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Incontro col Clero

Meditazione del Patriarca di Venezia

mons. Francesco Moraglia

Basilica Cattedrale di San Marco, 29 marzo 2012

 

 

Il presbitero o ministro ordinato, al di là del particolare ufficio che svolge nella Chiesa, esprime il suo essere specifico - ossia, il suo essere immagina di Cristo-capo a servizio della Chiesa - attraverso la carità pastorale. Sì, la carità pastorale sulla quale con voi desidero riflettere in questo nostro incontro che, per la prima volta, ci vede insieme in un momento di preghiera. Che cos’è la carità pastorale? Qual è il significato della carità pastorale? In che cosa si caratterizza rispetto al vincolo della comune carità che, ovviamente, il presbitero condivide con gli altri membri del popolo di Dio? La carità pastorale è una forma specifica d’amore, se preferite un modo particolare d’amare proprio del sacerdote ordinato. Si tratta di un dono di sé che inerisce, vale a dire si radica, nella realtà sacramentale in cui il presbitero viene costituito nel momento dell’ordinazione; la carità pastorale deve intendersi in tale modo; e il Direttorio per il ministero e la vita dei presbiteri, proprio circa la carità pastorale, si serve di queste parole: «costituisce il principio interiore e dinamico capace di unificare le molteplici e diverse attività pastorali del presbitero e, dato il contesto socio-culturale e religioso nel quale vive, è strumento indispensabile per portare gli uomini alla vita della Grazia» (n. 43).

Quindi ogni gesto, ogni parola del presbitero devono essere segnati da questa carità pastorale, in modo tale che egli giunga al dono totale di sé, andando oltre la dedizione di quanti anche con grande generosità s’impegnano nella loro attività lavorativa o professione. La carità pastorale non è qualcosa che s’improvvisa nella vita del presbitero o una conquista che si raggiunge una volta per sempre; piuttosto è qualcosa che inerendo allo stato sacerdotale non è destinata a venir meno anche quando, per motivi di salute o età, si viene sgravati - per il bene proprio e della comunità a cui fino ad allora si è servito - da determinati, concreti incarichi pastorali (cfr. n. 43); muterà, piuttosto, il modo d’esercitarla.

Il pensiero riguardante la carità pastorale si chiarisce se si legge quanto il Direttorio afferma a proposito del funzionalismo che corrisponde e bene esprime una logica propria della nostra società, del nostro tempo, della nostra cultura. Quindi il presbitero, che ovviamente è uomo immerso nella società, nella cultura del suo tempo, è facilmente esposto a pensare il proprio sacerdozio e vivere il ministero e la vita in maniera funzionale. Una vita intesa secondo i parametri dell’efficientismo del mondo, un’esistenza sotto il segno del “mordi e fuggi”, perché intanto quello che vale oggi domani sarà già superato; ciò che conta, infatti, è l’apparire e l’essere visti. Così, mentre si esercita una professione, ossia si fa il medico, il magistrato, l’operaio o l’impiegato, diversamente preti lo si è e lo si è per sempre; quindi non è corretto domandarsi: che cosa fa il prete? Ma, piuttosto: chi è il prete?  Quindi non che cosa fa?  Ma: chi è il prete? La prospettiva cambia in modo radicale. Anche una domanda può esser posta in modo più o meno pertinente e da essa dipende una risposta; certo è lecito domandarsi anche: che cosa fa il prete? Ma sempre alla luce dell’altra domanda fondante, che deve rimanere sullo sfondo: chi è il prete?

Proprio secondo questa elementare ma chiarificatrice domanda - non cosa fa il prete? ma chi è il prete? - leggiamo il n. 44 del Direttorio a proposito del funzionalismo: «La carità pastorale corre, oggi soprattutto, il pericolo d’essere svuotata del suo significato dal cosiddetto funzionalismo. Non è raro, infatti, percepire, anche in alcuni sacerdoti, l’influsso di una mentalità che tende erroneamente a ridurre il sacerdozio ministeriale ai soli aspetti funzionali. ‘Fare’ il prete, svolgere singoli servizi e garantire alcune prestazioni d’opera sarebbe il tutto dell’esistenza sacerdotale. Tale concezione riduttiva dell’identità e del ministero sacerdotale, rischia di spingere la vita di questi verso un vuoto, che viene spesso riempito da forme di vita non consone al proprio ministero. Il sacerdote che sa d’essere ministro di Cristo e della sua Sposa troverà nella preghiera, nello studio e nella lettura spirituale la forza necessaria per vincere anche questo pericolo» (n. 44).

