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Introdotta dall’arcivescovo Dolan
la giornata di preghiera e di riflessione
convocata dal Papa
per il Collegio cardinalizio



Come bambini
per dire la fede al mondo

Aula nuova del Sinodo - 17 febbraio 2012
 



Pubblichiamo ampi stralci della relazione che l’arcivescovo di New York, monsignor Timothy Michael Dolan, ha tenuto venerdì mattina, 17 febbraio, nell’Aula nuova del Sinodo, per introdurre la giornata di preghiera e riflessione convocata dal Papa per i membri del Collegio cardinalizio e i nuovi cardinali in occasione del concistoro di sabato 18.  


Risale all’ultimo comando di Gesù, «Andate, ammaestrate tutte le genti!», ma è tanto attuale quanto la Parola di Dio che abbiamo ascoltato nella liturgia stamattina...

Mi riferisco al sacro dovere della nuova evangelizzazione. È «sempre antica, sempre nuova». Il come, il quando, e il dove possono cambiare, ma il mandato rimane lo stesso, così come il messaggio e l’ispirazione: «Gesù Cristo... lo stesso ieri e oggi e nei secoli».

Noi accogliamo l’insegnamento del concilio Vaticano II, specialmente come viene espresso nei documenti
Lumen gentium, Gaudium et spes, e Ad gentes, che specificano più precisamente come la Chiesa intenda il proprio dovere evangelico, definendo l’intera Chiesa come missionaria; vale a dire che tutti i cristiani, in virtù del battesimo, la cresima e l’Eucaristia, sono evangelizzatori.

 Una sfida enorme, sia alla missio ad gentes che alla nuova evangelizzazione, è il cosidetto secolarismo.

Questa secolarizzazione ci chiama ad un’efficace strategia di evangelizzazione. Permettetemi di esporla in sette punti:

1. A dire la verità, nell’invitarmi a parlare su questo tema – «L’annuncio del Vangelo oggi: tra
missio ad gentes e la nuova evangelizzazione» – l’eminentissimo segretario di Stato mi ha chiesto di contestualizzare il secolarismo, lasciando intendere che la mia arcidiocesi di New York è forse «la capitale della cultura secolarizzata».

Però — e credo che il mio amico e confratello, il cardinale Edwin O’Brien, che è cresciuto a New York, sarà d’accordo — oserei dire che New York, sebbene dia l’impressione di essere secolarizzata, è ciononostante una città molto religiosa.

Anche in luoghi che solitamente vengono classificati come «materialistici» — come ad esempio i mass media, il mondo dello spettacolo, della finanza, della politica, dell’arte, della letteratura — troviamo un’innegabile apertura alla trascendenza, al divino!

I cardinali che servono Gesù e la sua Chiesa nella Curia romana possono ricordarsi del discorso natalizio di Sua Santità due anni fa, nel quale ha celebrato quest’apertura naturale al divino anche in quelli che si vantano di aderire al secolarismo:

«... Considero importante soprattutto il fatto che anche le persone che si ritengono agnostiche o atee, devono stare a cuore a noi come credenti. Quando parliamo di una nuova evangelizzazione, queste persone forse si spaventano. Non vogliono vedere se stesse come oggetto di missione, né rinunciare alla loro libertà di pensiero e di volontà. Ma la questione circa Dio rimane tuttavia presente anche per loro... Come primo passo dell’evangelizzazione dobbiamo cercare di tenere desta tale ricerca; dobbiamo preoccuparci che l’uomo non accantoni la questione su Dio come questione essenziale della sua esistenza. Preoccuparci perché egli accetti tale questione e la nostalgia che in essa si nasconde... Io penso che la Chiesa dovrebbe anche oggi aprire una sorta di “atrio dei gentili” dove gli uomini possano in una qualche maniera agganciarsi a Dio, senza conoscerlo e prima che abbiano trovato l’accesso al suo mistero, al cui servizio sta la vita interna della Chiesa».

Questo è il mio primo punto: noi condividiamo la convinzione dei filosofi e dei poeti del passato, i quali non avevano il vantaggio di aver ricevuto la rivelazione. E cioè che anche una persona che si vanta di aderire al secolarismo e di disprezzare le religioni, ha dentro di sé una scintilla d’interesse nell’aldilà, e riconosce che l’umanità e il creato sarebbero un enigma assurdo senza un qualche concetto di “creatore”.

