si possono incontrare, quello di Origene è certamente significativo.
Contro gli attacchi che venivano mossi dal filosofo Celso, Origene assume la
filosofia platonica per argomentare e rispondergli. Riferendosi a non pochi
elementi del pensiero platonico, egli inizia a elaborare una prima forma di
teologia cristiana. Il nome stesso, infatti, insieme con l'idea di teologia come
discorso razionale su Dio, fino a quel momento era ancora legato alla sua
origine greca. Nella filosofia aristotelica, ad esempio, il nome designava la
parte più nobile e il vero apogeo del discorso filosofico. Alla luce della
Rivelazione cristiana, invece, ciò che in precedenza indicava una generica
dottrina sulle divinità venne ad assumere un significato del tutto nuovo, in
quanto definiva la riflessione che il credente compiva per esprimere la
vera dottrina su Dio. Questo nuovo pensiero cristiano che si andava
sviluppando si avvaleva della filosofia, ma nello stesso tempo tendeva a
distinguersi nettamente da essa. La storia mostra come lo stesso pensiero
platonico assunto in teologia abbia subito profonde trasformazioni, in
particolare per quanto riguarda concetti quali l'immortalità dell'anima, la
divinizzazione dell'uomo e l'origine del male.
40.
In quest'opera di cristianizzazione del pensiero platonico e neoplatonico,
meritano particolare menzione i Padri Cappadoci, Dionigi detto l'Areopagita e
soprattutto sant'Agostino. Il grande Dottore occidentale era venuto a contatto
con diverse scuole filosofiche, ma tutte lo avevano deluso. Quando davanti a lui
si affacciò la verità della fede cristiana, allora ebbe la forza di compiere
quella radicale conversione a cui i filosofi precedentemente frequentati non
erano riusciti ad indurlo. Il motivo lo racconta lui stesso: « Dal quel momento
però cominciai a rendermi conto che una preferenza per l'insegnamento cattolico
mi avrebbe imposto di credere a cose non dimostrate (sia che una dimostrazione
ci fosse ma non apparisse convincente, sia che non ci fosse del tutto) in misura
minore e con rischio d'errore trascurabile in confronto all'insegnamento
manicheo. Il quale prima si prendeva gioco della credulità con temerarie
promesse di conoscenza, e poi imponeva di credere a tante fantasie favolose ed
assurde, dato che non poteva dimostrarle ».(38) Agli stessi platonici, a cui si
faceva riferimento in modo privilegiato, Agostino rimproverava che, pur avendo
conosciuto il fine verso cui tendere, avevano ignorato però la via che vi
conduce: il Verbo incarnato.(39) Il Vescovo di Ippona riuscì a produrre la
prima grande sintesi del pensiero filosofico e teologico nella quale confluivano
correnti del pensiero greco e latino. Anche in lui, la grande unità del sapere,
che trovava il suo fondamento nel pensiero biblico, venne ad essere confermata e
sostenuta dalla profondità del pensiero speculativo. La sintesi compiuta da
sant'Agostino rimarrà per secoli come la forma più alta della speculazione
filosofica e teologica che l'Occidente abbia conosciuto. Forte della sua storia
personale e aiutato da una mirabile santità di vita, egli fu anche in grado di
introdurre nelle sue opere molteplici dati che, facendo riferimento
all'esperienza, preludevano a futuri sviluppi di alcune correnti filosofiche.
41.
Diverse, dunque, sono state le forme con cui i Padri d'Oriente e d'Occidente
sono entrati in rapporto con le scuole filosofiche. Ciò non significa che essi
abbiano identificato il contenuto del loro messaggio con i sistemi a cui
facevano riferimento. La domanda di Tertulliano: « Che cosa hanno in comune
Atene e Gerusalemme? Che cosa l'Accademia e la Chiesa? »,(40) è chiaro sintomo
della coscienza critica con cui i pensatori cristiani, fin dalle origini,
affrontarono il problema del rapporto tra la fede e la filosofia, vedendolo
globalmente nei suoi aspetti positivi e nei suoi limiti. Non erano pensatori
ingenui. Proprio perché vivevano intensamente il contenuto della fede, essi
sapevano raggiungere le forme più profonde della speculazione. E pertanto
ingiusto e riduttivo limitare la loro opera alla sola trasposizione delle verità
di fede in categorie filosofiche. Fecero molto di più. Riuscirono, infatti, a
far emergere in pienezza quanto risultava ancora implicito e propedeutico nel
pensiero dei grandi filosofi antichi.(41) Costoro, come ho detto, avevano avuto
il compito di mostrare in quale modo la ragione, liberata dai vincoli esterni,
potesse uscire dal vicolo cieco dei miti, per aprirsi in modo più adeguato alla
trascendenza. Una ragione purificata e retta, quindi, era in grado di elevarsi
ai livelli più alti della riflessione, dando fondamento solido alla percezione
dell'essere, del trascendente e dell'assoluto.
Proprio
qui si inserisce la novità operata dai Padri. Essi accolsero in pieno la
ragione aperta all'assoluto e in essa innestarono la ricchezza proveniente dalla
Rivelazione. L'incontro non fu solo a livello di culture, delle quali l'una
succube forse del fascino dell'altra; esso avvenne nell'intimo degli animi e fu
incontro tra la creatura e il suo Creatore. Oltrepassando il fine stesso verso
cui inconsapevolmente tendeva in forza della sua natura, la ragione poté
raggiungere il sommo bene e la somma verità nella persona del Verbo incarnato.
Dinanzi alle filosofie, i Padri non ebbero tuttavia timore di riconoscere tanto
gli elementi comuni quanto le diversità che esse presentavano rispetto alla
Rivelazione. La coscienza delle convergenze non offuscava in loro il
riconoscimento delle differenze.
42.
Nella teologia scolastica il ruolo della ragione filosoficamente educata diventa
ancora più cospicuo sotto la spinta dell'interpretazione anselmiana dell'intellectus
fidei. Per il santo Arcivescovo di Canterbury la priorità della fede non è
competitiva con la ricerca propria della ragione. Questa, infatti, non è
chiamata a esprimere un giudizio sui contenuti della fede; ne sarebbe incapace,
perché a ciò non idonea. Suo compito, piuttosto, è quello di saper trovare un
senso, di scoprire delle ragioni che permettano a tutti di raggiungere una
qualche intelligenza dei contenuti di fede. Sant'Anselmo sottolinea il fatto che
l'intelletto deve porsi in ricerca di ciò che ama: più ama, più desidera
conoscere. Chi vive per la verità è proteso verso una forma di conoscenza che
si infiamma sempre più di amore per ciò che conosce, pur dovendo ammettere di
non aver ancora fatto tutto ciò che sarebbe nel suo desiderio: « Ad
te videndum factus sum; et nondum feci propter quod factus sum ».(42) Il
desiderio di verità spinge, dunque, la ragione ad andare sempre oltre; essa,
anzi, viene come sopraffatta dalla costatazione della sua capacità sempre più
grande di ciò che raggiunge. A questo punto, però, la ragione è in grado di
scoprire ove stia il compimento del suo cammino: « Penso infatti che chi
investiga una cosa incomprensibile debba accontentarsi di giungere con il
ragionamento a riconoscerne con somma certezza la realtà, anche se non è in
grado di penetrare con l'intelletto il suo modo di essere [...]. Che cosa c'è
peraltro di tanto incomprensibile ed inesprimibile quanto ciò che è al di
sopra di ogni cosa? Se dunque ciò di cui finora si è disputato intorno alla
somma essenza è stato stabilito su ragioni necessarie, quantunque non possa
essere penetrato con l'intelletto in modo da potersi chiarire anche verbalmente,
non per questo vacilla minimamente il fondamento della sua certezza. Se,
infatti, una precedente riflessione ha compreso in modo razionale che è
incomprensibile (rationabiliter comprehendit incomprehensibile esse) il modo in cui
la sapienza superna sa ciò che ha fatto [...], chi spiegherà come essa stessa
si conosce e si dice, essa di cui l'uomo nulla o pressoché nulla può sapere?
».(43)
L'armonia
fondamentale della conoscenza filosofica e della conoscenza di fede è ancora
una volta confermata: la fede chiede che il suo oggetto venga compreso con
l'aiuto della ragione; la ragione, al culmine della sua ricerca, ammette come
necessario ciò che la fede presenta.
La
novità perenne del pensiero di san Tommaso d'Aquino
43.
Un posto tutto particolare in questo lungo cammino spetta a san Tommaso, non
solo per il contenuto della sua dottrina, ma anche per il rapporto dialogico che
egli seppe instaurare con il pensiero arabo ed ebreo del suo tempo. In un'epoca
in cui i pensatori cristiani riscoprivano i tesori della filosofia antica, e più
direttamente aristotelica, egli ebbe il grande merito di porre in primo piano
l'armonia che intercorre tra la ragione e la fede. La luce della ragione e
quella della fede provengono entrambe da Dio, egli argomentava; perciò non
possono contraddirsi tra loro.(44)
Più
radicalmente, Tommaso riconosce che la natura, oggetto proprio della filosofia,
può contribuire alla comprensione della rivelazione divina. La fede, dunque,
non teme la ragione, ma la ricerca e in essa confida. Come la grazia suppone la
natura e la porta a compimento,(45) così la fede suppone e perfeziona la
ragione. Quest'ultima, illuminata dalla fede, viene liberata dalle fragilità e
dai limiti derivanti dalla disobbedienza del peccato e trova la forza necessaria
per elevarsi alla conoscenza del mistero di Dio Uno e Trino. Pur sottolineando
con forza il carattere soprannaturale della fede, il Dottore Angelico non ha
dimenticato il valore della sua ragionevolezza; ha saputo, anzi, scendere in
profondità e precisare il senso di tale ragionevolezza. La fede, infatti, è in
qualche modo « esercizio del pensiero »; la ragione dell'uomo non si annulla né
si avvilisce dando l'assenso ai contenuti di fede; questi sono in ogni caso
raggiunti con scelta libera e consapevole.(46)
E
per questo motivo che, giustamente, san Tommaso è sempre stato proposto dalla
Chiesa come maestro di pensiero e modello del retto modo di fare teologia. Mi
piace ricordare, in questo contesto, quanto ha scritto il mio Predecessore, il
Servo di Dio Paolo VI, in occasione del settimo centenario della morte del
Dottore Angelico: « Senza dubbio, Tommaso possedette al massimo grado il
coraggio della verità, la libertà di spirito nell'affrontare i nuovi problemi,
l'onestà intellettuale di chi non ammette la contaminazione del cristianesimo
con la filosofia profana, ma nemmeno il rifiuto aprioristico di questa. Perciò,
egli passò alla storia del pensiero cristiano come un pioniere sul nuovo
cammino della filosofia e della cultura universale. Il punto centrale e quasi il
nocciolo della soluzione che egli diede al problema del nuovo confronto tra la
ragione e la fede con la genialità del suo intuito profetico, è stato quello
della conciliazione tra la secolarità del mondo e la radicalità del Vangelo,
sfuggendo così alla innaturale tendenza negatrice del mondo e dei suoi valori,
senza peraltro venire meno alle supreme e inflessibili esigenze dell'ordine
soprannaturale ».(47)
44.
Tra le grandi intuizioni di san Tommaso vi è anche quella relativa al ruolo che
lo Spirito Santo svolge nel far maturare in sapienza la scienza umana. Fin dalle
prime pagine della sua Summa Theologiae (48) l'Aquinate volle mostrare il primato di quella
sapienza che è dono dello Spirito Santo ed introduce alla conoscenza delle
realtà divine. La sua teologia permette di comprendere la peculiarità della
sapienza nel suo stretto legame con la fede e la conoscenza divina. Essa conosce
per connaturalità, presuppone la fede e arriva a formulare il suo retto
giudizio a partire dalla verità della fede stessa: « La sapienza elencata tra
i doni dello Spirito Santo è distinta da quella che è posta tra le virtù
intellettuali. Infatti quest'ultima si acquista con lo studio: quella invece
“viene dall'alto”, come si esprime san Giacomo. Così pure è distinta dalla
fede. Poiché la fede accetta la verità divina così com'è, invece è proprio
del dono di sapienza giudicare secondo la verità divina ».(49)
La
priorità riconosciuta a questa sapienza, tuttavia, non fa dimenticare al
Dottore Angelico la presenza di altre due complementari forme di sapienza:
quella filosofica, che si fonda sulla
capacità che l'intelletto ha, entro i limiti che gli sono connaturali, di
indagare la realtà; e quella teologica, che si fonda sulla Rivelazione ed esamina i contenuti
della fede, raggiungendo il mistero stesso di Dio.
Intimamente
convinto che « omne verum a quocumque
dicatur a Spiritu Sancto est »,(50) san Tommaso amò in maniera
disinteressata la verità. Egli la cercò dovunque essa si potesse manifestare,
evidenziando al massimo la sua universalità. In lui, il Magistero della Chiesa
ha visto ed apprezzato la passione per la verità; il suo pensiero, proprio
perché si mantenne sempre nell'orizzonte della verità universale, oggettiva e
trascendente, raggiunse « vette che l'intelligenza umana non avrebbe mai potuto
pensare ».(51) Con ragione, quindi, egli può essere definito « apostolo della
verità ».(52) Proprio perché alla verità mirava senza riserve, nel suo
realismo egli seppe riconoscerne l'oggettività. La sua è veramente la
filosofia dell'essere e non del semplice apparire.
Il
dramma della separazione tra fede e ragione
45.
Con il sorgere delle prime università, la teologia veniva a confrontarsi più
direttamente con altre forme della ricerca e del sapere scientifico.
Sant'Alberto Magno e san Tommaso, pur mantenendo un legame organico tra la
teologia e la filosofia, furono i primi a riconoscere la necessaria autonomia di
cui la filosofia e le scienze avevano bisogno, per applicarsi efficacemente ai
rispettivi campi di ricerca. A partire dal tardo Medio Evo, tuttavia, la
legittima distinzione tra i due saperi si trasformò progressivamente in una
nefasta separazione. A seguito di un eccessivo spirito razionalista, presente in
alcuni pensatori, si radicalizzarono le posizioni, giungendo di fatto a una
filosofia separata e assolutamente autonoma nei confronti dei contenuti della
fede. Tra le altre conseguenze di tale separazione vi fu anche quella di una
diffidenza sempre più forte nei confronti della stessa ragione. Alcuni
iniziarono a professare una sfiducia generale, scettica e agnostica, o per
riservare più spazio alla fede o per screditarne ogni possibile riferimento
razionale.
Insomma,
ciò che il pensiero patristico e medievale aveva concepito e attuato come unità
profonda, generatrice di una conoscenza capace di arrivare alle forme più alte
della speculazione, venne di fatto distrutto dai sistemi che sposarono la causa
di una conoscenza razionale separata dalla fede e alternativa ad essa.
46.
Le radicalizzazioni più influenti sono note e ben visibili, soprattutto nella
storia dell'Occidente. Non è esagerato affermare che buona parte del pensiero
filosofico moderno si è sviluppato allontanandosi progressivamente dalla
Rivelazione cristiana, fino a raggiungere contrapposizioni esplicite. Nel secolo
scorso, questo movimento ha toccato il suo apogeo. Alcuni rappresentanti
dell'idealismo hanno cercato in diversi modi di trasformare la fede e i suoi
contenuti, perfino il mistero della morte e risurrezione di Gesù Cristo, in
strutture dialettiche razionalmente concepibili. A questo pensiero si sono
opposte diverse forme di umanesimo ateo, elaborate filosoficamente, che hanno
prospettato la fede come dannosa e alienante per lo sviluppo della piena
razionalità. Non hanno avuto timore di presentarsi come nuove religioni
formando la base di progetti che, sul piano politico e sociale, sono sfociati in
sistemi totalitari traumatici per l'umanità.
Nell'ambito
della ricerca scientifica si è venuta imponendo una mentalità positivista che
non soltanto si è allontanata da ogni riferimento alla visione cristiana del
mondo, ma ha anche, e soprattutto, lasciato cadere ogni richiamo alla visione
metafisica e morale. La conseguenza di ciò è che certi scienziati, privi di
ogni riferimento etico, rischiano di non avere più al centro del loro interesse
la persona e la globalità della sua vita. Di più: alcuni di essi, consapevoli
delle potenzialità insite nel progresso tecnologico, sembrano cedere, oltre che
alla logica del mercato, alla tentazione di un potere demiurgico sulla natura e
sullo stesso essere umano.
Come
conseguenza della crisi del razionalismo ha preso corpo, infine, il nichilismo.
Quale filosofia del nulla, esso riesce ad esercitare un suo fascino sui nostri
contemporanei. I suoi seguaci teorizzano la ricerca come fine a se stessa, senza
speranza né possibilità alcuna di raggiungere la meta della verità.
Nell'interpretazione nichilista, l'esistenza è solo un'opportunità per
sensazioni ed esperienze in cui l'effimero ha il primato. Il nichilismo è
all'origine di quella diffusa mentalità secondo cui non si deve assumere più
nessun impegno definitivo, perché tutto è fugace e provvisorio.
47.
Non è da dimenticare, d'altra parte, che nella cultura moderna è venuto a
cambiare il ruolo stesso della filosofia. Da saggezza e sapere universale, essa
si è ridotta progressivamente a una delle tante province del sapere umano; per
alcuni aspetti, anzi, è stata limitata a un ruolo del tutto marginale. Altre
forme di razionalità si sono nel frattempo affermate con sempre maggior
rilievo, ponendo in evidenza la marginalità del sapere filosofico. Invece che
verso la contemplazione della verità e la ricerca del fine ultimo e del senso
della vita, queste forme di razionalità sono orientate — o almeno orientabili
— come « ragione strumentale » al servizio di fini utilitaristici, di
fruizione o di potere.
Quanto
sia pericoloso assolutizzare questa strada l'ho fatto osservare fin dalla mia
prima Lettera enciclica quando scrivevo: « L'uomo di oggi sembra essere sempre
minacciato da ciò che produce, cioè dal risultato del lavoro delle sue mani e,
ancor più, del lavoro del suo intelletto, delle tendenze della sua volontà. I
frutti di questa multiforme attività dell'uomo, troppo presto e in modo spesso
imprevedibile, sono non soltanto e non tanto oggetto di 'alienazione', nel senso
che vengono semplicemente tolti a colui che li ha prodotti; quanto, almeno
parzialmente, in una cerchia conseguente e indiretta dei loro effetti, questi
frutti si rivolgono contro l'uomo stesso. Essi sono, infatti, diretti, o possono
essere diretti contro di lui. In questo sembra consistere l'atto principale del
dramma dell'esistenza umana contemporanea, nella sua più larga e universale
dimensione. L'uomo, pertanto, vive sempre più nella paura. Egli teme che i suoi
prodotti, naturalmente non tutti e non nella maggior parte, ma alcuni e proprio
quelli che contengono una speciale porzione della sua genialità e della sua
iniziativa, possano essere rivolti in modo radicale contro lui stesso ».(53)
Sulla
scia di queste trasformazioni culturali, alcuni filosofi, abbandonando la
ricerca della verità per se stessa, hanno assunto come loro unico scopo il
raggiungimento della certezza soggettiva o dell'utilità pratica. Conseguenza di
ciò è stato l'offuscamento della vera dignità della ragione, non più messa
nella condizione di conoscere il vero e di ricercare l'assoluto.
48.