Così la carità pastorale è intesa come “amore”, ossia dono di sé, ma sempre a partire dal sacramento dell’ordine e, conseguentemente, dalla realtà concreta del ministero che, appunto, attraverso l’ordinazione presbiterale, si connette intrinsecamente e indelebilmente alla realtà sacramentale. Insomma il modo d’amare, di servire, di pazientare, di perdonare, non potrà mai prescindere dall’essere presbiteri, ossia chiamati a servire i fratelli, rendendo loro presente attraverso parole e gesti di Cristo e della Chiesa, il Signore Gesù. Un padre, una madre amano il figlio in forza della loro paternità e maternità, in quanto appunto sono padre e madre e perché quel bambino è loro figlio; essi lo amano non perché egli si merita il loro amore e se anche il figlio si meritasse il loro amore, il padre e la madre lo amerebbero prima e a prescindere da questo suo merito e dalle sue doti. Io lo amo - sarebbe la risposta di quel papà e di quella mamma -, perché sono suo padre, perché sono sua madre; lo amo perché è mio figlio; anzi più un figlio è fragile e in difficoltà più i genitori, proprio per questa fragilità o per le sue difficoltà, lo amano di più.

Risaliamo all’inizio del ministero ordinato, ossia a quando Gesù trasmette il suo servizio/potere di Risorto alla Chiesa; il Vangelo di Giovanni narra la conferma del conferimento del primato - la pienezza del  servizio/potere sacerdotale - a Pietro sulle rive del lago di Tiberiade (Gv 21, 15-23). Conosciamo il testo giovanneo; per ben tre volte Gesù si rivolge a Pietro e condiziona il conferimento del servizio/potere di pascere le pecore alla risposta di Pietro che per tre volte risponde alla domanda di Gesù: sì, Signore ti amo; solo la terza volta Gesù lo costituisce suo vicario nel compito di pascere il gregge che è la Chiesa. Così, alla fine, è proprio l’amore che dice la genuina appartenenza del sacerdote ordinato al ministero del Signore, il buon pastore, cioè alla persona di Gesù capo, al quale serviamo “rendendolo presente” - questo è lo specifico sacerdotale -; così, alla fine, è ancora l’amore a dire la nostra evangelica appartenenza alle persone alle quali siamo stati mandati.

Il vangelo di Giovanni (cfr. Gv 10, 1-18) delinea le caratteristiche del buon pastore e quelle del mercenario. Le pecore ascoltano la voce del buon Pastore che le guida una a una e le conduce; il buon pastore, poi, offre la vita per le sue pecore. Invece il mercenario, cui le pecore non appartengono, vede venire il lupo e scappa. La carità pastorale è quindi un amore che si lega strettamente e si esprime a partire dal sacerdozio ordinato e si vive nel proprio ministero quotidiano e conduce non dove vogliamo noi ma dove siamo mandati. Un amore che mette in campo una volontà di dono totale, una dedizione e una capacità di sacrificio che, di volta in volta, si esprimono a partire dal nostro essere sacerdotale. Il presbitero, al momento dell’ordinazione sacerdotale, s’impegna liberamente a questo tipo di amore, non a qualcosa di meno, non a qualcosa di diverso. Ricordiamo: il nostro modo d’amare, da quando siamo diventati preti non può prescindere, non può non modellarsi o misurarsi sulla carità pastorale.

Verifichiamo tale caratteristica fondante del nostro sacerdozio; facciamolo sotto la guida di un confratello che sia guida saggia, uomo veramente spirituale; infatti anche i preti e i vescovi hanno bisogno della direzione spirituale. Quello che è un impegno assunto liberamente dinanzi a noi stessi, a Dio, alla Chiesa è, innanzitutto, conseguenza strettamente connessa al sacramento dell’ordine. Cerco di spiegarmi, e lo faccio citando la Pastores dabo vobis, laddove Giovanni Paolo II annota: «In quanto rappresenta Cristo capo, pastore e sposo della Chiesa, il sacerdote si pone non soltanto nella chiesa ma anche di fronte alla chiesa. Il sacerdozio, unitamente alla parola di Dio e ai segni sacramentali di cui è al servizio, appartiene agli elementi costitutivi della chiesa. Il ministero del presbitero è totalmente a favore della Chiesa; è per la promozione dell’esercizio del sacerdozio comune di tutto il popolo di Dio; è ordinato non solo alla chiesa particolare, ma anche alla chiesa universale (Presbyterorum Ordinis, 10), in comunione con il vescovo, con Pietro e sotto Pietro. Mediante il sacerdozio del Vescovo, il sacerdozio di secondo ordine è incorporato nella struttura apostolica della chiesa. Così il presbitero come gli apostoli funge da ambasciatore per Cristo (cfr. 2Cor 5, 20). In questo si fonda l’indole missionaria di ogni sacerdote» (n. 16).

Per vivere le promesse dell’ordinazione si richiede, allora, una precisa disposizione del cuore insieme a una testimonianza chiaramente percepibile e ben visibile; infatti, il prete, come ogni uomo, è fatto d’interiorità  e di esteriorità. L’amore pastorale chiede di occuparci dell’altro, degli altri, della comunità a prescindere dai motivi umani e a farcene carico con amore. Ciò avviene anche attraverso azioni esteriori che, talvolta, però, potrebbero finire per esercitarsi non più per quell’affetto intimo del cuore che chiamiamo il desiderio delle salvezza della anime, ma per altri motivi che possono essere - di volta in volta - per alcuni abitudine, per altri esteriorità giuridica, timore d’essere criticati o rimproverati, desiderio di essere considerati dagli altri, voglia di primeggiare, o per interesse personale o perché, per determinate questioni, si può avere una propensione personale (ci piace farle).