Nei cinema c’è adesso un film intitolato
The Way — «la Via» — in cui uno dei protagonisti è un attore ben conosciuto, Martin Sheen. Forse l’avete visto.

Lui recita la parte di un padre, il cui figlio estraniato muore mentre percorre il cammino di Santiago de Compostela in Spagna. Il padre angosciato decide di portare a termine il pellegrinaggio al posto del figlio perduto. Egli è l’icona di un uomo secolare: compiaciuto di sé, sprezzante nei confronti di Dio e della religione, uno che si definisce un «ex–cattolico», cinico verso la fede ... ma, nondimeno, incapace di negare che dentro di sé vi sia un interesse incontenibile di conoscere l’aldilà, una sete di qualcosa in più — anzi, un qualcuno di più — che cresce in lui lungo la strada.

Sì, potremmo prendere in prestito quello che gli apostoli dicono a Gesù nel Vangelo della domenica scorsa: «tutti ti cercano»!

E ti stanno cercando ancora oggi...

2. Ciò mi porta al secondo punto: questo fatto ci dà una fiducia immensa e un coraggio determinato per compiere il sacro dovere della missione e della nuova evangelizzazione.

«Non abbiate paura», come dicono, è l’esortazione più ripetuta nella Bibbia.

Dopo il concilio, la bella notizia era che il trionfalismo nella Chiesa era morto.

Ma, purtroppo anche la fiducia!

Noi siamo convinti, fiduciosi, e coraggiosi nella nuova evangelizzazione grazie al potere della Persona che ci ha affidato questa missione — si dà il caso che egli sia la seconda Persona della Santissima Trinità — e grazie alla verità del suo messaggio e la profonda apertura al divino, pure nelle persone più secolarizzate nella nostra società odierna.

Sicuri, sì!

Trionfalisti, mai!

Quello che ci tiene alla larga dall’arroganza e dalla superbia del trionfalismo è il riconoscimento di ciò che ci ha insegnato Papa Paolo VI nella Evangelii nuntiandi: la Chiesa stessa ha sempre bisogno di essere evangelizzata!

Ciò ci dà l’umiltà di ammettere che nemo dat quod non habet, che la Chiesa ha il profondo bisogno di una conversione interiore, il midollo della chiamata alla evangelizzazione.

3. Un terzo elemento di una missio efficace è la consapevolezza che Dio non disseta la sete del cuore umano con un concetto, ma tramite una Persona, che si chiama Gesù.

L’invito implicito nella missio ad gentes e la nuova evangelizzazione non è una dottrina, ma un appello a conoscere, amare e servire — non qualcosa, ma qualcuno.

Beatissimo Padre, quando lei ha iniziato il suo Pontificato, ci ha invitato ad una amicizia con Gesù, espressione con cui lei ha definito la santità.

È l’amore di una Persona, un rapporto personale che è all’origine della nostra fede.

Come scrisse sant’Agostino: «Ex una sane doctrina impressam fidem credentium cordibus singulorum qui hoc idem credunt verissime dicimus, sed aliud sunt ea quae creduntur, aliud fides
qua creduntur» (De Trinitate, XIII, 2.5)

4. Ed ecco il quarto punto: questa Persona, questo Gesù di Nazaret, ci dice che Egli è la verità.

Perciò, la nostra missione ha una sostanza, un contenuto. A venti anni dalla pubblicazione del
Catechismo della Chiesa Cattolica, nel cinquantesimo anniversario dell’apertura del concilio Vaticano II, e alla soglia di quest’Anno della fede, siamo davanti alla sfida di combattere l’analfabatismo catechetico.

 

È vero che la nuova evangelizzazione è urgente perché qualche volta il secolarismo ha soffocato il granello della fede; ma ciò è stato possibile perché molti credenti non avevano il minimo idea della sapienza, la bellezza, e la coerenza della Verità.

Sua Eminenza il cardinale George Pell ha osservato che «non è tanto vero che la gente abbia perso la loro fede, quanto che non la aveva sin dall’inizio; e se l’aveva in qualche modo, era così insignificante che gli poteva essere strappata molto facilmente».