Ciò che emerge da questo ultimo scorcio di storia della filosofia è, dunque,
la constatazione di una progressiva separazione tra la fede e la ragione
filosofica. E ben vero che, ad una attenta osservazione, anche nella riflessione
filosofica di coloro che contribuirono ad allargare la distanza tra fede e
ragione si manifestano talvolta germi preziosi di pensiero, che, se approfonditi
e sviluppati con rettitudine di mente e di cuore, possono far scoprire il
cammino della verità. Questi germi di pensiero si trovano, ad esempio, nelle
approfondite analisi sulla percezione e l'esperienza, sull'immaginario e
l'inconscio, sulla personalità e l'intersoggettività, sulla libertà ed i
valori, sul tempo e la storia. Anche il tema della morte può diventare severo
richiamo, per ogni pensatore, a ricercare dentro di sé il senso autentico della
propria esistenza. Questo tuttavia non toglie che l'attuale rapporto tra fede e
ragione richieda un attento sforzo di discernimento, perché sia la ragione che
la fede si sono impoverite e sono divenute deboli l'una di fronte all'altra. La
ragione, privata dell'apporto della Rivelazione, ha percorso sentieri laterali
che rischiano di farle perdere di vista la sua meta finale. La fede, privata
della ragione, ha sottolineato il sentimento e l'esperienza, correndo il rischio
di non essere più una proposta universale. E illusorio pensare che la fede,
dinanzi a una ragione debole, abbia maggior incisività; essa, al contrario,
cade nel grave pericolo di essere ridotta a mito o superstizione. Alla stessa
stregua, una ragione che non abbia dinanzi una fede adulta non è provocata a
puntare lo sguardo sulla novità e radicalità dell'essere.
Non
sembri fuori luogo, pertanto, il mio richiamo forte e incisivo, perché la fede
e la filosofia recuperino l'unità profonda che le rende capaci di essere
coerenti con la loro natura nel rispetto della reciproca autonomia. Alla parresia
della fede deve corrispondere l'audacia della ragione.
|
CAPITOLO
V
GLI
INTERVENTI DEL MAGISTERO
IN MATERIA FILOSOFICA
Il
discernimento del Magistero come diaconia alla verità
49.
La Chiesa non propone una propria filosofia né canonizza una qualsiasi
filosofia particolare a scapito di altre.(54) La ragione profonda di questa
riservatezza sta nel fatto che la filosofia, anche quando entra in rapporto con
la teologia, deve procedere secondo i suoi metodi e le sue regole; non vi
sarebbe altrimenti garanzia che essa rimanga orientata verso la verità e ad
essa tenda con un processo razionalmente controllabile. Di poco aiuto sarebbe
una filosofia che non procedesse alla luce della ragione secondo propri principi
e specifiche metodologie. In fondo, la radice della autonomia di cui gode la
filosofia è da individuare nel fatto che la ragione è per sua natura orientata
alla verità ed è inoltre in se stessa fornita dei mezzi necessari per
raggiungerla. Una filosofia consapevole di questo suo « statuto costitutivo »
non può non rispettare anche le esigenze e le evidenze proprie della verità
rivelata.
La
storia, tuttavia, ha mostrato le deviazioni e gli errori in cui non di rado il
pensiero filosofico, soprattutto moderno, è incorso. Non è compito né
competenza del Magistero intervenire per colmare le lacune di un discorso
filosofico carente. E suo obbligo, invece, reagire in maniera chiara e forte
quando tesi filosofiche discutibili minacciano la retta comprensione del dato
rivelato e quando si diffondono teorie false e di parte che seminano gravi
errori, confondendo la semplicità e la purezza della fede del popolo di Dio.
50.
Il Magistero ecclesiastico, quindi, può e deve esercitare autoritativamente,
alla luce della fede, il proprio discernimento critico nei confronti delle
filosofie e delle affermazioni che si scontrano con la dottrina cristiana.(55)
Al Magistero spetta di indicare, anzitutto, quali presupposti e conclusioni
filosofiche sarebbero incompatibili con la verità rivelata, formulando con ciò
stesso le esigenze che si impongono alla filosofia dal punto di vista della
fede. Nello sviluppo del sapere filosofico, inoltre, sono sorte diverse scuole
di pensiero. Anche questo pluralismo pone il Magistero di fronte alla
responsabilità di esprimere il suo giudizio circa la compatibilità o meno
delle concezioni di fondo, a cui queste scuole si attengono, con le esigenze
proprie della Parola di Dio e della riflessione teologica.
La
Chiesa ha il dovere di indicare ciò che in un sistema filosofico può risultare
incompatibile con la sua fede. Molti contenuti filosofici, infatti, quali i temi
di Dio, dell'uomo, della sua libertà e del suo agire etico, la chiamano in
causa direttamente, perché toccano la verità rivelata che essa custodisce.
Quando esercitiamo questo discernimento, noi Vescovi abbiamo il compito di
essere « testimoni della verità » nell'adempimento di una diaconia umile ma
tenace, quale ogni filosofo dovrebbe apprezzare, a vantaggio della recta ratio,
ossia della ragione che riflette correttamente sul vero.
51.
Questo discernimento, comunque, non deve essere inteso primariamente in forma
negativa, come se intenzione del Magistero fosse di eliminare o ridurre ogni
possibile mediazione. Al contrario, i suoi interventi sono tesi in primo luogo a
provocare, promuovere e incoraggiare il pensiero filosofico. I filosofi per
primi, d'altronde, comprendono l'esigenza dell'autocritica, della correzione di
eventuali errori e la necessità di oltrepassare i limiti troppo ristretti in
cui la loro riflessione è concepita. Si deve considerare, in modo particolare,
che una è la verità, benché le sue espressioni portino l'impronta della
storia e, per di più, siano opera di una ragione umana ferita e indebolita dal
peccato. Da ciò risulta che nessuna forma storica della filosofia può
legittimamente pretendere di abbracciare la totalità della verità, né di
essere la spiegazione piena dell'essere umano, del mondo e del rapporto
dell'uomo con Dio.
Oggi
poi, col moltiplicarsi dei sistemi, dei metodi, dei concetti e argomenti
filosofici, spesso estremamente particolareggiati, un discernimento critico alla
luce della fede si impone con maggiore urgenza. Discernimento non facile, perché
se è già laborioso riconoscere le capacità congenite e inalienabili della
ragione, con i suoi limiti costitutivi e storici, ancora più problematico
qualche volta può risultare il discernimento, nelle singole proposte
filosofiche, di ciò che, dal punto di vista della fede, esse offrono di valido
e di fecondo rispetto a ciò che, invece, presentano di erroneo o di pericoloso.
La Chiesa, comunque, sa che i « tesori della sapienza e della scienza » sono
nascosti in Cristo (Col 2, 3); per
questo interviene stimolando la riflessione filosofica, perché non si precluda
la strada che conduce al riconoscimento del mistero.
52.
Non è solo di recente che il Magistero della Chiesa è intervenuto per
manifestare il suo pensiero nei confronti di determinate dottrine filosofiche. A
titolo esemplificativo basti ricordare, nel corso dei secoli, i pronunciamenti
circa le teorie che sostenevano la preesistenza delle anime,(56) come pure circa
le diverse forme di idolatria e di esoterismo superstizioso, contenute in tesi
astrologiche; (57) per non dimenticare i testi più sistematici contro alcune
tesi dell'averroismo latino, incompatibili con la fede cristiana.(58)
Se
la parola del Magistero si è fatta udire più spesso a partire dalla metà del
secolo scorso è perché in quel periodo non pochi cattolici sentirono il dovere
di opporre una loro filosofia alle varie correnti del pensiero moderno. A questo
punto, diventava obbligatorio per il Magistero della Chiesa vegliare perché
queste filosofie non deviassero, a loro volta, in forme erronee e negative.
Furono così censurati simmetricamente: da una parte, il fideismo
(59) e il tradizionalismo radicale,(60) per la loro sfiducia nelle capacità
naturali della ragione; dall'altra parte, il razionalismo (61) e l'ontologismo,(62)
perché attribuivano alla ragione naturale ciò che è conoscibile solo alla
luce della fede. I contenuti positivi di questo dibattito furono formalizzati
nella Costituzione dogmatica Dei Filius,
con la quale per la prima volta un Concilio ecumenico, il Vaticano I,
interveniva in maniera solenne sui rapporti tra ragione e fede. L'insegnamento
contenuto in quel testo caratterizzò fortemente e in maniera positiva la
ricerca filosofica di molti credenti e costituisce ancora oggi un punto di
riferimento normativo per una corretta e coerente riflessione cristiana in
questo particolare ambito.
53.
Più che di singole tesi filosofiche, i pronunciamenti del Magistero si sono
occupati della necessità della conoscenza razionale e, dunque, ultimamente
filosofica per l'intelligenza della fede. Il Concilio Vaticano I, sintetizzando
e riaffermando in modo solenne gli insegnamenti che in maniera ordinaria e
costante il Magistero pontificio aveva proposto per i fedeli, mise in evidenza
quanto fossero inseparabili e insieme irriducibili la conoscenza naturale di Dio
e la Rivelazione, la ragione e la fede. Il Concilio partiva dall'esigenza
fondamentale, presupposta dalla Rivelazione stessa, della conoscibilità
naturale dell'esistenza di Dio, principio e fine di ogni cosa,(63) e concludeva
con l'asserzione solenne già citata: « esistono due ordini di conoscenza,
distinti non solo per il loro principio, ma anche per il loro oggetto ».(64)
Bisognava affermare, dunque, contro ogni forma di razionalismo, la distinzione
dei misteri della fede dai ritrovati filosofici e la trascendenza e precedenza
di quelli rispetto a questi; d'altra parte, contro le tentazioni fideistiche,
era necessario che si ribadisse l'unità della verità e, quindi, anche
l'apporto positivo che la conoscenza razionale può e deve dare alla conoscenza
di fede: « Ma anche se la fede è sopra la ragione, non vi potrà mai essere
una vera divergenza tra fede e ragione: poiché lo stesso Dio, che rivela i
misteri e comunica la fede, ha anche deposto nello spirito umano il lume della
ragione, questo Dio non potrebbe negare se stesso, né il vero contraddire il
vero ».(65)
54.
Anche nel nostro secolo, il Magistero è ritornato più volte sull'argomento
mettendo in guardia contro la tentazione razionalistica. E su questo scenario
che si devono collocare gli interventi del Papa san Pio X, il quale rilevava
come alla base del modernismo vi fossero asserti filosofici di indirizzo
fenomenista, agnostico e immanentista.(66) Non si può neppure dimenticare
l'importanza che ebbe il rifiuto cattolico della filosofia marxista e del
comunismo ateo.(67)
Successivamente,
il Papa Pio XII fece sentire la sua voce quando, nella Lettera enciclica Humani
generis, mise in guardia contro interpretazioni erronee, collegate con le
tesi dell'evoluzionismo, dell'esistenzialismo e dello storicismo. Egli precisava
che queste tesi erano state elaborate e venivano proposte non da teologi, avendo
la loro origine « fuori dall'ovile di Cristo »; (68) aggiungeva, comunque, che
tali deviazioni non erano semplicemente da rigettare, ma da esaminare
criticamente: « Ora queste tendenze, che più o meno deviano dalla retta
strada, non possono essere ignorate o trascurate dai filosofi o dai teologi
cattolici, che hanno il grave compito di difendere la verità divina ed umana e
di farla penetrare nelle menti degli uomini. Anzi, essi devono conoscere bene
queste opinioni, sia perché le malattie non si possono curare se prima non sono
ben conosciute, sia perché qualche volta nelle stesse false affermazioni si
nasconde un po' di verità, sia, infine, perché gli stessi errori spingono la
mente nostra a investigare e a scrutare con più diligenza alcune verità sia
filosofiche sia teologiche ».(69)
Da
ultimo, anche la Congregazione per la Dottrina della Fede, in adempimento del
suo specifico compito a servizio del magistero universale del Romano
Pontefice,(70) ha dovuto intervenire per ribadire il pericolo che comporta
l'assunzione acritica, da parte di alcuni teologi della liberazione, di tesi e
metodologie derivanti dal marxismo.(71)
Nel
passato il Magistero ha dunque esercitato ripetutamente e sotto diverse modalità
il discernimento in materia filosofica. Quanto i miei Venerati Predecessori
hanno apportato costituisce un prezioso contributo che non può essere
dimenticato.
55.
Se guardiamo alla nostra condizione odierna, vediamo che i problemi di un tempo
ritornano, ma con peculiarità nuove. Non si tratta più solamente di questioni
che interessano singole persone o gruppi, ma di convinzioni diffuse
nell'ambiente al punto da divenire in qualche misura mentalità comune. Tale è,
ad esempio, la radicale sfiducia nella ragione che rivelano i più recenti
sviluppi di molti studi filosofici. Da più parti si è sentito parlare, a
questo riguardo, di « fine della metafisica »: si vuole che la filosofia si
accontenti di compiti più modesti, quali la sola interpretazione del fattuale o
la sola indagine su campi determinati del sapere umano o sulle sue strutture.
Nella
stessa teologia tornano ad affacciarsi le tentazioni di un tempo. In alcune
teologie contemporanee, ad esempio, si fa nuovamente strada un certo razionalismo,
soprattutto quando asserti ritenuti filosoficamente fondati sono assunti come
normativi per la ricerca teologica. Ciò accade soprattutto quando il teologo,
per mancanza di competenza filosofica, si lascia condizionare in modo acritico
da affermazioni entrate ormai nel linguaggio e nella cultura corrente, ma prive
di sufficiente base razionale.(72)
Non
mancano neppure pericolosi ripiegamenti sul fideismo,
che non riconosce l'importanza della conoscenza razionale e del discorso
filosofico per l'intelligenza della fede, anzi per la stessa possibilità di
credere in Dio. Un'espressione oggi diffusa di tale tendenza fideistica è il «
biblicismo », che tende a fare della lettura della Sacra Scrittura o della sua
esegesi l'unico punto di riferimento veritativo. Accade così che si identifichi
la parola di Dio con la sola Sacra Scrittura, vanificando in tal modo la
dottrina della Chiesa che il Concilio Ecumenico Vaticano II ha ribadito
espressamente. La Costituzione Dei Verbum,
dopo aver ricordato che la parola di Dio è presente sia nei testi sacri che
nella Tradizione,(73) afferma con forza: « La Sacra Tradizione e la Sacra
Scrittura costituiscono un solo sacro deposito della parola di Dio affidato alla
Chiesa. Aderendo ad esso tutto il popolo santo, unito ai suoi Pastori, persevera
costantemente nell'insegnamento degli Apostoli ».(74) La Sacra Scrittura,
pertanto, non è il solo riferimento per la Chiesa. La « regola suprema della
propria fede »,(75) infatti, le proviene dall'unità che lo Spirito ha posto
tra la Sacra Tradizione, la Sacra Scrittura e il Magistero della Chiesa in una
reciprocità tale per cui i tre non possono sussistere in maniera indipendente.(76)
Non
è da sottovalutare, inoltre, il pericolo insito nel voler derivare la verità
della Sacra Scrittura dall'applicazione di una sola metodologia, dimenticando la
necessità di una esegesi più ampia che consenta di accedere, insieme con tutta
la Chiesa, al senso pieno dei testi. Quanti si dedicano allo studio delle Sacre
Scritture devono sempre tener presente che le diverse metodologie ermeneutiche
hanno anch'esse alla base una concezione filosofica: occorre vagliarla con
discernimento prima di applicarla ai testi sacri.
Altre
forme di latente fideismo sono riconoscibili nella poca considerazione che viene
riservata alla teologia speculativa, come pure nel disprezzo per la filosofia
classica, alle cui nozioni sia l'intelligenza della fede sia le stesse
formulazioni dogmatiche hanno attinto i loro termini. Il Papa Pio XII, di
venerata memoria, ha messo in guardia contro tale oblio della tradizione
filosofica e contro l'abbandono delle terminologie tradizionali.(77)
56.
Si nota, insomma, una diffusa diffidenza verso gli asserti globali e assoluti,
soprattutto da parte di chi ritiene che la verità sia il risultato del consenso
e non dell'adeguamento dell'intelletto alla realtà oggettiva. E certo
comprensibile che, in un mondo suddiviso in molti campi specialistici, diventi
difficile riconoscere quel senso totale e ultimo della vita che la filosofia
tradizionalmente ha cercato. Nondimeno alla luce della fede che riconosce in Gesù
Cristo tale senso ultimo, non posso non incoraggiare i filosofi, cristiani o
meno, ad avere fiducia nelle capacità della ragione umana e a non prefiggersi
mete troppo modeste nel loro filosofare. La lezione della storia di questo
millennio, che stiamo per concludere, testimonia che questa è la strada da
seguire: bisogna non perdere la passione per la verità ultima e l'ansia per la
ricerca, unite all'audacia di scoprire nuovi percorsi. E la fede che provoca la
ragione a uscire da ogni isolamento e a rischiare volentieri per tutto ciò che
è bello, buono e vero. La fede si fa così avvocato convinto e convincente
della ragione.
L'interesse
della Chiesa per la filosofia
57.
Il Magistero, comunque, non si è limitato solo a rilevare gli errori e le
deviazioni delle dottrine filosofiche. Con altrettanta attenzione ha voluto
ribadire i principi fondamentali per un genuino rinnovamento del pensiero
filosofico, indicando anche concreti percorsi da seguire. In questo senso, il
Papa Leone XIII con la sua Lettera enciclica Æterni Patris compì un passo di autentica portata storica per la
vita della Chiesa. Quel testo è stato, fino ad oggi, l'unico documento
pontificio di quel livello dedicato interamente alla filosofia. Il grande
Pontefice riprese e sviluppò l'insegnamento del Concilio Vaticano I sul
rapporto tra fede e ragione, mostrando come il pensare filosofico sia un
contributo fondamentale per la fede e la scienza teologica.(78) A più di un
secolo di distanza, molte indicazioni contenute in quel testo non hanno perduto
nulla del loro interesse dal punto di vista sia pratico che pedagogico; primo
fra tutti, quello relativo all'incomparabile valore della filosofia di san
Tommaso. La riproposizione del pensiero del Dottore Angelico appariva a Papa
Leone XIII come la strada migliore per ricuperare un uso della filosofia
conforme alle esigenze della fede. San Tommaso, egli scriveva, « nel momento
stesso in cui, come conviene, distingue perfettamente la fede dalla ragione, le
unisce ambedue con legami di amicizia reciproca: conserva ad ognuna i propri
diritti e ne salvaguarda la dignità ».(79)
58.
Si sa quante felici conseguenze abbia avuto quell'invito pontificio. Gli studi
sul pensiero di san Tommaso e di altri autori scolastici ricevettero nuovo
slancio. Fu dato vigoroso impulso agli studi storici, con la conseguente
riscoperta delle ricchezze del pensiero medievale, fino a quel momento
largamente sconosciute, e si costituirono nuove scuole tomistiche. Con
l'applicazione della metodologia storica, la conoscenza dell'opera di san
Tommaso fece grandi progressi e numerosi furono gli studiosi che con coraggio
introdussero la tradizione tomista nelle discussioni sui problemi filosofici e
teologici di quel momento. I teologi cattolici più influenti di questo secolo,
alla cui riflessione e ricerca molto deve il Concilio Vaticano II, sono figli di
tale rinnovamento della filosofia tomista. La Chiesa ha potuto così disporre,
nel corso del XX secolo, di una vigorosa schiera di pensatori formati alla
scuola dell'Angelico Dottore.
59.