Dobbiamo chiederci, allora, quale è il motivo ultimo, il motivo vero del nostro operare pastorale. Talvolta si deve constatare che non soltanto viene meno il motivo interiore, ma anche l’esercizio esteriore del nostro operare. Ad esempio quando noi - ordinati sacerdoti per il servizio pastorale, a servizio della Chiesa - a un certo punto “pretendiamo” per un incarico particolare o ci dichiariamo inabili, incapaci, stanchi o non adatti ad un determinato servizio. Ci dichiariamo inabili, incapaci, stanchi, non adatti perché quel servizio impone un impegno faticoso e una logorante dedizione nella predicazione, nell’ascoltare le confessioni, nella pastorale giovanile; in più infine ci viene richiesto attenzione e responsabilità. Così, poco alla volta, se non vigiliamo su di noi, finiamo per autocostruire - prima nel pensiero e poi con atti apparentemente innocenti - il programma della nostra vita sacerdotale, dove se non ci si lascia portare, c’è molto di nostro, del nostro gusto personale e sempre meno di quello spirito di servizio, di dedizione, d’amore, di offerta di noi stessi da cui il nostro sacerdozio era partito e di cui forse si è svuotato. Questo, concretamente, è il modo in cui ci distogliamo dapprima e poi ci sottraiamo alla carità pastorale abbandonando il nostro posto. Ciò può avvenire anche rimanendo formalmente all’interno del servizio che ci è stato richiesto, del compito che ci è stato assegnato. In genere lo si interpreta - si dice - in modo più originale, poi si finisce per adattarlo al proprio tranquillo compiacimento e non siamo più disposti ad adattarci all’esigenze dell’ufficio ma è l’ufficio che deve adattarsi a noi; e si finisce per auto-convincerci che è bene così!

Mi servo di un esempio che appartiene alla terminologia evangelica con cui Gesù parla del ministero ordinato ai primi chiamati: amiamo più le nostre reti e le nostre barche che non il pescare, la fatica e l’impegno della pesca (cfr Lc 5, 9). Fuori di metafora, si rischia d’amare più le opere, i titoli accademici, le nostre pubblicazioni, le strutture che abbiamo costituito e ci circondano e servono alla nostra attività pastorale che non il fine per cui quelle cose sono state costituite, ossia le anime. Il rischio è essere organizzatori, impresari, docenti, intellettuali, psicologi, assistenti sociali e non pastori. Altri atteggiamenti che configgono con la carità pastorale sono quelli che fanno in modo che il pastore si serva del pulpito per dire qualcosa che non ha o ha poco a che fare col Vangelo: per esempio parlare di sé, “togliersi dei sassolini dalle scarpe”; con il desiderio di correggere l’errore, si finisce invece per offendere l’errante. Insomma ogni pastore, proprio in nome della carità pastorale, deve interrogarsi se il suo silenzio è di comodo o addirittura colpevole e se il suo parlare è mancanza d’amore, di pazienza o di fortezza o, ancora, espressione di malumore interiore.

Questo esame di coscienza franco, sereno, con un po’ di misericordia nei nostri confronti, ci aiuta a comprendere se siamo uomini e preti liberi; tale revisione potrebbe iniziarsi - come detto - chiedendo aiuto a un confratello del quale abbiamo stima e che sappiamo persona capace di dire la verità con amore e che sa amare con verità; le due cose sono essenziali al presbitero; un presbitero dovrebbe essere capace di parlare di tutto con tutti senza offendere nessuno, pur proferendo parole di verità. Sono certo, e spero di poterne fare presto esperienza, che nel nostro presbiterio esiste una diffusa e radicata carità pastorale, sia nei giovani sacerdoti, sia negli anziani; forse, però, non ne abbiamo sempre la dovuta consapevolezza. Quando c’è vera carità pastorale non c’è situazione che possa diventare ostacolo insuperabile, anche l’età avanzata, la salute declinante, una prova imprevista, la richiesta di un’obbedienza impegnativa non ostacolano la carità pastorale ma, al contrario, la evidenziano. E la carità pastorale, per ogni presbitero, rappresenta una vera  benedizione e una grande ricchezza per lui e per la sua comunità.

Interrogarsi se tra le pieghe della nostra anima qualcosa limiti o blocchi la nostra personale carità pastorale è ciò su cui ognuno di noi - anche a proposito di ciò che non è stato detto - deve riflettere di fronte al Signore. Proprio, il curato d’Ars, Giovanni Maria Vianney, ci viene incontro con la sua gigantesca carità pastorale; Lui che non aveva troppi doni e doti personali e che visse anni, quelli della prima metà dell’ottocento, dopo la rivoluzione francese e gli anni di Napoleone, problematici e dolorosi per la Chiesa in Francia.


 

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