Ecco perché il cardinale Avery Dulles ci ha chiamato ad una neoapologetica, non radicata in vuote polemiche, ma nella Verità che ha un nome, Gesù.

Allo stesso modo, quando il beato John Henry Newman ricevette il biglietto di nomina al Collegio cardinalizio, ci mise in guardia sui pericoli del liberalismo in religione, cioè, «la dottrina secondo cui non c’è alcuna verità positiva nella religione, ma un credo vale quanto un altro... la religione rivelata non è una verità, ma un sentimento e una preferenza personale».

Quando Gesù ci dice «Io sono la Verità», dice anche di essere «la Via e la Vita».

La Via di Gesù è all’interno e attraverso la Sua Chiesa come una Madre Santa che ci dona la vita del Signore.

«Come avrei conosciuto Lui se non per Lei?» chiede de Lubac, facendo allusione al rapporto inscindibile tra Gesù e la Sua Chiesa.

Di conseguenza, la nostra missione, questa nuova evangelizzazione, ha delle dimensioni catechetiche ed ecclesiali.

Questo ci spinge a pensare la Chiesa in un modo rinnovato: a concepirla come una missione stessa. Come ci ha insegnato il beato Giovanni Paolo II nella
Redemptoris missio, la Chiesa non ha una missione, come se la «missione» fosse una cosa tra molte che la Chiesa fa. No, la Chiesa è una missione, e ciascuno di noi che riconosce Gesù come Signore e Salvatore dovrebbe interrogarsi sulla efficacia propria nella missione.

In questi ultimi cinquant’anni dalla apertura del concilio, abbiamo visto la Chiesa passare per le ultime fasi della Controriforma e riscoprirsi come un’opera missionaria. In qualche luogo ciò ha significato una nuova scoperta del Vangelo. In Paesi già cristiani ha comportato una rievangelizzazione che abbandona le acque stagnanti della conservazione istituzionale e come Giovanni Paolo II ha insegnato nella Novo millennio ineunte, ci invita a prendere il largo per una pesca efficace.

In molti dei Paesi qui rappresentati, la cultura e l’ambiente sociale una volta trasmetteva il vangelo, ma oggi non è più così. Ora dunque l’annuncio del Vangelo — l’esplicito invito a entrare nell’amicizia del Signore Gesù — deve essere al centro della vita cattolica e di tutti i cattolici. Ma in ogni occasione, il concilio Vaticano II e i grandi Papi che ne hanno dato interpretazione autorevole, ci spingono a chiamare la nostra gente a pensarsi come una schiera di missionari ed evangelizzatori.

5. Quando ero seminarista al Collegio Nordamericano tutti gli studenti di teologia del primo anno di tutti gli atenei romani furono invitati a una messa in San Pietro celebrata dal prefetto della Congregazione per il Clero, il cardinale John Wright.

Ci aspettavamo una omelia cerebrale. Ma lui iniziò chiedendoci: «Seminaristi, fate a me e alla Chiesa un favore: quando girate per le strade di Roma, sorridete!».

Così, punto cinque: il missionario, l’evangelizzatore, deve essere una persona di gioia.

«La gioia è il segno infallibile della presenza di Dio», afferma Leon Bloy.

Quando sono diventato arcivescovo di New York un prete mi ha detto: «Faresti meglio a smetterla di sorridere quando giri per le strade di Manhattan o finirai per farti arrestare!».

Un malato terminale di Aids alla casa Dono della Pace tenuta dalle missionarie della Carità, nell’arcidiocesi di Washington del cardinale Donald Wuerl, ha chiesto il battesimo. Quando il sacerdote gli ha chiesto una espressione di fede lui ha mormorato: «quello che so è che io sono infelice, e le suore invece sono molto felici anche quando le insulto e sputo loro addosso. Ieri finalmente ho chiesto loro il motivo della loro felicità. Esse hanno risposto: “Gesù”. Io voglio questo Gesù così posso essere felice anche io». Un autentico atto di fede, vero?
La nuova evangelizzazione si compie con il sorriso, non con il volto accigliato. La missio ad gentes è fondamentalmente un sì a tutto ciò che di dignitoso, buono, vero, bello e nobile c’è nella persona umana. La Chiesa è fondamentalmente un “sì!”, non un “no!”.