Il rinnovamento tomista e neotomista, comunque, non è stato l'unico segno di
ripresa del pensiero filosofico nella cultura di ispirazione cristiana. Già
prima, e in parallelo con l'invito leoniano, erano emersi non pochi filosofi
cattolici che, ricollegandosi a correnti di pensiero più recenti, secondo una
propria metodologia, avevano prodotto opere filosofiche di grande influsso e di
valore durevole. Ci fu chi organizzò sintesi di così alto profilo che nulla
hanno da invidiare ai grandi sistemi dell'idealismo; chi, inoltre, pose le basi
epistemologiche per una nuova trattazione della fede alla luce di una rinnovata
comprensione della coscienza morale; chi, ancora, produsse una filosofia che,
partendo dall'analisi dell'immanenza, apriva il cammino verso il trascendente; e
chi, infine, tentò di coniugare le esigenze della fede nell'orizzonte della
metodologia fenomenologica. Da diverse prospettive, insomma, si è continuato a
produrre forme di speculazione filosofica che hanno inteso mantenere viva la
grande tradizione del pensiero cristiano nell'unità di fede e ragione.
60.
Il Concilio Ecumenico Vaticano II, per parte sua, presenta un insegnamento molto
ricco e fecondo nei confronti della filosofia. Non posso dimenticare,
soprattutto nel contesto di questa Lettera enciclica, che un intero capitolo
della Costituzione Gaudium et spes costituisce
quasi un compendio di antropologia biblica, fonte di ispirazione anche per la
filosofia. In quelle pagine si tratta del valore della persona umana creata a
immagine di Dio, si motiva la sua dignità e superiorità sul resto del creato e
si mostra la capacità trascendente della sua ragione.(80) Anche il problema
dell'ateismo viene considerato nella Gaudium
et spes e ben si motivano gli errori di quella visione filosofica,
soprattutto nei confronti dell'inalienabile dignità della persona e della sua
libertà.(81) Certamente possiede anche un profondo significato filosofico
l'espressione culminante di quelle pagine, che ho ripreso nella mia prima
Lettera enciclica Redemptor hominis e
che costituisce uno dei punti di riferimento costante del mio insegnamento: «
In realtà solamente nel mistero del Verbo incarnato trova vera luce il mistero
dell'uomo. Adamo, infatti, il primo uomo, era figura di quello futuro e cioè di
Cristo Signore. Cristo, che è il nuovo Adamo, proprio rivelando il mistero del
Padre e del suo amore svela anche pienamente l'uomo all'uomo e gli fa nota la
sua altissima vocazione ».(82)
Il
Concilio si è occupato anche dello studio della filosofia, a cui devono
dedicarsi i candidati al sacerdozio; sono raccomandazioni estensibili più in
generale all'insegnamento cristiano nel suo insieme. Afferma il Concilio: « Le
discipline filosofiche si insegnino in maniera che gli alunni siano anzitutto
guidati all'acquisto di una solida e armonica conoscenza dell'uomo, del mondo e
di Dio, basandosi sul patrimonio filosofico perennemente valido, tenuto conto
anche delle correnti filosofiche moderne ».(83)
Queste
direttive sono state a più riprese ribadite e specificate in altri documenti
magisteriali con lo scopo di garantire una solida formazione filosofica,
soprattutto per coloro che si preparano agli studi teologici. Da parte mia, più
volte ho sottolineato l'importanza di questa formazione filosofica per quanti
dovranno un giorno, nella vita pastorale, confrontarsi con le istanze del mondo
contemporaneo e cogliere le cause di alcuni comportamenti per darvi pronta
risposta.(84)
61.
Se in diverse circostanze è stato necessario intervenire su questo tema,
ribadendo anche il valore delle intuizioni del Dottore Angelico e insistendo per
l'acquisizione del suo pensiero, ciò è dipeso dal fatto che le direttive del
Magistero non sono state sempre osservate con la desiderabile disponibilità. In
molte scuole cattoliche, negli anni che seguirono il Concilio Vaticano II, si è
potuto osservare, in materia, un certo decadimento dovuto ad una minore stima,
non solo della filosofia scolastica, ma più in generale dello stesso studio
della filosofia. Con meraviglia e dispiacere devo costatare che non pochi
teologi condividono questo disinteresse per lo studio della filosofia.
Diverse
sono le ragioni che stanno alla base di questa disaffezione. In primo luogo, è
da registrare la sfiducia nella ragione che gran parte della filosofia
contemporanea manifesta, abbandonando largamente la ricerca metafisica sulle
domande ultime dell'uomo, per concentrare la propria attenzione su problemi
particolari e regionali, talvolta anche puramente formali. Si deve aggiungere,
inoltre, il fraintendimento che si è creato soprattutto in rapporto alle «
scienze umane ». Il Concilio Vaticano II ha più volte ribadito il valore
positivo della ricerca scientifica in ordine a una conoscenza più profonda del
mistero dell'uomo.(85) L'invito fatto ai teologi perché conoscano queste
scienze e, all'occorrenza, le applichino correttamente nella loro indagine non
deve, tuttavia, essere interpretato come un'implicita autorizzazione ad
emarginare la filosofia o a sostituirla nella formazione pastorale e nella praeparatio
fidei. Non si può dimenticare, infine, il ritrovato interesse per l'inculturazione
della fede. In modo particolare la vita delle giovani Chiese ha permesso di
scoprire, accanto ad elevate forme di pensiero, la presenza di molteplici
espressioni di saggezza popolare. Ciò costituisce un reale patrimonio di
cultura e di tradizioni. Lo studio, tuttavia, delle usanze tradizionali deve
andare di pari passo con la ricerca filosofica. Sarà questa a permettere di far
emergere i tratti positivi della saggezza popolare, creando il necessario
collegamento con l'annuncio del Vangelo.(86)
62.
Desidero ribadire con vigore che lo studio della filosofia riveste un carattere
fondamentale e ineliminabile nella struttura degli studi teologici e nella
formazione dei candidati al sacerdozio. Non è un caso che il curriculum
di studi teologici sia preceduto da un periodo di tempo nel quale è
previsto uno speciale impegno nello studio della filosofia. Questa scelta,
confermata dal Concilio Lateranense V,(87) affonda le sue radici nell'esperienza
maturata durante il Medio Evo, quando è stata posta in evidenza l'importanza di
una costruttiva armonia tra il sapere filosofico e quello teologico. Questo
ordinamento degli studi ha influenzato, facilitato e promosso, anche se in
maniera indiretta, una buona parte dello sviluppo della filosofia moderna. Un
esempio significativo è dato dall'influsso esercitato dalle Disputationes
metaphysicae di Francesco Suárez, le quali trovavano spazio perfino nelle
università luterane tedesche. Il venire meno di questa metodologia, invece, fu
causa di gravi carenze sia nella formazione sacerdotale che nella ricerca
teologica. Si consideri, ad esempio, la disattenzione nei confronti del pensiero
e della cultura moderna, che ha portato alla chiusura ad ogni forma di dialogo o
alla indiscriminata accoglienza di ogni filosofia.
Confido
vivamente che queste difficoltà siano superate da un'intelligente formazione
filosofica e teologica, che non deve mai venire meno nella Chiesa.
63.
In forza delle ragioni espresse, mi è sembrato urgente ribadire, con questa
Lettera enciclica, il forte interesse che la Chiesa dedica alla filosofia; anzi,
il legame intimo che unisce il lavoro teologico alla ricerca filosofica della
verità. Di qui deriva il dovere che il Magistero ha di discernere e stimolare
un pensiero filosofico che non sia in dissonanza con la fede. Mio compito è di
proporre alcuni principi e punti di riferimento che ritengo necessari per poter
instaurare una relazione armoniosa ed efficace tra la teologia e la filosofia.
Alla loro luce sarà possibile discernere con maggior chiarezza se e quale
rapporto la teologia debba intraprendere con i diversi sistemi o asserti
filosofici, che il mondo attuale presenta.
|
CAPITOLO
VI
INTERAZIONE
TRA TEOLOGIA E FILOSOFIA
La
scienza della fede e le esigenze della ragione filosofica
64.
La parola di Dio si indirizza a ogni uomo, in ogni tempo e in ogni parte della
terra; e l'uomo è naturalmente filosofo. La teologia, da parte sua, in quanto
elaborazione riflessa e scientifica dell'intelligenza di questa parola alla luce
della fede, sia per alcuni suoi procedimenti come anche per adempiere a
specifici compiti, non può fare a meno di entrare in rapporto con le filosofie
di fatto elaborate nel corso della storia. Senza voler indicare ai teologi
particolari metodologie, cosa che non compete al Magistero, desidero piuttosto
richiamare alla mente alcuni compiti propri della teologia, nei quali il ricorso
al pensiero filosofico si impone in forza della natura stessa della Parola
rivelata.
65.
La teologia si organizza come scienza della fede alla luce di un duplice
principio metodologico: l'auditus fidei e l'intellectus fidei. Con il primo, essa entra in possesso dei
contenuti della Rivelazione così come sono stati esplicitati progressivamente
nella Sacra Tradizione, nella Sacra Scrittura e nel Magistero vivo della Chiesa.(88)
Con il secondo, la teologia vuole rispondere alle esigenze proprie del pensiero
mediante la riflessione speculativa.
Per
quanto concerne la preparazione ad un corretto auditus
fidei, la filosofia reca alla teologia il suo peculiare contributo nel
momento in cui considera la struttura della conoscenza e della comunicazione
personale e, in particolare, le varie forme e funzioni del linguaggio.
Ugualmente importante è l'apporto della filosofia per una più coerente
comprensione della Tradizione ecclesiale, dei pronunciamenti del Magistero e
delle sentenze dei grandi maestri della teologia: questi infatti si esprimono
spesso in concetti e forme di pensiero mutuati da una determinata tradizione
filosofica. In questo caso, è richiesto al teologo non solo di esporre concetti
e termini con i quali la Chiesa riflette ed elabora il suo insegnamento, ma
anche di conoscere a fondo i sistemi filosofici che hanno eventualmente influito
sia sulle nozioni che sulla terminologia, per giungere a interpretazioni
corrette e coerenti.
66.
Per quanto riguarda l'intellectus fidei, si
deve considerare, anzitutto, che la Verità divina, « a noi proposta nelle
Sacre Scritture, interpretate rettamente dalla dottrina della Chiesa »,(89)
gode di una propria intelligibilità così logicamente coerente da proporsi come
un autentico sapere. L'intellectus fidei esplicita
questa verità, non solo cogliendo le strutture logiche e concettuali delle
proposizioni nelle quali si articola l'insegnamento della Chiesa, ma anche, e
primariamente, nel far emergere il significato di salvezza che tali proposizioni
contengono per il singolo e per l'umanità. E dall'insieme di queste
proposizioni che il credente arriva a conoscere la storia della salvezza, la
quale culmina nella persona di Gesù Cristo e nel suo mistero pasquale. A questo
mistero egli partecipa con il suo assenso di fede.
La
teologia dogmatica, per parte sua,
deve essere in grado di articolare il senso universale del mistero del Dio Uno e
Trino e dell'economia della salvezza sia in maniera narrativa sia, soprattutto,
in forma argomentativa. Lo deve fare, cioè, mediante espressioni concettuali,
formulate in modo critico e universalmente comunicabile. Senza l'apporto della
filosofia, infatti, non si potrebbero illustrare contenuti teologici quali, ad
esempio, il linguaggio su Dio, le relazioni personali all'interno della Trinità,
l'azione creatrice di Dio nel mondo, il rapporto tra Dio e l'uomo, l'identità
di Cristo che è vero Dio e vero uomo. Le stesse considerazioni valgono per
diversi temi della teologia morale, dove è immediato il ricorso a concetti
quali: legge morale, coscienza, libertà, responsabilità personale, colpa ecc.,
che ricevono una loro definizione a livello di etica filosofica.
E
necessario, dunque, che la ragione del credente abbia una conoscenza naturale,
vera e coerente delle cose create, del mondo e dell'uomo, che sono anche oggetto
della rivelazione divina; ancora di più, essa deve essere in grado di
articolare tale conoscenza in modo concettuale e argomentativo. La teologia
dogmatica speculativa, pertanto, presuppone ed implica una filosofia dell'uomo,
del mondo e, più radicalmente, dell'essere, fondata sulla verità oggettiva.
67.
La teologia fondamentale, per il suo
carattere proprio di disciplina che ha il compito di rendere ragione della fede
(cfr 1 Pt 3, 15), dovrà farsi carico
di giustificare ed esplicitare la relazione tra la fede e la riflessione
filosofica. Già il Concilio Vaticano I, recuperando l'insegnamento paolino (cfr
Rm 1, 19-20), aveva richiamato
l'attenzione sul fatto che esistono verità conoscibili naturalmente, e quindi
filosoficamente. La loro conoscenza costituisce un presupposto necessario per
accogliere la rivelazione di Dio. Nello studiare la Rivelazione e la sua
credibilità insieme con il corrispondente atto di fede, la teologia
fondamentale dovrà mostrare come, alla luce della conoscenza per fede, emergano
alcune verità che la ragione già coglie nel suo autonomo cammino di ricerca. A
queste la Rivelazione conferisce pienezza di senso, orientandole verso la
ricchezza del mistero rivelato, nel quale trovano il loro ultimo fine. Si pensi,
ad esempio, alla conoscenza naturale di Dio, alla possibilità di discernere la
rivelazione divina da altri fenomeni o al riconoscimento della sua credibilità,
all'attitudine del linguaggio umano a parlare in modo significativo e vero anche
di ciò che eccede ogni esperienza umana. Da tutte queste verità, la mente è
condotta a riconoscere l'esistenza di una via realmente propedeutica alla fede,
che può sfociare nell'accoglienza della rivelazione, senza in nulla venire meno
ai propri principi e alla propria autonomia.(90)
Alla
stessa stregua, la teologia fondamentale dovrà mostrare l'intima compatibilità
tra la fede e la sua esigenza essenziale di esplicitarsi mediante una ragione in
grado di dare in piena libertà il proprio assenso. La fede saprà così «
mostrare in pienezza il cammino ad una ragione in ricerca sincera della verità.
In tal modo la fede, dono di Dio, pur non fondandosi sulla ragione, non può
certamente fare a meno di essa; al tempo stesso, appare la necessità per la
ragione di farsi forte della fede, per scoprire gli orizzonti ai quali da sola
non potrebbe giungere ».(91)
68.
La teologia morale ha forse un bisogno ancor maggiore dell'apporto filosofico.
Nella Nuova Alleanza, infatti, la vita umana è molto meno regolamentata da
prescrizioni che nell'Antica. La vita nello Spirito conduce i credenti ad una
libertà e responsabilità che vanno oltre la Legge stessa. Il Vangelo e gli
scritti apostolici, comunque, propongono sia principi generali di condotta
cristiana sia insegnamenti e precetti puntuali. Per applicarli alle circostanze
particolari della vita individuale e sociale, il cristiano deve essere in grado
di impegnare a fondo la sua coscienza e la forza del suo ragionamento. In altre
parole, ciò significa che la teologia morale deve ricorrere ad una visione
filosofica corretta sia della natura umana e della società che dei principi
generali di una decisione etica.
69.
Si può forse obiettare che nella situazione attuale il teologo, piuttosto che
alla filosofia, dovrebbe ricorrere all'aiuto di altre forme del sapere umano,
quali la storia e soprattutto le scienze, di cui tutti ammirano i recenti
straordinari sviluppi. Altri poi, a seguito di una cresciuta sensibilità nei
confronti della relazione tra fede e culture, sostengono che la teologia
dovrebbe rivolgersi, di preferenza, alle saggezze tradizionali, piuttosto che a
una filosofia di origine greca ed eurocentrica. Altri ancora, a partire da una
concezione errata del pluralismo delle culture, negano semplicemente il valore
universale del patrimonio filosofico accolto dalla Chiesa.
Queste
sottolineature, tra l'altro già presenti nell'insegnamento conciliare,(92)
contengono una parte di verità. Il riferimento alle scienze, utile in molti
casi perché permette una conoscenza più completa dell'oggetto di studio, non
deve tuttavia far dimenticare la necessaria mediazione di una riflessione
tipicamente filosofica, critica e tesa all'universale, richiesta peraltro da uno
scambio fecondo tra le culture. Ciò che mi preme sottolineare è il dovere di
non fermarsi al solo caso singolo e concreto, tralasciando il compito primario
che è quello di manifestare il carattere universale del contenuto di fede. Non
si deve, inoltre, dimenticare che l'apporto peculiare del pensiero filosofico
permette di discernere, sia nelle diverse concezioni di vita che nelle culture,
« non che cosa gli uomini pensino, ma quale sia la verità oggettiva ».(93)
Non le varie opinioni umane, ma solamente la verità può essere di aiuto alla
teologia.
70.
Il tema, poi, del rapporto con le culture merita una riflessione specifica,
anche se necessariamente non esaustiva, per le implicanze che ne derivano sia
sul versante filosofico che su quello teologico. Il processo di incontro e
confronto con le culture è un'esperienza che la Chiesa ha vissuto fin dagli
inizi della predicazione del Vangelo. Il comando di Cristo ai discepoli di
andare in ogni luogo, « fino agli estremi confini della terra » (At
1, 8), per trasmettere la verità da Lui rivelata, ha posto la comunità
cristiana nella condizione di verificare ben presto l'universalità
dell'annuncio e gli ostacoli derivanti dalla diversità delle culture. Un brano
della lettera di san Paolo ai cristiani di Efeso offre un valido aiuto per
comprendere come la comunità primitiva abbia affrontato questo problema. Scrive
l'Apostolo: « Ora invece, in Cristo Gesù, voi che un tempo eravate i lontani
siete diventati i vicini grazie al sangue di Cristo. Egli infatti è la nostra
pace, colui che ha fatto dei due un popolo solo, abbattendo il muro di
separazione che era frammezzo » (2, 13-14).
Alla
luce di questo testo la nostra riflessione s'allarga alla trasformazione che si
è venuta a creare nei Gentili una volta arrivati alla fede. Davanti alla
ricchezza della salvezza operata da Cristo, cadono le barriere che separano le
diverse culture. La promessa di Dio in Cristo diventa, adesso, un'offerta
universale: non più limitata alla particolarità di un popolo, della sua lingua
e dei suoi costumi, ma estesa a tutti come patrimonio a cui ciascuno può
attingere liberamente. Da diversi luoghi e tradizioni tutti sono chiamati in
Cristo a partecipare all'unità della famiglia dei figli di Dio. E Cristo che
permette ai due popoli di diventare « uno ». Coloro che erano « i lontani »
diventano « i vicini » grazie alla novità operata dal mistero pasquale. Gesù
abbatte i muri di divisione e realizza l'unificazione in modo originale e
supremo mediante la partecipazione al suo mistero. Questa unità è talmente
profonda che la Chiesa può dire con san Paolo: « Non siete più stranieri né
ospiti, ma siete concittadini dei santi e familiari di Dio » (Ef
2, 19).
In
una così semplice annotazione è descritta una grande verità: l'incontro della
fede con le diverse culture ha dato vita di fatto a una realtà nuova. Le
culture, quando sono profondamente radicate nell'umano, portano in sé la
testimonianza dell'apertura tipica dell'uomo all'universale e alla trascendenza.
Esse presentano, pertanto, approcci diversi alla verità, che si rivelano di
indubbia utilità per l'uomo, a cui prospettano valori capaci di rendere sempre
più umana la sua esistenza.(94) In quanto poi le culture si richiamano ai
valori delle tradizioni antiche, portano con sé — anche se in maniera
implicita, ma non per questo meno reale — il riferimento al manifestarsi di
Dio nella natura, come si è visto precedentemente parlando dei testi
sapienziali e dell'insegnamento di san Paolo.