6. E, penultimo punto, la nuova evangelizzazione, è un atto di amore.

Recentemente hanno chiesto al nostro confratello John Thomas Kattrukudiyil, vescovo di Itanagar, nel nordest dell’India, il motivo della enorme crescita della Chiesa nella sua diocesi, che registra oltre dieci mila conversioni adulte l’anno.

«Perché noi presentiamo Dio come un Padre amorevole, e perché la gente vede che la Chiesa li ama» ha risposto. Non un amore etereo, ha aggiunto, ma un amore incarnato in meravigliose scuole per bambini, cliniche per i malati, case per gli anziani, centri accoglienza per gli orfani, cibo per gli affamati.

A New York anche il cuore del più convinto laicista si intenerisce quando visita una delle nostre scuole cattoliche della città. Quando uno dei nostri benefattori, che si definiva agnostico, ha chiesto a suor Michelle perché alla sua età con i dolori di artrite che aveva alle ginocchia continuasse a lavorare in una bella ma assai impegnativa scuola, lei ha risposto: «Perché Dio mi ama e io lo amo e voglio che questi bambini scoprano questo amore».

7. Gioia, amore e... ultimo punto... mi spiace doverlo dire, il sangue. Domani, ventidue di noi udranno quello che la maggior parte di voi ha già udito:

«A gloria di Dio e ad onore della Sede Apostolica ricevi questa berretta, segno della dignità cardinalizia. Sappi che dovrai desiderare di comportarti con fortezza fino allo spargimento del tuo sangue: per la diffusione della fede cristiana, la pace e la tranquillità del popolo di Dio, e la libertà e la crescita della Santa Romana Chiesa».

Beatissimo Padre, potrebbe, per favore, saltare «fino allo spargimento del tuo sangue» quando mi presenterà la berretta?

Ovviamente no! Ma noi siamo audiovisivi scarlatti per tutti i nostri fratelli e sorelle anche essi chiamati a soffrire e morire per Gesù.

Fu Paolo VI a notare saggiamente che l’uomo moderno impara più dai testimoni che dai maestri, e la suprema testimonianza è il martirio.

Oggi, tristemente, abbiamo martiri in abbondanza.

Grazie Padre Santo, perché ci ricorda così spesso coloro che oggi soffrono la persecuzione a causa della loro fede in tutto il mondo.

Grazie cardinale Koch, perché ogni anno chiami la Chiesa al «giorno di solidarietà» con i perseguitati a causa del vangelo, e per l’invito ai nostri interlocutori nell’ecumenismo e nel dialogo interreligioso ad un «ecumenismo nel martirio».

Mentre piangiamo i cristiani martiri; mentre li amiamo, preghiamo con e per loro; mentre interveniamo con forza in loro difesa, noi siamo anche molto fieri di essi, ci vantiamo in essi e annunciamo la loro suprema testimonianza al mondo.

Essi accendono la scintilla della missio ad gentes della nuova evangelizzazione.

Un giovane a New York mi ha detto di essere ritornato alla fede cattolica, abbandonata nell’adolescenza, dopo aver letto I monaci di Tibhirine , sui trappisti martirizzati in Algeria quindici anni fa, e aver visto la loro storia nel film francese Uomini di Dio.

Tertulliano non si sarebbe sorpreso.

Grazie a voi, Santo Padre e confratelli, per aver sopportato il mio italiano primordiale. Quando il cardinale Bertone mi ha chiesto di parlare in italiano, mi sono preoccupato perché io parlo italiano come un bambino. Ma poi ho ricordato quando, da giovane prete fresco di ordinazione, il mio primo pastore mi disse mentre andavo a fare catechismo ai bambini di sei anni: «ora vedremo che fine farà tutta la tua teologia — e se riesci a parlare della fede come un bambino!».

E forse conviene concludere proprio con questo pensiero: abbiamo bisogno di dire di nuovo come un bambino la eterna verità, la bellezza e la semplicità di Gesù e della sua Chiesa.


© L'Osservatore Romano 18 febbraio 2012

 

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