71.
Essendo in stretto rapporto con gli uomini e con la loro storia, le culture
condividono le stesse dinamiche secondo cui il tempo umano si esprime. Si
registrano di conseguenza trasformazioni e progressi dovuti agli incontri che
gli uomini sviluppano e alle comunicazioni che reciprocamente si fanno dei loro
modelli di vita. Le culture traggono alimento dalla comunicazione di valori, e
la loro vitalità e sussistenza è data dalla capacità di rimanere aperte
all'accoglienza del nuovo. Qual è la spiegazione di queste dinamiche? Ogni uomo
è inserito in una cultura, da essa dipende, su di essa influisce. Egli è
insieme figlio e padre della cultura in cui è immerso. In ogni espressione
della sua vita, egli porta con sé qualcosa che lo contraddistingue in mezzo al
creato: la sua apertura costante al mistero ed il suo inesauribile desiderio di
conoscenza. Ogni cultura, di conseguenza, porta impressa in sé e lascia
trasparire la tensione verso un compimento. Si può dire, quindi, che la cultura
ha in sé la possibilità di accogliere la rivelazione divina.
Il
modo in cui i cristiani vivono la fede è anch'esso permeato dalla cultura
dell'ambiente circostante e contribuisce, a sua volta, a modellarne
progressivamente le caratteristiche. Ad ogni cultura i cristiani recano la verità
immutabile di Dio, da Lui rivelata nella storia e nella cultura di un popolo.
Nel corso dei secoli continua così a riprodursi l'evento di cui furono
testimoni i pellegrini presenti a Gerusalemme nel giorno di Pentecoste.
Ascoltando gli Apostoli, si domandavano: « Costoro che parlano non sono forse
tutti Galilei? E com'è che li sentiamo ciascuno parlare la nostra lingua
nativa? Siamo Parti, Medi, Elamiti e abitanti della Mesopotamia, della Giudea,
della Cappadocia, del Ponto e dell'Asia, della Frigia e della Panfilia,
dell'Egitto e delle parti della Libia vicino a Cirene, stranieri di Roma, Ebrei
e proseliti, Cretesi e Arabi e li udiamo annunziare nelle nostre lingue le
grandi opere di Dio » (At 2, 7-11).
L'annuncio del Vangelo nelle diverse culture, mentre esige dai singoli
destinatari l'adesione della fede, non impedisce loro di conservare una propria
identità culturale. Ciò non crea divisione alcuna, perché il popolo dei
battezzati si distingue per una universalità che sa accogliere ogni cultura,
favorendo il progresso di ciò che in essa vi è di implicito verso la sua piena
esplicazione nella verità.
Conseguenza
di ciò è che una cultura non può mai diventare criterio di giudizio ed ancor
meno criterio ultimo di verità nei confronti della rivelazione di Dio. Il
Vangelo non è contrario a questa od a quella cultura come se, incontrandosi con
essa, volesse privarla di ciò che le appartiene e la obbligasse ad assumere
forme estrinseche che non le sono conformi. Al contrario, l'annuncio che il
credente porta nel mondo e nelle culture è forma reale di liberazione da ogni
disordine introdotto dal peccato e, nello stesso tempo, è chiamata alla verità
piena. In questo incontro, le culture non solo non vengono private di nulla, ma
sono anzi stimolate ad aprirsi al nuovo della verità evangelica per trarne
incentivo verso ulteriori sviluppi.
72.
Il fatto che la missione evangelizzatrice abbia incontrato sulla sua strada per
prima la filosofia greca, non costituisce indicazione in alcun modo preclusiva
per altri approcci. Oggi, via via che il Vangelo entra in contatto con aree
culturali rimaste finora al di fuori dell'ambito di irradiazione del
cristianesimo, nuovi compiti si aprono all'inculturazione. Problemi analoghi a
quelli che la Chiesa dovette affrontare nei primi secoli si pongono alla nostra
generazione.
Il
mio pensiero va spontaneamente alle terre d'Oriente, così ricche di tradizioni
religiose e filosofiche molto antiche. Tra esse, l'India occupa un posto
particolare. Un grande slancio spirituale porta il pensiero indiano alla ricerca
di un'esperienza che, liberando lo spirito dai condizionamenti del tempo e dello
spazio, abbia valore di assoluto. Nel dinamismo di questa ricerca di liberazione
si situano grandi sistemi metafisici.
Spetta
ai cristiani di oggi, innanzitutto a quelli dell'India, il compito di estrarre
da questo ricco patrimonio gli elementi compatibili con la loro fede così che
ne derivi un arricchimento del pensiero cristiano. Per questa opera di
discernimento, che trova la sua ispirazione nella Dichiarazione conciliare Nostra
aetate, essi terranno conto di un certo numero di criteri. Il primo è
quello dell'universalità dello spirito umano, le cui esigenze fondamentali si
ritrovano identiche nelle culture più diverse. Il secondo, derivante dal primo,
consiste in questo: quando la Chiesa entra in contatto con grandi culture
precedentemente non ancora raggiunte, non può lasciarsi alle spalle ciò che ha
acquisito dall'inculturazione nel pensiero greco-latino. Rifiutare una simile
eredità sarebbe andare contro il disegno provvidenziale di Dio, che conduce la
sua Chiesa lungo le strade del tempo e della storia. Questo criterio, del resto,
vale per la Chiesa di ogni epoca, anche per quella di domani, che si sentirà
arricchita dalle acquisizioni realizzate nell'odierno approccio con le culture
orientali e troverà in questa eredità nuove indicazioni per entrare
fruttuosamente in dialogo con quelle culture che l'umanità saprà far fiorire
nel suo cammino incontro al futuro. In terzo luogo, ci si guarderà dal
confondere la legittima rivendicazione della specificità e dell'originalità
del pensiero indiano con l'idea che una tradizione culturale debba rinchiudersi
nella sua differenza ed affermarsi nella sua opposizione alle altre tradizioni,
ciò che sarebbe contrario alla natura stessa dello spirito umano.
Quanto
è qui detto per l'India vale anche per l'eredità delle grandi culture della
Cina, del Giappone e degli altri Paesi dell'Asia, come pure delle ricchezze
delle culture tradizionali dell'Africa, trasmesse soprattutto per via orale.
73.
Alla luce di queste considerazioni, il rapporto che deve opportunamente
instaurarsi tra la teologia e la filosofia sarà all'insegna della circolarità.
Per la teologia, punto di partenza e fonte originaria dovrà essere sempre la
parola di Dio rivelata nella storia, mentre obiettivo finale non potrà che
essere l'intelligenza di essa via via approfondita nel susseguirsi delle
generazioni. Poiché, d'altra parte, la parola di Dio è Verità (cfr Gv
17, 17), alla sua migliore comprensione non può non giovare la ricerca
umana della verità, ossia il filosofare, sviluppato nel rispetto delle leggi
che gli sono proprie. Non si tratta semplicemente di utilizzare, nel discorso
teologico, l'uno o l'altro concetto o frammento di un impianto filosofico;
decisivo è che la ragione del credente eserciti le sue capacità di riflessione
nella ricerca del vero all'interno di un movimento che, partendo dalla parola di
Dio, si sforza di raggiungere una migliore comprensione di essa. E chiaro,
peraltro, che, muovendosi entro questi due poli — parola di Dio e migliore sua
conoscenza —, la ragione è come avvertita, e in qualche modo guidata, ad
evitare sentieri che la porterebbero fuori della Verità rivelata e, in
definitiva, fuori della verità pura e semplice; essa viene anzi stimolata ad
esplorare vie che da sola non avrebbe nemmeno sospettato di poter percorrere. Da
questo rapporto di circolarità con la parola di Dio la filosofia esce
arricchita, perché la ragione scopre nuovi e insospettati orizzonti.
74.
La conferma della fecondità di un simile rapporto è offerta dalla vicenda
personale di grandi teologi cristiani che si segnalarono anche come grandi
filosofi, lasciando scritti di così alto valore speculativo, da giustificarne
l'affiancamento ai maestri della filosofia antica. Ciò vale sia per i Padri
della Chiesa, tra i quali bisogna citare almeno i nomi di san Gregorio
Nazianzeno e sant'Agostino, sia per i Dottori medievali, tra i quali emerge la
grande triade di sant'Anselmo, san Bonaventura e san Tommaso d'Aquino. Il
fecondo rapporto tra filosofia e parola di Dio si manifesta anche nella ricerca
coraggiosa condotta da pensatori più recenti, tra i quali mi piace menzionare,
per l'ambito occidentale, personalità come John Henry Newman, Antonio Rosmini,
Jacques Maritain, Étienne Gilson, Edith Stein e, per quello orientale, studiosi
della statura di Vladimir S. Solov'ev, Pavel A. Florenskij, Petr J. Caadaev,
Vladimir N. Lossky. Ovviamente, nel fare riferimento a questi autori, accanto ai
quali altri nomi potrebbero essere citati, non intendo avallare ogni aspetto del
loro pensiero, ma solo proporre esempi significativi di un cammino di ricerca
filosofica che ha tratto considerevoli vantaggi dal confronto con i dati della
fede. Una cosa è certa: l'attenzione all'itinerario spirituale di questi
maestri non potrà che giovare al progresso nella ricerca della verità e
nell'utilizzo a servizio dell'uomo dei risultati conseguiti. C'è da sperare che
questa grande tradizione filosofico-teologica trovi oggi e nel futuro i suoi
continuatori e i suoi cultori per il bene della Chiesa e dell'umanità.
Differenti
stati della filosofia
75.
Come risulta dalla storia dei rapporti tra fede e filosofia, sopra brevemente
accennata, si possono distinguere diversi stati della filosofia rispetto alla
fede cristiana. Un primo è quello della filosofia
totalmente indipendente dalla Rivelazione evangelica: è lo stato della
filosofia quale si è storicamente concretizzata nelle epoche che hanno
preceduto la nascita del Redentore e, dopo di essa, nelle regioni non ancora
raggiunte dal Vangelo. In questa situazione, la filosofia manifesta la legittima
aspirazione ad essere un'impresa autonoma,
che procede cioè secondo le leggi sue proprie, avvalendosi delle sole forze
della ragione. Pur nella consapevolezza dei gravi limiti dovuti alla congenita
debolezza dell'umana ragione, questa aspirazione va sostenuta e rafforzata.
L'impegno filosofico, infatti, quale ricerca della verità nell'ambito naturale,
rimane almeno implicitamente aperto al soprannaturale.
Di
più: anche quando è lo stesso discorso teologico ad avvalersi di concetti e
argomenti filosofici, l'esigenza di corretta autonomia del pensiero va
rispettata. L'argomentazione sviluppata secondo rigorosi criteri razionali,
infatti, è garanzia del raggiungimento di risultati universalmente validi. Si
verifica anche qui il principio secondo cui la grazia non distrugge, ma
perfeziona la natura: l'assenso di fede, che impegna l'intelletto e la volontà,
non distrugge ma perfeziona il libero arbitrio di ogni credente che accoglie in
sé il dato rivelato.
Da
questa corretta istanza si allontana in modo netto la teoria della cosiddetta
filosofia « separata », perseguita da parecchi filosofi moderni. Più che
l'affermazione della giusta autonomia del filosofare, essa costituisce la
rivendicazione di una autosufficienza del pensiero che si rivela chiaramente
illegittima: rifiutare gli apporti di verità derivanti dalla rivelazione divina
significa infatti precludersi l'accesso a una più profonda conoscenza della
verità, a danno della stessa filosofia.
76.
Un secondo stato della filosofia è quello che molti designano con l'espressione
filosofia cristiana. La denominazione
è di per sé legittima, ma non deve essere equivocata: non si intende con essa
alludere ad una filosofia ufficiale della Chiesa, giacché la fede non è come
tale una filosofia. Con questo appellativo si vuole piuttosto indicare un
filosofare cristiano, una speculazione filosofica concepita in unione vitale con
la fede. Non ci si riferisce quindi semplicemente ad una filosofia elaborata da
filosofi cristiani, i quali nella loro ricerca non hanno voluto contraddire la
fede. Parlando di filosofia cristiana si intendono abbracciare tutti quegli
importanti sviluppi del pensiero filosofico che non si sarebbero realizzati
senza l'apporto, diretto o indiretto, della fede cristiana.
Due
sono, pertanto, gli aspetti della filosofia cristiana: uno soggettivo, che
consiste nella purificazione della ragione da parte della fede. Come virtù
teologale, essa libera la ragione dalla presunzione, tipica tentazione a cui i
filosofi sono facilmente soggetti. Già san Paolo e i Padri della Chiesa e, più
vicino a noi, filosofi come Pascal e Kierkegaard l'hanno stigmatizzata. Con
l'umiltà, il filosofo acquista anche il coraggio di affrontare alcune questioni
che difficilmente potrebbe risolvere senza prendere in considerazione i dati
ricevuti dalla Rivelazione. Si pensi, ad esempio, ai problemi del male e della
sofferenza, all'identità personale di Dio e alla domanda sul senso della vita
o, più direttamente, alla domanda metafisica radicale: « Perché vi è
qualcosa? ».
Vi
è poi l'aspetto oggettivo, riguardante i contenuti: la Rivelazione propone
chiaramente alcune verità che, pur non essendo naturalmente inaccessibili alla
ragione, forse non sarebbero mai state da essa scoperte, se fosse stata
abbandonata a sé stessa. In questo orizzonte si situano questioni come il
concetto di un Dio personale, libero e creatore, che tanto rilievo ha avuto per
lo sviluppo del pensiero filosofico e, in particolare, per la filosofia
dell'essere. A quest'ambito appartiene pure la realtà del peccato, così
com'essa appare alla luce della fede, la quale aiuta a impostare filosoficamente
in modo adeguato il problema del male. Anche la concezione della persona come
essere spirituale è una peculiare originalità della fede: l'annuncio cristiano
della dignità, dell'uguaglianza e della libertà degli uomini ha certamente
influito sulla riflessione filosofica che i moderni hanno condotto. Più vicino
a noi, si può menzionare la scoperta dell'importanza che ha anche per la
filosofia l'evento storico, centro della Rivelazione cristiana. Non a caso, esso
è diventato perno di una filosofia della storia, che si presenta come un nuovo
capitolo della ricerca umana della verità.
Tra
gli elementi oggettivi della filosofia cristiana rientra anche la necessità di
esplorare la razionalità di alcune verità espresse dalla Sacra Scrittura, come
la possibilità di una vocazione soprannaturale dell'uomo ed anche lo stesso
peccato originale. Sono compiti che provocano la ragione a riconoscere che vi è
del vero e del razionale ben oltre gli stretti confini entro i quali essa
sarebbe portata a rinchiudersi. Queste tematiche allargano di fatto l'ambito del
razionale.
Speculando
su questi contenuti, i filosofi non sono diventati teologi, in quanto non hanno
cercato di comprendere e di illustrare le verità della fede a partire dalla
Rivelazione. Hanno continuato a lavorare sul loro proprio terreno e con la
propria metodologia puramente razionale, ma allargando la loro indagine a nuovi
ambiti del vero. Si può dire che, senza questo influsso stimolante della parola
di Dio, buona parte della filosofia moderna e contemporanea non esisterebbe. Il
dato conserva tutta la sua rilevanza, pur di fronte alla deludente costatazione
dell'abbandono dell'ortodossia cristiana da parte di non pochi pensatori di
questi ultimi secoli.
77.
Un altro stato significativo della filosofia si ha quando è la
stessa teologia a chiamare in causa la filosofia. In realtà, la teologia ha
sempre avuto e continua ad avere bisogno dell'apporto filosofico. Essendo opera
della ragione critica alla luce della fede, il lavoro teologico presuppone ed
esige in tutto il suo indagare una ragione concettualmente e argomentativamente
educata e formata. La teologia, inoltre, ha bisogno della filosofia come
interlocutrice per verificare l'intelligibilità e la verità universale dei
suoi asserti. Non a caso furono filosofie non cristiane ad essere assunte dai
Padri della Chiesa e dai teologi medievali a tale funzione esplicativa. Questo
fatto storico indica il valore dell'autonomia
che la filosofia conserva anche in questo suo terzo stato, ma insieme mostra
le trasformazioni necessarie e profonde che essa deve subire.
E
proprio nel senso di un apporto indispensabile e nobile che la filosofia fu
chiamata fin dall'età patristica ancilla theologiae. Il titolo non fu applicato per indicare una
servile sottomissione o un ruolo puramente funzionale della filosofia nei
confronti della teologia. Fu utilizzato piuttosto nel senso in cui Aristotele
parlava delle scienze esperienziali quali « ancelle » della « filosofia prima
». L'espressione, oggi difficilmente utilizzabile in forza dei principi di
autonomia a cui si è fatto cenno, è servita nel corso della storia per
indicare la necessità del rapporto tra le due scienze e l'impossibilità di una
loro separazione.
Se
il teologo si rifiutasse di avvalersi della filosofia, rischierebbe di far
filosofia a sua insaputa e di rinchiudersi in strutture di pensiero poco adatte
all'intelligenza della fede. Il filosofo, da parte sua, se escludesse ogni
contatto con la teologia, si sentirebbe in dovere di impadronirsi per conto
proprio dei contenuti della fede cristiana, come è avvenuto con alcuni filosofi
moderni. In un caso come nell'altro, si profilerebbe il pericolo della
distruzione dei principi basilari di autonomia che ogni scienza giustamente
vuole garantiti.
Lo
stato della filosofia qui considerato, per le implicanze che comporta
nell'intelligenza della Rivelazione, si colloca insieme alla teologia più
direttamente sotto l'autorità del Magistero e del suo discernimento, come ho
precedentemente esposto. Dalle verità di fede, infatti, derivano determinate
esigenze che la filosofia deve rispettare nel momento in cui entra in rapporto
con la teologia.
78.
Alla luce di queste riflessioni, ben si comprende perché il Magistero abbia
ripetutamente lodato i meriti del pensiero di san Tommaso e lo abbia posto come
guida e modello degli studi teologici. Ciò che interessava non era prendere
posizione su questioni propriamente filosofiche, né imporre l'adesione a tesi
particolari. L'intento del Magistero era, e continua ad essere, quello di
mostrare come san Tommaso sia un autentico modello per quanti ricercano la verità.
Nella sua riflessione, infatti, l'esigenza della ragione e la forza della fede
hanno trovato la sintesi più alta che il pensiero abbia mai raggiunto, in
quanto egli ha saputo difendere la radicale novità portata dalla Rivelazione
senza mai umiliare il cammino proprio della ragione.
79.
Esplicitando ulteriormente i contenuti del Magistero precedente, intendo in
questa ultima parte indicare alcune esigenze che la teologia — anzi, prima
ancora la parola di Dio — pone oggi al pensiero filosofico e alle filosofie
odierne. Come già ho rilevato, il filosofo deve procedere secondo le proprie
regole e fondarsi sui propri principi; la verità, tuttavia, non può essere che
una sola. La Rivelazione, con i suoi contenuti, non potrà mai umiliare la
ragione nelle sue scoperte e nella sua legittima autonomia; per parte sua, però,
la ragione non dovrà mai perdere la sua capacità d'interrogarsi e di
interrogare, nella consapevolezza di non potersi ergere a valore assoluto ed
esclusivo. La verità rivelata, offrendo pienezza di luce sull'essere a partire
dallo splendore che proviene dallo stesso Essere sussistente, illuminerà il
cammino della riflessione filosofica. La Rivelazione cristiana, insomma, diventa
il vero punto di aggancio e di confronto tra il pensare filosofico e quello
teologico nel loro reciproco rapportarsi. E auspicabile, quindi, che teologi e
filosofi si lascino guidare dall'unica autorità della verità così che venga
elaborata una filosofia in consonanza con la parola di Dio. Questa filosofia sarà
il terreno d'incontro tra le culture e la fede cristiana, il luogo d'intesa tra
credenti e non credenti. Sarà di aiuto perché i credenti si convincano più da
vicino che la profondità e genuinità della fede è favorita quando è unita al
pensiero e ad esso non rinuncia. Ancora una volta, è la lezione dei Padri che
ci guida in questa convinzione: « Lo stesso credere null'altro è che pensare
assentendo [...]. Chiunque crede pensa, e credendo pensa e pensando crede [...].
La fede se non è pensata è nulla ».(95) Ed ancora: « Se si toglie l'assenso,
si toglie la fede, perché senza assenso non si crede affatto ».(96)
|
CAPITOLO
VII
ESIGENZE
E COMPITI ATTUALI
Le
esigenze irrinunciabili della parola di Dio
80.
La Sacra Scrittura contiene, in maniera sia esplicita che implicita, una serie
di elementi che consentono di raggiungere una visione dell'uomo e del mondo di
notevole spessore filosofico. I cristiani hanno preso progressivamente coscienza
della ricchezza racchiusa in quelle pagine sacre. Da esse risulta che la realtà
di cui facciamo esperienza non è l'assoluto: non è increata, né si è
autogenerata. Dio soltanto è l'Assoluto. Dalle pagine della Bibbia emerge
inoltre una visione dell'uomo come imago Dei, che contiene precise indicazioni circa il suo essere, la
sua libertà e l'immortalità del suo spirito. Non essendo il mondo creato
autosufficiente, ogni illusione di autonomia, che ignori la essenziale
dipendenza da Dio di ogni creatura — uomo compreso — porta a drammi che
distruggono la ricerca razionale dell'armonia e del senso dell'esistenza umana.
Anche
il problema del male morale — la forma di male più tragica — è affrontato
nella Bibbia, la quale ci dice che esso non è riconducibile ad una qualche
deficienza dovuta alla materia, ma è una ferita che proviene dall'esprimersi
disordinato della libertà umana. La parola di Dio, infine, prospetta il
problema del senso dell'esistenza e rivela la sua risposta indirizzando l'uomo a
Gesù Cristo, il Verbo di Dio incarnato, che realizza in pienezza l'esistenza
umana. Altri aspetti si potrebbero esplicitare dalla lettura del testo sacro; ciò
che emerge, comunque, è il rifiuto di ogni forma di relativismo, di
materialismo, di panteismo.
La
convinzione fondamentale di questa « filosofia » racchiusa nella Bibbia è che
la vita umana e il mondo hanno un senso e sono diretti verso il loro compimento,
che si attua in Gesù Cristo. Il mistero dell'Incarnazione resterà sempre il
centro a cui riferirsi per poter comprendere l'enigma dell'esistenza umana, del
mondo creato e di Dio stesso. In questo mistero le sfide per la filosofia si
fanno estreme, perché la ragione è chiamata a far sua una logica che abbatte
le barriere in cui essa stessa rischia di rinchiudersi. Solo qui, però, il
senso dell'esistenza raggiunge il suo culmine. Si rende intelligibile, infatti,
l'intima essenza di Dio e dell'uomo: nel mistero del Verbo incarnato, natura
divina e natura umana, con la rispettiva autonomia, vengono salvaguardate e
insieme si manifesta il vincolo unico che le pone in reciproco rapporto senza
confusione
81.
E da osservare che uno dei dati più rilevanti della nostra condizione attuale
consiste nella « crisi del senso ». I punti di vista, spesso di carattere
scientifico, sulla vita e sul mondo si sono talmente moltiplicati che, di fatto,
assistiamo all'affermarsi del fenomeno della frammentarietà del sapere. Proprio
questo rende difficile e spesso vana la ricerca di un senso. Anzi — cosa anche
più drammatica — in questo groviglio di dati e di fatti tra cui si vive e che
sembrano costituire la trama stessa dell'esistenza, non pochi si chiedono se
abbia ancora senso porsi una domanda sul senso. La pluralità delle teorie che
si contendono la risposta, o i diversi modi di vedere e di interpretare il mondo
e la vita dell'uomo, non fanno che acuire questo dubbio radicale, che facilmente
sfocia in uno stato di scetticismo e di indifferenza o nelle diverse espressioni
del nichilismo.
La
conseguenza di ciò è che spesso lo spirito umano è occupato da una forma di
pensiero ambiguo, che lo porta a rinchiudersi ancora di più in se stesso, entro
i limiti della propria immanenza, senza alcun riferimento al trascendente. Una
filosofia priva della domanda sul senso dell'esistenza incorrerebbe nel grave
pericolo di degradare la ragione a funzioni soltanto strumentali, senza alcuna
autentica passione per la ricerca della verità.
Per
essere in consonanza con la parola di Dio è necessario, anzitutto, che la
filosofia ritrovi la sua dimensione
sapienziale di ricerca del senso ultimo e globale della vita. Questa prima
esigenza, a ben guardare, costituisce per la filosofia uno stimolo utilissimo ad
adeguarsi alla sua stessa natura. Ciò facendo, infatti, essa non sarà soltanto
l'istanza critica decisiva, che indica alle varie parti del sapere scientifico
la loro fondatezza e il loro limite, ma si porrà anche come istanza ultima di
unificazione del sapere e dell'agire umano, inducendoli a convergere verso uno
scopo ed un senso definitivi. Questa dimensione sapienziale è oggi tanto più
indispensabile in quanto l'immensa crescita del potere tecnico dell'umanità
richiede una rinnovata e acuta coscienza dei valori ultimi. Se questi mezzi
tecnici dovessero mancare dell'ordinamento ad un fine non meramente
utilitaristico, potrebbero presto rivelarsi disumani, ed anzi trasformarsi in
potenziali distruttori del genere umano.(98)
La
parola di Dio rivela il fine ultimo dell'uomo e dà un senso globale al suo
agire nel mondo. E per questo che essa invita la filosofia ad impegnarsi nella
ricerca del fondamento naturale di questo senso, che è la religiosità
costitutiva di ogni persona. Una filosofia che volesse negare la possibilità di
un senso ultimo e globale sarebbe non soltanto inadeguata, ma erronea.
82.
Questo ruolo sapienziale non potrebbe, peraltro, essere svolto da una filosofia
che non fosse essa stessa un sapere autentico e vero, cioè rivolto non soltanto
ad aspetti particolari e relativi — siano essi funzionali, formali o utili —
del reale, ma alla sua verità totale e definitiva, ossia all'essere stesso
dell'oggetto di conoscenza. Ecco, dunque, una seconda esigenza: appurare la
capacità dell'uomo di giungere alla conoscenza della verità; una conoscenza, peraltro, che attinga la
verità oggettiva, mediante quella adaequatio
rei et intellectus a cui si riferiscono i Dottori della Scolastica.(99)
Questa esigenza, propria della fede, è stata esplicitamente riaffermata dal
Concilio Vaticano II: « L'intelligenza, infatti, non si restringe all'ambito
dei fenomeni soltanto, ma può conquistare la realtà intelligibile con vera
certezza, anche se, per conseguenza del peccato, si trova in parte oscurata e
debilitata ». (100)
Una
filosofia radicalmente fenomenista o relativista risulterebbe inadeguata a
recare questo aiuto nell'approfondimento della ricchezza contenuta nella parola
di Dio. La Sacra Scrittura, infatti, presuppone sempre che l'uomo, anche se
colpevole di doppiezza e di menzogna, sia capace di conoscere e di afferrare la
verità limpida e semplice. Nei Libri Sacri, e in particolare nel Nuovo
Testamento, si trovano testi e affermazioni di portata propriamente ontologica.
Gli autori ispirati, infatti, hanno inteso formulare affermazioni vere, tali cioè
da esprimere la realtà oggettiva. Non si può dire che la tradizione cattolica
abbia commesso un errore quando ha compreso alcuni testi di san Giovanni e di
san Paolo come affermazioni sull'essere stesso di Cristo. La teologia, quando si
applica a comprendere e spiegare queste affermazioni, ha bisogno pertanto
dell'apporto di una filosofia che non rinneghi la possibilità di una conoscenza
oggettivamente vera, per quanto sempre perfezionabile. Quanto detto vale anche
per i giudizi della coscienza morale, che la Sacra Scrittura suppone poter
essere oggettivamente veri. (101)
83.
Le due suddette esigenze ne comportano una terza: è necessaria una filosofia di
portata autenticamente metafisica,
capace cioè di trascendere i dati empirici per giungere, nella sua ricerca
della verità, a qualcosa di assoluto, di ultimo, di fondante. E un'esigenza,
questa, implicita sia nella conoscenza a carattere sapienziale che in quella a
carattere analitico; in particolare, è un'esigenza propria della conoscenza del
bene morale, il cui fondamento ultimo è il Bene sommo, Dio stesso. Non intendo
qui parlare della metafisica come di una scuola specifica o di una particolare
corrente storica. Desidero solo affermare che la realtà e la verità
trascendono il fattuale e l'empirico, e voglio rivendicare la capacità che
l'uomo possiede di conoscere questa dimensione trascendente e metafisica in modo
vero e certo, benché imperfetto ed analogico. In questo senso, la metafisica
non va vista in alternativa all'antropologia, giacché è proprio la metafisica
che consente di dare fondamento al concetto di dignità della persona in forza
della sua condizione spirituale. La persona, in particolare, costituisce un
ambito privilegiato per l'incontro con l'essere e, dunque, con la riflessione
metafisica.
Ovunque
l'uomo scopre la presenza di un richiamo all'assoluto e al trascendente, lì gli
si apre uno spiraglio verso la dimensione metafisica del reale: nella verità,
nella bellezza, nei valori morali, nella persona altrui, nell'essere stesso, in
Dio. Una grande sfida che ci aspetta al termine di questo millennio è quella di
saper compiere il passaggio, tanto necessario quanto urgente, dal fenomeno
al fondamento. Non è possibile
fermarsi alla sola esperienza; anche quando questa esprime e rende manifesta
l'interiorità dell'uomo e la sua spiritualità, è necessario che la
riflessione speculativa raggiunga la sostanza spirituale e il fondamento che la
sorregge. Un pensiero filosofico che rifiutasse ogni apertura metafisica,
pertanto, sarebbe radicalmente inadeguato a svolgere una funzione mediatrice
nella comprensione della Rivelazione.
La
parola di Dio fa continui riferimenti a ciò che oltrepassa l'esperienza e
persino il pensiero dell'uomo; ma questo « mistero » non potrebbe essere
rivelato, né la teologia potrebbe renderlo in qualche modo intelligibile, (102)
se la conoscenza umana fosse rigorosamente limitata al mondo dell'esperienza
sensibile. La metafisica, pertanto, si pone come mediazione privilegiata nella
ricerca teologica. Una teologia priva dell'orizzonte metafisico non riuscirebbe
ad approdare oltre l'analisi dell'esperienza religiosa e non permetterebbe all'intellectus fidei di esprimere con coerenza il valore universale e
trascendente della verità rivelata.
Se
tanto insisto sulla componente metafisica, è perché sono convinto che questa
è la strada obbligata per superare la situazione di crisi che pervade oggi
grandi settori della filosofia e per correggere così alcuni comportamenti
erronei diffusi nella nostra società.
84.
L'importanza dell'istanza metafisica diventa ancora più evidente se si
considera lo sviluppo che oggi hanno le scienze ermeneutiche e le diverse
analisi del linguaggio. I risultati a cui questi studi giungono possono essere
molto utili per l'intelligenza della fede, in quanto rendono manifesti la
struttura del nostro pensare e parlare e il senso racchiuso nel linguaggio. Vi
sono cultori di tali scienze, però, che nelle loro indagini tendono ad
arrestarsi al come si comprende e come si dice la realtà, prescindendo dal
verificare le possibilità della ragione di scoprirne l'essenza. Come non vedere
in tale atteggiamento una conferma della crisi di fiducia, che il nostro tempo
sta attraversando, circa le capacità della ragione? Quando poi, in forza di
assunti aprioristici, queste tesi tendono ad offuscare i contenuti della fede o
a negarne la validità universale, allora non solo umiliano la ragione, ma si
pongono da se stesse fuori gioco. La fede, infatti, presuppone con chiarezza che
il linguaggio umano sia capace di esprimere in modo universale — anche se in
termini analogici, ma non per questo meno significativi — la realtà divina e
trascendente. (103) Se non fosse così, la parola di Dio, che è sempre parola
divina in linguaggio umano, non sarebbe capace di esprimere nulla su Dio.
L'interpretazione di questa Parola non può rimandarci soltanto da
interpretazione a interpretazione, senza mai portarci ad attingere
un'affermazione semplicemente vera; altrimenti non vi sarebbe rivelazione di
Dio, ma soltanto l'espressione di concezioni umane su di Lui e su ciò che
presumibilmente Egli pensa di noi.
85.
So bene che queste esigenze, poste alla filosofia dalla parola di Dio, possono
sembrare ardue a molti che vivono l'odierna situazione della ricerca filosofica.
Proprio per questo, facendo mio ciò che i Sommi Pontefici da qualche
generazione non cessano di insegnare e che lo stesso Concilio Vaticano II ha
ribadito, voglio esprimere con forza la convinzione che l'uomo è capace di
giungere a una visione unitaria e organica del sapere. Questo è uno dei compiti
di cui il pensiero cristiano dovrà farsi carico nel corso del prossimo
millennio dell'era cristiana. La settorialità del sapere, in quanto comporta un
approccio parziale alla verità con la conseguente frammentazione del senso,
impedisce l'unità interiore dell'uomo contemporaneo. Come potrebbe la Chiesa
non preoccuparsene? Questo compito sapienziale deriva ai suoi Pastori
direttamente dal Vangelo ed essi non possono sottrarsi al dovere di perseguirlo.
Ritengo
che quanti oggi intendono rispondere come filosofi alle esigenze che la parola
di Dio pone al pensiero umano dovrebbero elaborare il loro discorso sulla base
di questi postulati e in coerente continuità con quella grande tradizione che,
iniziando con gli antichi, passa per i Padri della Chiesa e i maestri della
scolastica, per giungere fino a comprendere le acquisizioni fondamentali del
pensiero moderno e contemporaneo. Se saprà attingere a questa tradizione ed
ispirarsi ad essa, il filosofo non mancherà di mostrarsi fedele all'esigenza di
autonomia del pensare filosofico.
In
questo senso, è quanto mai significativo che, nel contesto attuale, alcuni
filosofi si facciano promotori della riscoperta del ruolo determinante della
tradizione per una corretta forma di conoscenza. Il richiamo alla tradizione,
infatti, non è un mero ricordo del passato; esso costituisce piuttosto il
riconoscimento di un patrimonio culturale che appartiene a tutta l'umanità. Si
potrebbe, anzi, dire che siamo noi ad appartenere alla tradizione e non possiamo
disporre di essa come vogliamo. Proprio questo affondare le radici nella
tradizione è ciò che permette a noi, oggi, di poter esprimere un pensiero
originale, nuovo e progettuale per il futuro. Questo stesso richiamo vale anche
maggiormente per la teologia. Non solo perché essa possiede la Tradizione viva
della Chiesa come fonte originaria, (104) ma anche perché, in forza di questo,
deve essere capace di recuperare sia la profonda tradizione teologica che ha
segnato le epoche precedenti, sia la tradizione perenne di quella filosofia che
ha saputo superare per la sua reale saggezza i confini dello spazio e del tempo.
86.
L'insistenza sulla necessità di uno stretto rapporto di continuità della
riflessione filosofica contemporanea con quella elaborata nella tradizione
cristiana intende prevenire il pericolo che si nasconde in alcune linee di
pensiero, oggi particolarmente diffuse. Anche se brevemente, ritengo opportuno
soffermarmi su di esse per rilevarne gli errori ed i conseguenti rischi per
l'attività filosofica.
La
prima è quella che va sotto il nome di eclettismo, termine col quale si designa l'atteggiamento di chi,
nella ricerca, nell'insegnamento e nell'argomentazione, anche teologica, è
solito assumere singole idee derivate da differenti filosofie, senza badare né
alla loro coerenza e connessione sistematica né al loro inserimento storico. In
questo modo, egli si pone in condizione di non poter discernere la parte di
verità di un pensiero da quello che vi può essere di erroneo o di inadeguato.
Una forma estrema di eclettismo è ravvisabile anche nell'abuso retorico dei
termini filosofici a cui a volte qualche teologo s'abbandona. Una simile
strumentalizzazione non serve alla ricerca della verità e non educa la ragione
— sia teologica che filosofica — ad argomentare in maniera seria e
scientifica. Lo studio rigoroso e approfondito delle dottrine filosofiche, del
linguaggio loro peculiare e del contesto in cui sono sorte aiuta a superare i
rischi dell'eclettismo e permette una loro adeguata integrazione
nell'argomentazione teologica.
87.
L'eclettismo è un errore di metodo, ma potrebbe anche nascondere in sé le tesi
proprie dello storicismo. Per
comprendere in maniera corretta una dottrina del passato, è necessario che
questa sia inserita nel suo contesto storico e culturale. La tesi fondamentale
dello storicismo, invece, consiste nello stabilire la verità di una filosofia
sulla base della sua adeguatezza ad un determinato periodo e ad un determinato
compito storico. In questo modo, almeno implicitamente, si nega la validità
perenne del vero. Ciò che era vero in un'epoca, sostiene lo storicista, può
non esserlo più in un'altra. La storia del pensiero, insomma, diventa per lui
poco più di un reperto archeologico a cui attingere per evidenziare posizioni
del passato ormai in gran parte superate e prive di significato per il presente.
Si deve considerare, al contrario, che anche se la formulazione è in certo modo
legata al tempo e alla cultura, la verità o l'errore in esse espressi si
possono in ogni caso, nonostante la distanza spazio-temporale, riconoscere e
come tali valutare.
Nella
riflessione teologica, lo storicismo tende a presentarsi per lo più sotto una
forma di « modernismo ». Con la giusta preoccupazione di rendere il discorso
teologico attuale e assimilabile per il contemporaneo, ci si avvale soltanto
degli asserti e del gergo filosofico più recenti, trascurando le istanze
critiche che, alla luce della tradizione, si dovrebbero eventualmente sollevare.
Questa forma di modernismo, per il fatto di scambiare l'attualità per la verità,
si rivela incapace di soddisfare le esigenze di verità a cui la teologia è
chiamata a dare risposta.
88.
Un altro pericolo da considerare è lo scientismo. Questa concezione filosofica si rifiuta di ammettere
come valide forme di conoscenza diverse da quelle che sono proprie delle scienze
positive, relegando nei confini della mera immaginazione sia la conoscenza
religiosa e teologica, sia il sapere etico ed estetico. Nel passato, la stessa
idea si esprimeva nel positivismo e nel neopositivismo, che ritenevano prive di
senso le affermazioni di carattere metafisico. La critica epistemologica ha
screditato questa posizione, ed ecco che essa rinasce sotto le nuove vesti dello
scientismo. In questa prospettiva, i valori sono relegati a semplici prodotti
dell'emotività e la nozione di essere è accantonata per fare spazio alla pura
e semplice fattualità. La scienza, quindi, si prepara a dominare tutti gli
aspetti dell'esistenza umana attraverso il progresso tecnologico. Gli innegabili
successi della ricerca scientifica e della tecnologia contemporanea hanno
contribuito a diffondere la mentalità scientista, che sembra non avere più
confini, visto come è penetrata nelle diverse culture e quali cambiamenti
radicali vi ha apportato.
Si
deve costatare, purtroppo, che quanto attiene alla domanda circa il senso della
vita viene dallo scientismo considerato come appartenente al dominio
dell'irrazionale o dell'immaginario. Non meno deludente è l'approccio di questa
corrente di pensiero agli altri grandi problemi della filosofia, che, quando non
vengono ignorati, sono affrontati con analisi poggianti su analogie
superficiali, prive di fondamento razionale. Ciò porta all'impoverimento della
riflessione umana, alla quale vengono sottratti quei problemi di fondo che l'animal
rationale, fin dagli inizi della sua esistenza sulla terra, costantemente si
è posto. Accantonata, in questa prospettiva, la critica proveniente dalla
valutazione etica, la mentalità scientista è riuscita a fare accettare da
molti l'idea secondo cui ciò che è tecnicamente fattibile diventa per ciò
stesso anche moralmente ammissibile.
89.
Foriero di non minori pericoli è il pragmatismo, atteggiamento mentale che è proprio di chi, nel fare
le sue scelte, esclude il ricorso a riflessioni teoretiche o a valutazioni
fondate su principi etici. Notevoli sono le conseguenze pratiche derivanti da
questa linea di pensiero. In particolare, vi si è venuta affermando una
concezione della democrazia che non contempla il riferimento a fondamenti di
ordine assiologico e perciò immutabili: la ammissibilità o meno di un
determinato comportamento si decide sulla base del voto della maggioranza
parlamentare. (105) E chiara la conseguenza di una simile impostazione: le
grandi decisioni morali dell'uomo vengono di fatto subordinate alle
deliberazioni via via assunte dagli organi istituzionali. Di più: è la stessa
antropologia ad essere fortemente condizionata, mediante la proposta di una
visione unidimensionale dell'essere umano, dalla quale esulano i grandi dilemmi
etici, le analisi esistenziali sul senso della sofferenza e del sacrificio,
della vita e della morte.
90.
Le tesi fin qui esaminate conducono, a loro volta, a una più generale
concezione, che sembra oggi costituire l'orizzonte comune a molte filosofie che
hanno preso congedo dal senso dell'essere. Intendo riferirmi alla lettura
nichilista, che è insieme il rifiuto di ogni fondamento e la negazione di ogni
verità oggettiva. Il nichilismo,
prima ancora di essere in contrasto con le esigenze e i contenuti propri della
parola di Dio, è negazione dell'umanità dell'uomo e della sua stessa identità.
Non si può dimenticare, infatti, che l'oblio dell'essere comporta
inevitabilmente la perdita di contatto con la verità oggettiva e,
conseguentemente, col fondamento su cui poggia la dignità dell'uomo. Si fa così
spazio alla possibilità di cancellare dal volto dell'uomo i tratti che ne
rivelano la somiglianza con Dio, per condurlo progressivamente o a una
distruttiva volontà di potenza o alla disperazione della solitudine. Una volta
che si è tolta la verità all'uomo, è pura illusione pretendere di renderlo
libero. Verità e libertà, infatti, o si coniugano insieme o insieme
miseramente periscono. (106)
91.
Nel commentare le linee di pensiero appena ricordate non è stata mia intenzione
presentare un quadro completo della situazione attuale della filosofia: essa,
del resto, sarebbe difficilmente riconducibile ad una visione unitaria. Mi preme
sottolineare che l'eredità del sapere e della sapienza si è, di fatto,
arricchita in diversi campi. Basti citare la logica, la filosofia del
linguaggio, l'epistemologia, la filosofia della natura, l'antropologia,
l'analisi approfondita delle vie affettive della conoscenza, l'approccio
esistenziale all'analisi della libertà. D'altro canto, l'affermazione del
principio d'immanenza, che sta al centro della pretesa razionalista, ha
suscitato, a partire dal secolo scorso, reazioni che hanno portato ad una
radicale rimessa in questione di postulati ritenuti indiscutibili. Sono nate così
correnti irrazionaliste, mentre la critica metteva in evidenza l'inanità
dell'esigenza di autofondazione assoluta della ragione.
La
nostra epoca è stata qualificata da certi pensatori come l'epoca della «
post-modernità ». Questo termine, utilizzato non di rado in contesti tra loro
molto distanti, designa l'emergere di un insieme di fattori nuovi, che quanto ad
estensione ed efficacia si sono rivelati capaci di determinare cambiamenti
significativi e durevoli. Così il termine è stato dapprima impiegato a
proposito di fenomeni d'ordine estetico, sociale, tecnologico. Successivamente
è stato trasferito in ambito filosofico, restando però segnato da una certa
ambiguità, sia perché il giudizio su ciò che è qualificato come «
post-moderno » è a volte positivo ed a volte negativo, sia perché non vi è
consenso sul delicato problema della delimitazione delle varie epoche storiche.
Una cosa tuttavia è fuori dubbio: le correnti di pensiero che si richiamano
alla post-modernità meritano un'adeguata attenzione. Secondo alcune di esse,
infatti, il tempo delle certezze sarebbe irrimediabilmente passato, l'uomo
dovrebbe ormai imparare a vivere in un orizzonte di totale assenza di senso,
all'insegna del provvisorio e del fuggevole. Parecchi autori, nella loro critica
demolitrice di ogni certezza, ignorando le necessarie distinzioni, contestano
anche le certezze della fede.
Questo
nichilismo trova in qualche modo una conferma nella terribile esperienza del
male che ha segnato la nostra epoca. Dinanzi alla drammaticità di questa
esperienza, l'ottimismo razionalista che vedeva nella storia l'avanzata
vittoriosa della ragione, fonte di felicità e di libertà, non ha resistito, al
punto che una delle maggiori minacce, in questa fine di secolo, è la tentazione
della disperazione.
Resta
tuttavia vero che una certa mentalità positivista continua ad accreditare
l'illusione che, grazie alle conquiste scientifiche e tecniche, l'uomo, quale
demiurgo, possa giungere da solo ad assicurarsi il pieno dominio del suo
destino.
Compiti
attuali per la teologia
92.
In quanto intelligenza della Rivelazione, la teologia nelle diverse epoche
storiche si è sempre trovata a dover recepire le istanze delle varie culture
per poi mediare in esse, con una concettualizzazione coerente, il contenuto
della fede. Anche oggi un duplice compito le spetta. Da una parte, infatti, essa
deve sviluppare l'impegno che il Concilio Vaticano II, a suo tempo, le ha
affidato: rinnovare le proprie metodologie in vista di un servizio più efficace
all'evangelizzazione. Come non pensare, in questa prospettiva, alle parole
pronunciate dal Sommo Pontefice Giovanni XXIII in apertura del Concilio? Egli
disse allora: « E necessario che, aderendo alla viva attesa di quanti amano
sinceramente la religione cristiana, cattolica, apostolica, questa dottrina sia
più largamente e più profondamente conosciuta, e che gli spiriti ne siano più
pienamente istruiti e formati; è necessario che questa dottrina certa ed
immutabile, che deve essere fedelmente rispettata, sia approfondita e presentata
in modo che corrisponda alle esigenze del nostro tempo ». (107)
Dall'altra
parte, la teologia deve puntare gli occhi sulla verità ultima che le viene
consegnata con la Rivelazione, senza accontentarsi di fermarsi a stadi
intermedi. E bene per il teologo ricordare che il suo lavoro corrisponde « al
dinamismo insito nella fede stessa » e che oggetto proprio della sua ricerca è
« la Verità, il Dio vivo e il suo disegno di salvezza rivelato in Gesù Cristo
». (108) Questo compito, che tocca in prima istanza la teologia, provoca nello
stesso tempo la filosofia. La mole dei problemi che oggi si impongono, infatti,
richiede un lavoro comune, anche se condotto con metodologie differenti, perché
la verità sia di nuovo conosciuta ed espressa. La Verità, che è Cristo, si
impone come autorità universale che regge, stimola e fa crescere (cfr Ef
4, 15) sia la teologia che la filosofia.
Credere
nella possibilità di conoscere una verità universalmente valida non è
minimamente fonte di intolleranza; al contrario, è condizione necessaria per un
sincero e autentico dialogo tra le persone. Solamente a questa condizione è
possibile superare le divisioni e percorrere insieme il cammino verso la verità
tutta intera, seguendo quei sentieri che solo lo Spirito del Signore risorto
conosce. (109) Come l'esigenza di unità si configuri concretamente oggi, in
vista dei compiti attuali della teologia, è quanto desidero ora indicare.
93.
Lo scopo fondamentale a cui mira la teologia consiste nel presentare
l'intelligenza della Rivelazione ed il contenuto della fede. Il vero centro
della sua riflessione sarà, pertanto, la contemplazione del mistero stesso del
Dio Uno e Trino. A questi si accede riflettendo sul mistero dell'incarnazione
del Figlio di Dio: sul suo farsi uomo e sul conseguente suo andare incontro alla
passione e alla morte, mistero che sfocerà nella sua gloriosa risurrezione e
ascensione alla destra del Padre, da dove invierà lo Spirito di verità a
costituire e ad animare la sua Chiesa. Impegno primario della teologia, in
questo orizzonte, diventa l'intelligenza della kenosi
di Dio, vero grande mistero per la mente umana, alla quale appare
insostenibile che la sofferenza e la morte possano esprimere l'amore che si dona
senza nulla chiedere in cambio. In questa prospettiva si impone come esigenza di
fondo ed urgente una attenta analisi dei testi: in primo luogo, dei testi
scritturistici, poi di quelli in cui si esprime la viva Tradizione della Chiesa.
A questo riguardo si propongono oggi alcuni problemi, solo parzialmente nuovi,
la cui coerente soluzione non potrà essere trovata prescindendo dall'apporto
della filosofia.
94.
Un primo aspetto problematico riguarda il rapporto tra il significato e la verità.
Come ogni altro testo, così anche le fonti che il teologo interpreta
trasmettono innanzitutto un significato, che va rilevato ed esposto. Ora, questo
significato si presenta come la verità su Dio, che da Dio stesso viene
comunicata mediante il testo sacro. Nel linguaggio umano, quindi, prende corpo
il linguaggio di Dio, che comunica la propria verità con la mirabile «
condiscendenza » che rispecchia la logica dell'Incarnazione. (110)
Nell'interpretare le fonti della Rivelazione, pertanto, è necessario che il
teologo si domandi quale sia la verità profonda e genuina che i testi vogliono
comunicare, pur nei limiti del linguaggio.
Quanto
ai testi biblici, e in particolare ai Vangeli, la loro verità non si riduce
certo alla narrazione di semplici avvenimenti storici o alla rilevazione di
fatti neutrali, come vorrebbe il positivismo storicista. (111) Questi testi, al
contrario, espongono eventi la cui verità sta oltre il semplice accadere
storico: sta nel loro significato nella e per la storia
della salvezza. Questa verità trova piena esplicitazione nella lettura perenne
che la Chiesa compie di tali testi nel corso dei secoli, mantenendone immutato
il significato originario. E urgente, pertanto, che anche filosoficamente ci si
interroghi sul rapporto che intercorre tra il fatto e il suo significato;
rapporto che costituisce il senso specifico della storia.
95.
La parola di Dio non si indirizza ad un solo popolo o a una sola epoca.
Ugualmente, gli enunciati dogmatici, pur risentendo a volte della cultura del
periodo in cui vengono definiti, formulano una verità stabile e definitiva.
Sorge quindi la domanda di come si possa conciliare l'assolutezza e
l'universalità della verità con l'inevitabile condizionamento storico e
culturale delle formule che la esprimono. Come ho detto precedentemente, le tesi
dello storicismo non sono difendibili. L'applicazione di un'ermeneutica aperta
all'istanza metafisica, invece, è in grado di mostrare come, dalle circostanze
storiche e contingenti in cui i testi sono maturati, si compia il passaggio alla
verità da essi espressa, che va oltre questi condizionamenti.
Con
il suo linguaggio storico e circoscritto l'uomo può esprimere verità che
trascendono l'evento linguistico. La verità, infatti, non può mai essere
limitata al tempo e alla cultura; si conosce nella storia, ma supera la storia
stessa.
96.
Questa considerazione permette di intravedere la soluzione di un altro problema:
quello della perenne validità del linguaggio concettuale usato nelle
definizioni conciliari. Già il mio venerato Predecessore Pio XII nella sua
Lettera enciclica Humani generis affrontava
la questione. (112)
Riflettere
su questo argomento non è facile, perché si deve tenere seriamente conto del
senso che le parole acquistano nelle diverse culture e in epoche differenti. La
storia del pensiero, comunque, mostra che attraverso l'evoluzione e la varietà
delle culture certi concetti di base mantengono il loro valore conoscitivo
universale e perciò la verità delle proposizioni che li esprimono. (113) Se
così non fosse, la filosofia e le scienze non potrebbero comunicare tra loro né
potrebbero essere recepite da culture diverse da quelle in cui sono state
pensate ed elaborate. Il problema ermeneutico, dunque, esiste, ma è
risolvibile. Il valore realistico di molti concetti, d'altronde, non esclude che
spesso il loro significato sia imperfetto. La speculazione filosofica molto
potrebbe aiutare in questo campo. E auspicabile, pertanto, un suo particolare
impegno nell'approfondimento del rapporto tra linguaggio concettuale e verità,
e nella proposta di vie adeguate per una sua corretta comprensione.
97.
Se compito importante della teologia è l'interpretazione delle fonti, impegno
ulteriore e anche più delicato ed esigente è la comprensione
della verità rivelata, o l'elaborazione dell'intellectus
fidei. Come già ho accennato, l'intellectus
fidei richiede l'apporto di una filosofia dell'essere, che consenta
innanzitutto alla teologia dogmatica di
svolgere in modo adeguato le sue funzioni. Il pragmatismo dogmatico degli inizi
di questo secolo, secondo cui le verità di fede non sarebbero altro che regole
di comportamento, è già stato rifiutato e rigettato; (114) ciò nonostante,
rimane sempre la tentazione di comprendere queste verità in maniera puramente
funzionale. In questo caso, si cadrebbe in uno schema inadeguato, riduttivo, e
sprovvisto dell'incisività speculativa necessaria. Una cristologia, ad esempio,
che procedesse unilateralmente « dal basso », come oggi si suole dire, o una
ecclesiologia, elaborata unicamente sul modello delle società civili,
difficilmente potrebbero evitare il pericolo di tale riduzionismo.
Se
l'intellectus fidei vuole integrare
tutta la ricchezza della tradizione teologica, deve ricorrere alla filosofia
dell'essere. Questa dovrà essere in grado di riproporre il problema dell'essere
secondo le esigenze e gli apporti di tutta la tradizione filosofica, anche
quella più recente, evitando di cadere in sterili ripetizioni di schemi
antiquati. La filosofia dell'essere, nel quadro della tradizione metafisica
cristiana, è una filosofia dinamica che vede la realtà nelle sue strutture
ontologiche, causali e comunicative. Essa trova la sua forza e perennità nel
fatto di fondarsi sull'atto stesso dell'essere, che permette l'apertura piena e
globale verso tutta la realtà, oltrepassando ogni limite fino a raggiungere
Colui che a tutto dona compimento. (115) Nella teologia, che riceve i suoi
principi dalla Rivelazione quale nuova fonte di conoscenza, questa prospettiva
trova conferma secondo l'intimo rapporto tra fede e razionalità metafisica.
98.
Considerazioni analoghe si possono fare anche in riferimento alla teologia
morale. Il recupero della filosofia è urgente anche nell'ordine della
comprensione della fede che riguarda l'agire dei credenti. Di fronte alle sfide
contemporanee nel campo sociale, economico, politico e scientifico la coscienza
etica dell'uomo è disorientata. Nella Lettera enciclica Veritatis
splendor ho rilevato che molti problemi presenti nel mondo contemporaneo
derivano da una « crisi intorno alla verità. Persa l'idea di una verità
universale sul bene, conoscibile dalla ragione umana, è inevitabilmente
cambiata anche la concezione della coscienza: questa non è più considerata
nella sua realtà originaria, ossia un atto dell'intelligenza della persona, cui
spetta di applicare la conoscenza universale del bene in una determinata
situazione e di esprimere così un giudizio sulla condotta giusta da scegliere
qui e ora; ci si è orientati a concedere alla coscienza dell'individuo il
privilegio di fissare, in modo autonomo, i criteri del bene e del male e agire
di conseguenza. Tale visione fa tutt'uno con un'etica individualistica, per la
quale ciascuno si trova confrontato con la sua verità, differente dalla verità
degli altri ». (116)
Nell'intera
Enciclica ho sottolineato chiaramente il fondamentale ruolo spettante alla verità
nel campo della morale. Questa verità, riguardo alla maggior parte dei problemi
etici più urgenti, richiede, da parte della teologia morale, un'attenta
riflessione che sappia mettere in evidenza le sue radici nella parola di Dio.
Per poter adempiere a questa sua missione, la teologia morale deve far ricorso a
un'etica filosofica rivolta alla verità del bene; a un'etica, dunque, né
soggettivista né utilitarista. L'etica richiesta implica e presuppone
un'antropologia filosofica e una metafisica del bene. Avvalendosi di questa
visione unitaria, che è necessariamente collegata alla santità cristiana e
all'esercizio delle virtù umane e soprannaturali, la teologia morale sarà
capace di affrontare i vari problemi di sua competenza — quali la pace, la
giustizia sociale, la famiglia, la difesa della vita e dell'ambiente naturale
— in maniera più adeguata ed efficace.
99.
Il lavoro teologico nella Chiesa è in primo luogo al servizio dell'annuncio
della fede e della catechesi. (117) L'annuncio o il kerigma chiama alla
conversione, proponendo la verità di Cristo che culmina nel suo Mistero
pasquale: solo in Cristo, infatti, è possibile conoscere la pienezza della
verità che salva (cfr At 4, 12; 1
Tm 2, 4-6).
In
questo contesto, si capisce bene perché, oltre alla teologia, assuma notevole
rilievo anche il riferimento alla catechesi: questa possiede, infatti, delle implicazioni filosofiche
che vanno approfondite alla luce della fede. L'insegnamento impartito nella
catechesi ha un effetto formativo per la persona. La catechesi, che è anche
comunicazione linguistica, deve presentare la dottrina della Chiesa nella sua
integrità, (118) mostrandone l'aggancio con la vita dei credenti. (119) Si
realizza così una singolare unione tra insegnamento e vita che è impossibile
raggiungere altrimenti. Ciò che si comunica nella catechesi, infatti, non è un
corpo di verità concettuali, ma il mistero del Dio vivente. (120)
La
riflessione filosofica molto può contribuire nel chiarificare il rapporto tra
verità e vita, tra evento e verità dottrinale e, soprattutto, la relazione tra
verità trascendente e linguaggio umanamente intelligibile. (121) La reciprocità
che si crea tra le discipline teologiche e i risultati raggiunti dalle
differenti correnti filosofiche può esprimere, dunque, una reale fecondità in
vista della comunicazione della fede e di una sua più profonda comprensione.
|
CONCLUSIONE
100.
A più di cento anni dalla pubblicazione dell'Enciclica Æterni
Patris di Leone XIII, a cui mi sono più volte richiamato in queste pagine,
mi è sembrato doveroso riprendere di nuovo e in maniera più sistematica il
discorso sul tema del rapporto tra la fede e la filosofia. L'importanza che il
pensiero filosofico riveste nello sviluppo delle culture e nell'orientamento dei
comportamenti personali e sociali è evidente. Esso esercita una forte
influenza, non sempre percepita in maniera esplicita, anche sulla teologia e le
sue diverse discipline. Per questi motivi, ho ritenuto giusto e necessario
sottolineare il valore che la filosofia possiede nei confronti dell'intelligenza
della fede e i limiti a cui essa va incontro quando dimentica o rifiuta le verità
della Rivelazione. La Chiesa, infatti, permane nella più profonda convinzione
che fede e ragione « si recano un aiuto scambievole », (122) esercitando l'una
per l'altra una funzione sia di vaglio critico e purificatore, sia di stimolo a
progredire nella ricerca e nell'approfondimento.
101.
Se il nostro sguardo si volge alla storia del pensiero, soprattutto
nell'Occidente, è facile vedere la ricchezza che è scaturita per il progresso
dell'umanità dall'incontro tra filosofia e teologia e dallo scambio delle loro
rispettive conquiste. La teologia, che ha ricevuto in dono un'apertura e una
originalità che le permettono di esistere come scienza della fede, ha
certamente provocato la ragione a rimanere aperta davanti alla novità radicale
che la rivelazione di Dio porta con sé. E questo è stato un indubbio vantaggio
per la filosofia, che ha visto così schiudersi nuovi orizzonti su ulteriori
significati che la ragione è chiamata ad approfondire.
E
proprio alla luce di questa costatazione che, come ho ribadito il dovere della
teologia di recuperare il suo genuino rapporto con la filosofia, così mi sento
in dovere di sottolineare l'opportunità che anche la filosofia, per il bene e
il progresso del pensiero, recuperi la sua relazione con la teologia. Troverà
in essa non la riflessione del singolo individuo che, anche se profonda e ricca,
porta pur sempre con sé i limiti prospettici propri del pensiero di uno solo,
ma la ricchezza di una riflessione comune. La teologia, infatti, nell'indagine
sulla verità è sostenuta, per sua stessa natura, dalla nota dell'ecclesialità
(123) e dalla tradizione del Popolo di Dio con la sua multiformità di saperi e
culture nell'unità della fede.
102.
Insistendo in tal modo sull'importanza e sulle vere dimensioni del pensiero
filosofico, la Chiesa promuove insieme sia la difesa della dignità dell'uomo
sia l'annuncio del messaggio evangelico. Per tali compiti non vi è oggi,
infatti, preparazione più urgente di questa: portare gli uomini alla scoperta
della loro capacità di conoscere il vero (124) e del loro anelito verso un
senso ultimo e definitivo dell'esistenza. Nella prospettiva di queste esigenze
profonde, iscritte da Dio nella natura umana, appare anche più chiaro il
significato umano e umanizzante della parola di Dio. Grazie alla mediazione di
una filosofia divenuta anche vera saggezza, l'uomo contemporaneo giungerà così
a riconoscere che egli sarà tanto più uomo quanto più, affidandosi al
Vangelo, aprirà se stesso a Cristo.
103.
La filosofia, inoltre, è come lo specchio in cui si riflette la cultura dei
popoli. Una filosofia, che, sotto la provocazione delle esigenze teologiche, si
sviluppa in consonanza con la fede, fa parte di quella « evangelizzazione della
cultura » che Paolo VI ha proposto come uno degli scopi fondamentali
dell'evangelizzazione. (125) Mentre non mi stanco di richiamare l'urgenza di una
nuova evangelizzazione, mi appello ai
filosofi perché sappiano approfondire le dimensioni del vero, del buono e del
bello, a cui la parola di Dio dà accesso. Ciò diventa tanto più urgente, se
si considerano le sfide che il nuovo millennio sembra portare con sé: esse
investono in modo particolare le regioni e le culture di antica tradizione
cristiana. Anche questa attenzione deve considerarsi come un apporto
fondamentale e originale sulla strada della nuova evangelizzazione.
104.
Il pensiero filosofico è spesso l'unico terreno d'intesa e di dialogo con chi
non condivide la nostra fede. Il movimento filosofico contemporaneo esige
l'impegno attento e competente di filosofi credenti capaci di recepire le
aspettative, le aperture e le problematiche di questo momento storico.
Argomentando alla luce della ragione e secondo le sue regole, il filosofo
cristiano, pur sempre guidato dall'intelligenza ulteriore che gli dà la parola
di Dio, può sviluppare una riflessione che sarà comprensibile e sensata anche
per chi non afferra ancora la verità piena che la Rivelazione divina manifesta.
Tale terreno d'intesa e di dialogo è oggi tanto più importante in quanto i
problemi che si pongono con più urgenza all'umanità — si pensi al problema
ecologico, al problema della pace o della convivenza delle razze e delle culture
— trovano una possibile soluzione alla luce di una chiara e onesta
collaborazione dei cristiani con i fedeli di altre religioni e con quanti, pur
non condividendo una credenza religiosa, hanno a cuore il rinnovamento
dell'umanità. Lo ha affermato il Concilio Vaticano II: « Per quanto ci
riguarda, il desiderio di stabilire un dialogo che sia ispirato dal solo amore
della verità e condotto con la opportuna prudenza, non esclude nessuno: né
coloro che hanno il culto di alti valori umani, benché non ne riconoscano
ancora la Sorgente, né coloro che si oppongono alla Chiesa e la perseguitano in
diverse maniere ». (126) Una filosofia, nella quale risplenda anche qualcosa
della verità di Cristo, unica risposta definitiva ai problemi dell'uomo, (127)
sarà un sostegno efficace per quell'etica vera e insieme planetaria di cui oggi
l'umanità ha bisogno.
105.
Mi preme concludere questa Lettera enciclica rivolgendo un ultimo pensiero
anzitutto ai teologi, affinché
prestino particolare attenzione alle implicazioni filosofiche della parola di
Dio e compiano una riflessione da cui emerga lo spessore speculativo e pratico
della scienza teologica. Desidero ringraziarli per il loro servizio ecclesiale.
Il legame intimo tra la sapienza teologica e il sapere filosofico è una delle
ricchezze più originali della tradizione cristiana nell'approfondimento della
verità rivelata. Per questo, li esorto a recuperare ed evidenziare al meglio la
dimensione metafisica della verità per entrare così in un dialogo critico ed
esigente tanto con il pensiero filosofico contemporaneo quanto con tutta la
tradizione filosofica, sia questa in sintonia o invece in contrapposizione con
la parola di Dio. Tengano sempre presente l'indicazione di un grande maestro del
pensiero e della spiritualità, san Bonaventura, il quale introducendo il
lettore al suo Itinerarium mentis in Deum lo invitava a rendersi conto che « non
è sufficiente la lettura senza la compunzione, la conoscenza senza la
devozione, la ricerca senza lo slancio della meraviglia, la prudenza senza la
capacità di abbandonarsi alla gioia, l'attività disgiunta dalla religiosità,
il sapere separato dalla carità, l'intelligenza senza l'umiltà, lo studio non
sorretto dalla grazia divina, la riflessione senza la sapienza ispirata da Dio
». (128)
Il
mio pensiero è rivolto pure a quanti hanno la responsabilità
della formazione sacerdotale, sia accademica che pastorale, perché curino
con particolare attenzione la preparazione filosofica di chi dovrà annunciare
il Vangelo all'uomo di oggi e, più ancora, di chi dovrà dedicarsi alla ricerca
e all'insegnamento della teologia. Si sforzino di condurre il loro lavoro alla
luce delle prescrizioni del Concilio Vaticano II (129) e delle disposizioni
successive, dalle quali emerge l'inderogabile e urgente compito, a cui tutti
siamo chiamati, di contribuire a una genuina e profonda comunicazione delle
verità di fede. Non si dimentichi la grave responsabilità di una previa e
adeguata preparazione del corpo docente destinato all'insegnamento della
filosofia sia nei Seminari che nelle Facoltà ecclesiastiche. (130) E necessario
che questa docenza comporti la conveniente preparazione scientifica, si presenti
in maniera sistematica proponendo il grande patrimonio della tradizione
cristiana e si compia con il dovuto discernimento dinanzi alle esigenze attuali
della Chiesa e del mondo.
106.
Il mio appello, inoltre, va ai filosofi e a quanti insegnano
la filosofia, perché abbiano il coraggio di ricuperare, sulla scia di una
tradizione filosofica perennemente valida, le dimensioni di autentica saggezza e
di verità, anche metafisica, del pensiero filosofico. Si lascino interpellare
dalle esigenze che scaturiscono dalla parola di Dio ed abbiano la forza di
condurre il loro discorso razionale ed argomentativo in risposta a tale
interpellanza. Siano sempre protesi verso la verità e attenti al bene che il
vero contiene. Potranno in questo modo formulare quell'etica genuina di cui
l'umanità ha urgente bisogno, particolarmente in questi anni. La Chiesa segue
con attenzione e simpatia le loro ricerche; siano pertanto sicuri del rispetto
che essa conserva per la giusta autonomia della loro scienza. Vorrei
incoraggiare, in particolare, i credenti che operano nel campo della filosofia,
perché illuminino i diversi ambiti dell'attività umana con l'esercizio di una
ragione che si fa più sicura e acuta per il sostegno che riceve dalla fede.
Non
posso non rivolgere, infine, una parola anche agli scienziati,
che con le loro ricerche ci forniscono una crescente conoscenza dell'universo
nel suo insieme e della varietà incredibilmente ricca delle sue componenti,
animate ed inanimate, con le loro complesse strutture atomiche e molecolari. Il
cammino da essi compiuto ha raggiunto, specialmente in questo secolo, traguardi
che continuano a stupirci. Nell'esprimere la mia ammirazione ed il mio
incoraggiamento a questi valorosi pionieri della ricerca scientifica, ai quali
l'umanità tanto deve del suo presente sviluppo, sento il dovere di esortarli a
proseguire nei loro sforzi restando sempre in quell'orizzonte sapienziale,
in cui alle acquisizioni scientifiche e tecnologiche s'affiancano i valori
filosofici ed etici, che sono manifestazione caratteristica ed imprescindibile
della persona umana. Lo scienziato è ben consapevole che « la ricerca della
verità, anche quando riguarda una realtà limitata del mondo o dell'uomo, non
termina mai; rinvia sempre verso qualcosa che è al di sopra dell'immediato
oggetto degli studi, verso gli interrogativi che aprono l'accesso al Mistero ».
(131)
107.
A tutti chiedo di guardare in
profondità all'uomo, che Cristo ha salvato nel mistero del suo amore, e alla
sua costante ricerca di verità e di senso. Diversi sistemi filosofici,
illudendolo, lo hanno convinto che egli è assoluto padrone di sé, che può
decidere autonomamente del proprio destino e del proprio futuro confidando solo
in se stesso e sulle proprie forze. La grandezza dell'uomo non potrà mai essere
questa. Determinante per la sua realizzazione sarà soltanto la scelta di
inserirsi nella verità, costruendo la propria abitazione all'ombra della
Sapienza e abitando in essa. Solo in questo orizzonte veritativo comprenderà il
pieno esplicitarsi della sua libertà e la sua chiamata all'amore e alla
conoscenza di Dio come attuazione suprema di sé.
108.
Il mio ultimo pensiero è rivolto a Colei che la preghiera della Chiesa invoca
come Sede della Sapienza. La sua
stessa vita è una vera parabola capace di irradiare luce sulla riflessione che
ho svolto. Si può intravedere, infatti, una profonda consonanza tra la
vocazione della Beata Vergine e quella della genuina filosofia. Come la Vergine
fu chiamata ad offrire tutta la sua umanità e femminilità affinché il Verbo
di Dio potesse prendere carne e farsi uno di noi, così la filosofia è chiamata
a prestare la sua opera, razionale e critica, affinché la teologia come
comprensione della fede sia feconda ed efficace. E come Maria, nell'assenso dato
all'annuncio di Gabriele, nulla perse della sua vera umanità e libertà, così
il pensiero filosofico, nell'accogliere l'interpellanza che gli viene dalla
verità del Vangelo, nulla perde della sua autonomia, ma vede sospinta ogni sua
ricerca alla più alta realizzazione. Questa verità l'avevano ben compresa i
santi monaci dell'antichità cristiana, quando chiamavano Maria « la mensa
intellettuale della fede ». (132) In lei vedevano l'immagine coerente della
vera filosofia ed erano convinti di dover philosophari
in Maria.
Possa,
la Sede della Sapienza, essere il porto sicuro per quanti fanno della loro vita
la ricerca della saggezza. Il cammino verso la sapienza, ultimo e autentico fine
di ogni vero sapere, possa essere liberato da ogni ostacolo per l'intercessione
di Colei che, generando la Verità e conservandola nel suo cuore, l'ha
partecipata all'umanità intera per sempre.
Dato
a Roma, presso San Pietro, il 14 settembre, festa della Esaltazione della Santa
Croce, dell'anno 1998, ventesimo del mio Pontificato.
GIOVANNI
PAOLO II
|
NOTE
(1)
Già
lo scrivevo nella mia prima lettera enciclica Redemptor
hominis: « Siamo diventati partecipi di questa missione di Cristo-profeta
e, in forza della stessa missione, insieme con lui serviamo la verità divina
nella Chiesa. La responsabilità per tale verità significa anche amarla e
cercarne la più esatta comprensione, in modo da renderla più vicina a noi
stessi e agli altri in tutta la sua forza salvifica, nel suo splendore, nella
sua profondità e insieme semplicità ». N.
19: AAS 71 (1979), 306.
(2)
Cfr
Conc. Ecum. Vat.
II, Cost. past. sulla Chiesa nel mondo contemporaneo Gaudium et spes, 16.
(3)
Cost. dogm. sulla Chiesa Lumen gentium,
25.
(4)
N. 4: AAS 85 (1993), 1136.
(5)
Conc. Ecum.
Vat. II, Cost. dogm. sulla divina Rivelazione Dei
Verbum, 2.
(6)
Cfr Cost. dogm. sulla fede cattolica Dei Filius, III: DS
3008.
(7)
Ibid., IV: DS
3015; citato anche in Conc. Ecum. Vat. II, Cost. past. sulla Chiesa nel
mondo contemporaneo Gaudium et spes, 59.
(8)
Cost. dogm. sulla divina Rivelazione Dei Verbum, 2.
(9)
Lett. ap. Tertio millennio adveniente (10
novembre 1994), 10: AAS 87 (1995), 11.
(10)
N. 4.
(11)
N. 8.
(12)
N. 22.
(13)
Cfr Conc. Ecum. Vat. II,
Cost. dogm. sulla divina Rivelazione Dei
Verbum, 4.
(14)
Ibid., 5.
(15)
Il Concilio Vaticano I, a cui fa riferimento la sentenza sopra richiamata,
insegna che l'obbedienza della fede esige l'impegno dell'intelletto e della
volontà: « Poiché l'uomo dipende totalmente da Dio come suo creatore e
signore e la ragione creata è sottomessa completamente alla verità increata,
noi siamo tenuti, quando Dio si rivela, a prestargli, con la fede, la piena
sottomissione della nostra intelligenza e della nostra volontà » (Cost. dogm.
sulla fede cattolica Dei Filius, III;
DS 3008).
(16)
Sequenza nella solennità del
Santissimo Corpo e Sangue di Cristo.
(17)
Pensées, 789 (ed. L. Brunschvicg).
(18)
Conc. Ecum. Vat. II, Cost. past. sulla Chiesa nel mondo contemporaneo Gaudium
et spes, 22.
(19)
Cfr Conc. Ecum. Vat. II,
Cost. dogm. sulla divina Rivelazione Dei
Verbum, 2.
(20)
Proemio e nn. 1. 15: PL 158,
223-224.226; 235.
(21)
De vera religione, XXXIX, 72: CCL
32, 234.
(22)
« Ut te semper desiderando quaererent et inveniendo quiescerent »: Missale
Romanum.
(23)
Aristotele, Metafisica, I, 1.
(24)
Confessiones, X, 23, 33: CCL
27, 173.
(25)
N. 34: AAS 85 (1993), 1161.
(26)
Cfr Giovanni Paolo II, Lett. ap. Salvifici doloris (11 febbraio 1984), 9: AAS 76 (1984), 209-210.
(27)
Cfr Conc. Ecum. Vat. II,
Dich. sulle relazioni della Chiesa con le religioni non cristiane Nostra aetate, 2.
(28)
E questa un'argomentazione che perseguo da molto tempo e che ho espresso in
diverse occasioni. « Che è l'uomo e a che può servire? Qual è il suo bene e
qual è il suo male? (Sir 18, 7)
[...]. Queste domande sono nel cuore di ogni uomo, come ben dimostra il genio
poetico di ogni tempo e di ogni popolo, che, quasi profezia dell'umanità,
ripropone continuamente la domanda seria che
rende l'uomo veramente tale. Esse esprimono l'urgenza di trovare un perché
all'esistenza, ad ogni suo istante, alle sue tappe salienti e decisive così
come ai suoi momenti più comuni. In tali questioni è testimoniata la
ragionevolezza profonda dell'esistere umano, poiché l'intelligenza e la volontà
dell'uomo vi sono sollecitate a cercare liberamente la soluzione capace di
offrire un senso pieno alla vita. Questi interrogativi, pertanto, costituiscono
l'espressione più alta della natura dell'uomo: di conseguenza la risposta ad
esse misura la profondità del suo impegno con la propria esistenza. In
particolare, quando il perché delle cose viene
indagato con integralità alla ricerca della risposta ultima e più esauriente,
allora la ragione umana tocca il suo vertice e si apre alla religiosità. In
effetti, la religiosità rappresenta l'espressione più elevata della persona
umana, perché è il culmine della sua natura razionale. Essa sgorga
dall'aspirazione profonda dell'uomo alla verità ed è alla base della ricerca
libera e personale che egli compie del divino »: Udienza generale del 19
ottobre 1983, 1-2: Insegnamenti VI, 2
(1983), 814-815.
(29)
« [Galileo] ha dichiarato esplicitamente che le due verità, di fede e di
scienza, non possono mai contrariarsi « procedendo di pari dal Verbo divino la
Scrittura sacra e la natura, quella come dettatura dello Spirito Santo, e questa
come osservantissima esecutrice degli ordini di Dio » come scrive nella lettera
al Padre Benedetto Castelli il 21 dicembre 1613. Non diversamente, anzi con
parole simili, insegna il Concilio Vaticano II: « La ricerca metodica di ogni
disciplina, se procede [...] secondo le norme morali, non sarà mai in reale
contrasto con la fede, perché le realtà profane e le realtà della fede hanno
origine dal medesimo Dio » (Gaudium et spes, 36). Galileo sente nella sua ricerca scientifica la
presenza del Creatore che lo stimola, che previene e aiuta le sue intuizioni,
operando nel profondo del suo spirito ». Giovanni Paolo II, Discorso alla
Pontificia Accademia delle Scienze, 10 novembre 1979: Insegnamenti,
II, 2 (1979), 1111-1112.
(30)
Cfr Conc. Ecum. Vat. II,
Cost. dogm. sulla divina Rivelazione Dei
Verbum, 4.
(31)
Origene, Contro Celso, 3, 55: SC
136, 130.
(32)
Dialogo con Trifone, 8,1: PG
6, 492.
(33)
Stromati I, 18, 90, 1: SC
30, 115.
(34)
Cfr ibid., I, 16, 80, 5: SC
30, 108.
(35)
Cfr ibid., I, 5, 28, 1: SC
30, 65.
(36)
Ibid., VI, 7, 55, 1-2: PG
9, 277.
(37)
Ibid., I, 20, 100, 1: SC
30, 124.
(38)
S. Agostino, Confessiones VI, 5, 7: CCL
27, 77-78.
(39)
Cfr ibid., VII, 9, 13-14: CCL 27,
101-102.
(40)
De praescriptione haereticorum, VII,
9: SC 46, 98. «
Quid ergo Athenis et Hierosolymis? Quid academiae et ecclesiae? ».
(41)
Cfr Congregazione per l'Educazione Cattolica, Istr. sullo studio dei Padri della
Chiesa nella formazione sacerdotale (10 novembre 1989), 25: AAS
82 (1990), 617-618.
(42)
S. Anselmo, Proslogion, 1: PL
158, 226.
(43)
Id., Monologion, 64: PL
158, 210.
(44)
Cfr Summa contra Gentiles, I, VII.
(45)
Cfr Summa Theologiae, I, 1, 8 ad 2: «
cum enim gratia non tollat naturam sed perficiat ».
(46)
Cfr Giovanni Paolo II, Discorso ai partecipanti al IX Congresso Tomistico
Internazionale (29 settembre 1990): Insegnamenti, XIII, 2 (1990), 770-771.
(47)
Lett. ap. Lumen Ecclesiae (20 novembre
1974), 8: AAS 66 (1974), 680.
(48)
Cfr I, 1, 6: « Praeterea, haec doctrina per studium acquiritur. Sapientia autem
per infusionem habetur, unde inter septem dona Spiritus Sancti connumeratur ».
(49)
Ibid., II, II, 45, 1 ad 2; cfr pure
II, II, 45, 2.
(50)
Ibid., I, II, 109, 1 ad 1 che riprende
la nota frase dell'Ambrosiaster, In prima
Cor 12,3: PL 17, 258.
(51)
Leone XIII, Lett. enc. Æterni Patris (4
agosto 1879): ASS 11 (1878-1879), 109.
(52)
Paolo VI, Lett. ap. Lumen Ecclesiae (20
novembre 1974), 8: AAS 66 (1974), 683.
(53)
Lett. enc. Redemptor hominis (4 marzo
1979), 15: AAS 71 (1979), 286.
(54)
Cfr Pio XII, Lett. enc. Humani generis (12
agosto 1950): AAS 42 (1950), 566.
(55)
Cfr Conc. Ecum. Vat.
I,
Cost. dogm. prima sulla Chiesa di Cristo Pastor
Aeternus: DS 3070; Conc. Ecum.
Vat.
II,
Cost. dogm. sulla Chiesa Lumen gentium,
25 c.
(56)
Cfr Sinodo di Costantinopoli, DS 403.
(57)
Cfr Concilio di Toledo I, DS 205; Concilio di Braga I, DS
459-460; Sisto V, Bolla Coeli et
terrae Creator (5 gennaio 1586): Bullarium
Romanum 44, Romae 1747, 176-179; Urbano VIII, Inscrutabilis iudiciorum (1o aprile 1631): Bullarium Romanum 61, Romae 1758, 268-270.
(58)
Cfr Conc. Ecum. Viennense,
Decr. Fidei catholicae, DS
902; Conc. Ecum. Lateranense V, Bolla Apostolici
regiminis, DS 1440.
(59)
Cfr Theses a Ludovico Eugenio Bautain
iussu sui Episcopi subscriptae (8 settembre 1840), DS 2751-2756; Theses
a Ludovico Eugenio Bautain ex mandato S. Cong. Episcoporum et Religiosorum
subscriptae (26 aprile 1844), DS 2765-2769.
(60)
Cfr S. Congr. Indicis, Decr. Theses contra traditionalismum Augustini Bonnetty (11 giugno 1855), DS
2811-2814.
(61)
Cfr Pio IX, Breve Eximiam tuam (15
giugno 1857), DS 2828-2831; Breve Gravissimas
inter (11 dicembre 1862), DS 2850-2861.
(62)
Cfr S. Congr. del S. Officio, Decr. Errores ontologistarum (18 settembre 1861), DS 2841-2847.
(63)
Cfr Conc. Ecum. Vat. I, Cost. dogm. sulla fede cattolica Dei
Filius, II: DS 3004; e can. 2, 1: DS 3026.
(64)
Ibid., IV: DS
3015, citato in Conc. Ecum. Vat. II, Cost. past. sulla Chiesa nel mondo
contemporaneo Gaudium et spes, 59.
(65)
Conc. Ecum. Vat. I, Cost. dogm. sulla fede cattolica Dei
Filius, IV: DS 3017.
(66)
Cfr Lett. enc. Pascendi
dominici gregis (8
settembre 1907): ASS 40 (1907),
596-597.
(67)
Cfr Pio XI, Lett. enc. Divini Redemptoris (19
marzo 1937): AAS 29 (1937), 65-106.
(68)
Lett. enc. Humani generis (12 agosto
1950): AAS 42 (1950), 562-563.
(69)
Ibid., l.c., 563-564.
(70)
Cfr Giovanni Paolo II, Cost. ap. Pastor Bonus (28 giugno 1988), artt. 48-49: AAS 80 (1988), 873; Congr. per la Dottrina della Fede, Istr. sulla
vocazione ecclesiale del teologo Donum
veritatis (24 maggio 1990), 18: AAS 82
(1990), 1558.
(71)
Cfr Istr. su alcuni aspetti della « teologia della liberazione » Libertatis
nuntius (6 agosto 1984), VII-X: AAS 76
(1984), 890-903.
(72)
Il Concilio Vaticano I, con parole tanto chiare quanto autoritative, aveva già
condannato questo errore, affermando da una parte che « quanto a questa fede
[...], la Chiesa cattolica professa che essa è una virtù soprannaturale, per
la quale sotto l'ispirazione divina e con l'aiuto della grazia, noi crediamo
vere le cose da lui rivelate, non a causa dell'intrinseca verità delle cose
percepite dalla luce naturale della ragione, ma a causa dell'autorità di Dio
stesso, che le rivela, il quale non può ingannarsi né ingannare »: Cost.
dogm. Dei Filius III: DS
3008, e can.3. 2: DS 3032.
Dall'altra parte, il Concilio dichiarava che la ragione mai « è resa capace di
penetrare [tali misteri] come le verità che formano il suo oggetto proprio »: ibid., IV: DS 3016. Da qui
traeva la conclusione pratica: « I fedeli cristiani non solo non hanno il
diritto di difendere come legittime conclusioni della scienza le opinioni
riconosciute contrarie alla dottrina della fede, specie se condannate dalla
Chiesa, ma sono strettamente tenuti a considerarle piuttosto come errori, che
hanno solo una ingannevole parvenza di verità »: ibid., IV: DS 3018.
(73)
Cfr nn. 9-10.
(74)
Ibid., 10.
(75)
Ibid., 21.
(76)
Cfr ibid., 10.
(77)
Cfr Lett. enc. Humani
generis (12
agosto 1950): AAS 42 (1950), 565-567; 571-573.
(78)
Cfr Lett. enc. Æterni
Patris (4
agosto 1879): ASS 11 (1878-1879), 97-115.
(79)
Ibid., l.c., 109.
(80)
Cfr nn. 14-15.
(81)
Cfr ibid., 20-21.
(82)
Ibid., 22; cfr Giovanni Paolo II,
Lett. enc. Redemptor hominis (4 marzo
1979), 8: AAS 71 (1979), 271-272.
(83)
Decr. sulla formazione sacerdotale Optatam totius, 15.
(84)
Cfr Giovanni Paolo II, Cost. ap. Sapientia christiana (15 aprile 1979), art. 79-80: AAS
71 (1979), 495-496; Esort. ap. postsinodale Pastores
dabo vobis (25 marzo 1992), 52: AAS 84
(1992), 750-751. Cfr pure alcuni commenti sulla filosofia di S. Tommaso:
Discorso al Pontificio Ateneo Internazionale Angelicum (17 novembre 1979): Insegnamenti
II, 2 (1979), 1177-1189; Discorso ai partecipanti dell'VIII Congresso
Tomistico Internazionale (13 settembre 1980): Insegnamenti
III, 2 (1980), 604-615; Discorso ai partecipanti al Congresso Internazionale
della Società « San Tommaso » sulla dottrina dell'anima in S. Tommaso (4
gennaio 1986): Insegnamenti IX, 1
(1986), 18-24. Inoltre, S. Congr. per l'Educazione Cattolica, Ratio fundamentalis institutionis sacerdotalis (6 gennaio 1970),
70-75: AAS 62 (1970), 366-368; Decr. Sacra
Theologia (20 gennaio 1972): AAS 64
(1972), 583-586.
(85)
Cfr Cost. past. sulla Chiesa nel mondo contemporaneo Gaudium
et spes, 57; 62.
(86)
Cfr ibid., 44.
(87)
Cfr Conc. Ecum.
Lateranense V, Bolla Apostolici regimini
sollicitudo, Sessione VIII: Conc.
Oecum. Decreta, 1991, 605-606.
(88)
Cfr Conc. Ecum. Vat. II, Cost. dogm. sulla divina Rivelazione Dei
Verbum, 10.
(89)
S. Tommaso d'Aquino, Summa Theologiae,
II-II, 5, 3 ad 2.
(90)
« La ricerca delle condizioni nelle quali l'uomo pone da sé le prime domande
fondamentali sul senso della vita, sul fine che ad essa vuole dare e su ciò che
l'attende dopo la morte, costituisce per la teologia fondamentale il necessario
preambolo, affinché, anche oggi, la fede abbia a mostrare in pienezza il
cammino ad una ragione in ricerca sincera della verità ». Giovanni Paolo II, Lettera
ai partecipanti al Congresso internazionale di Teologia Fondamentale a 125 anni
dalla « Dei Filius » (30 settembre 1995), 4: L'Osservatore Romano, 3 ottobre 1995, p. 8.
(91)
Ibid.
(92)
Cfr Conc. Ecum.
Vat. II, Cost. past. sulla Chiesa nel mondo contemporaneo Gaudium et spes, 15;
Decr.
sull'attività
missionaria della Chiesa Ad gentes, 22.
(93)
S. Tommaso d'Aquino, De Caelo, 1, 22.
(94)
Cfr Conc. Ecum. Vat. II,
Cost. past. sulla Chiesa nel mondo contemporaneo Gaudium
et spes, 53-59.
(95)
S. Agostino, De praedestinatione sanctorum,
2,5: PL 44, 963.
(96)
Id., De fide, spe et caritate, 7: CCL
64, 61.
(97)
Cfr Conc. Ecum. Calcedonense,
Symbolum, Definitio: DS 302.
(98)
Cfr Giovanni Paolo II, Lett. enc. Redemptor hominis (4 marzo 1979), 15: AAS 71 (1979), 286-289.
(99)
Cfr, ad esempio, S. Tommaso d'Aquino, Summa Theologiae, I, 16,1; S. Bonaventura, Coll. in Hex., 3, 8, 1.
(100)
Cost. past. sulla Chiesa nel mondo contemporaneo Gaudium
et spes, 15.
(101)
Cfr Giovanni Paolo II, Lett. enc. Veritatis
splendor (6
agosto 1993), 57-61: AAS 85 (1993),
1179-1182.
(102)
Cfr Conc. Ecum. Vat. I,
Cost. dogm. sulla fede cattolica Dei
Filius, IV: DS 3016.
(103)
Cfr Conc. Ecum. Lateranense
IV, De errore abbatis Ioachim, II: DS
806.
(104)
Cfr Conc. Ecum. Vat. II, Cost. dogm. sulla divina Rivelazione Dei
Verbum, 24; Decr. sulla formazione sacerdotale Optatam
totius, 16.
(105)
Cfr Giovanni Paolo II, Lett. enc. Evangelium vitae (25 marzo 1995), 69: AAS 87 (1995), 481.
(106)
Nello stesso senso scrivevo nella mia prima Lettera enciclica a commento
dell'espressione del Vangelo di S. Giovanni: « Conoscerete la verità e la
verità vi farà liberi » (8, 32): «Queste parole racchiudono una fondamentale
esigenza ed insieme un ammonimento: l'esigenza di un rapporto onesto nei
riguardi della verità, come condizione di un'autentica libertà; e
l'ammonimento, altresì, perché sia evitata qualsiasi libertà apparente, ogni
libertà superficiale e unilaterale, ogni libertà che non penetri tutta la
verità sull'uomo e sul mondo. Anche oggi, dopo duemila anni, il Cristo appare a
noi come Colui che porta all'uomo la libertà basata sulla verità, come Colui
che libera l'uomo da ciò che limita, menoma e quasi spezza alle radici stesse,
nell'anima dell'uomo, nel suo cuore, nella sua coscienza, questa libertà »:
Lett. enc. Redemptor hominis (4 marzo
1979), 12: AAS 71 (1979), 280-281.
(107)
Discorso di apertura del Concilio (11 ottobre 1962): AAS
54 (1962), 792.
(108)
Congr. per la Dottrina della Fede, Istr. sulla vocazione ecclesiale del teologo Donum
veritatis (24 maggio 1990), 7-8: AAS 82
(1990), 1552-1553.
(109)
Ho scritto nell'Enciclica Dominum et vivificantem, commentando Gv 16, 12-13: « Gesù presenta il Consolatore, lo Spirito di verità,
come colui che “insegnerà” e “ricorderà”, come colui che gli “renderà
testimonianza”; ora dice: “Egli vi guiderà alla verità tutta intera”.
Questo “guidare alla verità tutta intera”, in riferimento a ciò di cui gli
Apostoli “per il momento non sono capaci di portare il peso”, è in
necessario collegamento con lo
spogliamento di Cristo per mezzo della passione e morte di croce, che
allora, quando pronunciava queste parole, era ormai imminente. In seguito,
tuttavia, diventa chiaro che quel “guidare alla verità tutta intera” si
ricollega, oltre che allo scandalum Crucis,
anche a tutto ciò che Cristo “fece ed insegnò” (At
1, 1). Infatti, il mysterium Christi nella
sua globalità esige la fede, poiché è questa che introduce opportunamente
l'uomo nella realtà del mistero rivelato. Il “guidare alla verità tutta
intera” si realizza, dunque, nella fede e mediante la fede: il che è opera
dello Spirito di verità ed è frutto della sua azione nell'uomo. Lo Spirito
Santo deve essere in questo la suprema guida dell'uomo, la luce dello spirito
umano »: n. 6: AAS 78 (1986),
815-816.
(110)
Cfr Conc. Ecum. Vat. II,
Cost. dogm. sulla divina Rivelazione Dei
Verbum, 13.
(111)
Cfr Pontificia Commissione Biblica, Istr. sulla verità storica dei Vangeli (21
aprile 1964): AAS 56 (1964), 713.
(112)
« E chiaro che la Chiesa non può essere legata ad un qualunque sistema
filosofico effimero; ma quelle nozioni e quei termini, che con generale consenso
furono composti attraverso parecchi secoli dai dottori cattolici per arrivare a
qualche conoscenza e comprensione del dogma senza dubbio non poggiano su di un
fondamento così caduco. Si appoggiano invece a principi e nozioni dettate da
una vera conoscenza del creato; e nel dedurre queste conoscenze, la verità
rivelata, come una stella, ha illuminato, per mezzo della Chiesa, la mente
umana. Perciò non c'è da meravigliarsi se qualcuna di queste nozioni non solo
sia stata adoperata in Concili Ecumenici, ma vi abbia ricevuto tale sanzione per
cui non ci è lecito allontanarcene »: Lett. enc. Humani
generis (12 agosto 1950): AAS 42
(1950), 566-567; cfr Commissione Teologica Internazionale, Doc. Interpretationis
problema (ottobre 1989): Ench. Vat.
11, nn. 2717-2811.
(113)
« Quanto al significato stesso delle formule dogmatiche, esso nella Chiesa
rimane sempre vero e coerente, anche quando è maggiormente chiarito e meglio
compreso. Devono, quindi, i fedeli rifuggire dall'opinione la quale ritiene che
le formule dogmatiche (o qualche categoria di esse) non possono manifestare la
verità determinatamente, ma solo delle sue approssimazioni cangianti che sono,
in certa maniera, deformazioni e alterazioni della medesima »: S. Congr. per la
Dottrina della Fede, Dich. sulla difesa della dottrina cattolica circa la
Chiesa, Mysterium Ecclesiae (24 giugno 1973), 5: AAS 65 (1973), 403.
(114)
Cfr Congr. S. Officii, Decr. Lamentabili (3 luglio 1907), 26: ASS 40 (1907), 473.
(115)
Cfr Giovanni Paolo II, Discorso al Pontificio Ateneo « Angelicum » (17
novembre 1979), 6: Insegnamenti, II, 2
(1979), 1183-1185.
(116)
N. 32: AAS 85 (1993), 1159-1160.
(117)
Cfr Giovanni Paolo II, Esort. ap. Catechesi tradendae (16 ottobre 1979), 30: AAS 71 (1979), 1302-1303; Congr. per la Dottrina della Fede, Istr.
sulla vocazione ecclesiale del teologo Donum
veritatis (24 maggio 1990), 7: AAS 82
(1990), 1552-1553.
(118)
Cfr Giovanni Paolo II, Esort. ap. Catechesi tradendae (16 ottobre 1979), 30: AAS 71 (1979), 1302-1303.
(119)
Cfr ibid., 22, l. c.,
1295-1296.
(120)
Cfr ibid., 7, l. c., 1282.
(121)
Cfr ibid., 59, l. c., 1325.
(122)
Conc. Ecum. Vat. I, Cost. dogm. sulla fede cattolica Dei
Filius, IV: DS 3019.
(123)
« Nessuno può fare della teologia quasi che fosse una semplice raccolta dei
propri concetti personali; ma ognuno deve essere consapevole di rimanere in
stretta unione con quella missione di insegnare la verità, di cui è
responsabile la Chiesa »: Giovanni Paolo II, Lett. enc. Redemptor
hominis (4 marzo 1979), 19: AAS 71
(1979), 308.
(124)
Cfr Conc. Ecum. Vat. II, Dich. sulla libertà religiosa Dignitatis
humanae, 1-3.
(125)
Cfr Esort. ap. Evangelii nuntiandi (8
dicembre 1975), 20: AAS 68 (1976),
18-19.
(126)
Cost. past sulla Chiesa nel mondo contemporaneo Gaudium
et spes, 92.
(127)
Cfr ibid., 10.
(128)
Prologus, 4: Opera omnia, Firenze
1891, t. V, 296.
(129)
Cfr Conc. Ecum. Vat. II,
Decr. sulla formazione sacerdotale Optatam
totius, 15.
(130)
Cfr Giovanni Paolo II, Cost. ap. Sapientia christiana (15 aprile 1979), artt. 67-68: AAS
71 (1979), 491-492.
(131)
Giovanni Paolo II, Discorso all'Università di Cracovia per il 600o anniversario
dell'Alma Mater Jagellonica (8 giugno 1997), 4: L'Osservatore
Romano, 9-10 giugno 1997, p. 12.
(132)
« 'e noerà tes písteos tràpeza »: Omelia in lode di Santa Maria Madre di Dio, dello pseudo Epifanio: PG
43, 493.
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