302.
Duplice valore del precetto
Il
Parroco insegni anzitutto che il primo posto nel Decalogo spetta ai
comandamenti che riguardano Dio; il secondo, a quelli che riguardano il
prossimo; perché quanto facciamo al prossimo ha la sua ragione in Dio.
Amiamo infatti il prossimo secondo lo spirito del comando divino, quando
lo amiamo per amore di Dio. E tali precetti riguardanti Iddio sono
formulati nella prima tavola. In secondo luogo spiegherà come nella
formula surriferita è racchiuso un duplice comando: il primo positivo,
l'altro negativo, poiché il comando: Non avrai altro Dio fuori che me,
contiene anche l'aggiunta: rispetterai me come vero Dio, né presterai
ossequio ad altri dèi.
Nella prima parte, a loro volta, sono impliciti i precetti della fede,
della speranza, e della carità. Dicendo che Dio è immobile, immutabile,
lo riconosciamo, a buon diritto, sempre uguale a se stesso e verace:
dunque è necessario che, aderendo ai suoi oracoli, prestiamo pieno
assenso alla sua autorità. Considerando poi la sua onnipotenza, la sua
clemenza, la sua facilità a beneficare, come potremmo non riporre in lui
tutte le nostre speranze? E, contemplando le ricchezze della sua bontà e
del suo amore riversate su di noi, potremmo non amarlo? Di qui il
preambolo e la conclusione che, nel formulare comandi, Dio usa
costantemente nella Scrittura: Io, il Signore.
Ecco, poi, la seconda parte del comandamento: Non avrai altro Dio fuori
che me. Il Legislatore ha usato tale formula non perché tale verità non
fosse sufficientemente chiara nel precetto positivo: Onorerai me come
solo Dio; poiché se è Dio, è unico; ma per la cecità dei moltissimi, che
un tempo, pur credendo di venerare il vero Dio, prestavano culto a una
moltitudine di dèi. Di tali ve ne furono molti pure tra gli Ebrei che,
secondo il rimprovero di Elia, zoppicavano da due lati. Tali furono pure
i Samaritani che onoravano contemporaneamente il Dio d'Israele e le
divinità dei Pagani.
Spiegato ciò, il Parroco farà rilevare che questo è, fra tutti i
comandamenti, il primo e più importante; non già per ordine di sola
precedenza, ma per i suoi motivi, per la sua dignità, e la sua
eccellenza. Dio infatti deve riscuotere da noi un affetto e un ossequio
infinitamente maggiori di quelli a cui possano aver diritto re e
padroni. Egli ci ha creati, ci governa, ci ha nutriti fin da quando
eravamo nel seno di nostra madre, ci ha tratto alla luce; Egli ci
fornisce il necessario alla vita e all'alimentazione.
Mancano a codesto comandamento coloro che non hanno fede, speranza e
carità; e sono tanti! Infatti rientrano in questa categoria gli eretici,
gli increduli circa le verità proposte dalla Chiesa, nostra santa madre;
coloro che prestano fede ai sogni, ai presagi e a tutte le altre vane
fantasie; quelli che perdono la speranza della propria salvezza,
cessando di confidare nella divina bontà; coloro, infine, che contano
unicamente sulle ricchezze, sulla salute e sulle forze del corpo. Questa
materia è più largamente spiegata da coloro che hanno scritto intorno ai
vizi e ai peccati.
303.
Legittimità del culto dei Santi
Spiegando questo precetto, il Parroco insista nel mostrare come la
venerazione e la invocazione dei santi angeli e delle anime beate
ammesse al godimento della gloria celeste, oppure il culto dei corpi e
delle ceneri dei santi, sempre ammesso dalla Chiesa cattolica, non lo
trasgredisce. Sarebbe folle il supporre che, vietando il re a chiunque
altro di prendere il proprio posto e di esigere onore e rispetto reali,
per questo imponga di non tributare ossequio ai suoi magistrati. Si
dice, è vero, che i cristiani adorano gli angeli, seguendo le orme dei
santi dell'antico Testamento; ma non tributano loro la medesima
venerazione attribuita a Dio. Che se leggiamo di angeli che talvolta
hanno rifiutato la venerazione umana, si deve intendere che non vollero
si mostrasse loro quell'ossequio che è dovuto unicamente a Dio (Ap
19,10 Ap 22,9). Il medesimo Spirito santo il quale proclama: A Dio
solo onore e gloria (1Tm 1,17), comanda di circondare di onore i
genitori e gli anziani (Ex 20,12 Dt 5,16 Lv 19,32).
Del resto, uomini santi che rispettavano l'unico vero Dio, adoravano,
secondo la testimonianza biblica, i sovrani, vale a dire s'inchinavano
supplichevoli dinanzi a loro (Gn 23,7-12 1S 24,9). Ora, se sono
cosi onorati i re, per mezzo dei quali Dio governa il mondo, agli
spiriti angelici, della cui opera Dio si serve per reggere non solo la
sua Chiesa ma tutto l'universo, e che ci aiutano a liberarci ogni giorno
dai più grandi pericoli dell'anima e del corpo, anche se non si mostrano
visibili a noi, non renderemo un onore tanto più grande quanto più alta
è la dignità di quelle intelligenze beate di fronte alla maestà dei
regnanti?
Si tenga conto, inoltre, dell'intensa carità con cui essi ci amano.
Ispirati da questa effondono preghiere, secondo la chiara testimonianza
della Scrittura (Da 10,13), per le regioni cui sono preposti, ed
assistono senza dubbio coloro dei quali sono custodi, offrendo le nostre
preci e le nostre lacrime a Dio. Non disse forse il Signore nel Vangelo:
Guai a coloro che scandalizzano i bambini, perché gli angeli vedono
sempre il volto del Padre che è nei cieli? (Mt 18,6). Essi dunque
si devono invocare, poiché sono continuamente al cospetto di Dio, e
assumono ben volentieri il patrocinio della nostra salvezza loro
affidato.
Di invocazioni agli angeli esistono nella santa Scrittura esempi
significativi. Giacobbe chiede all'angelo, col quale aveva lottato, che
lo benedica; lo costringe anzi a farlo, dichiarando che non lo lascerà
libero, se non dopo averne ricevuta la benedizione (Gn 32,24). Né
la vuole soltanto da colui che scorgeva, ma anche da quegli che non
vedeva, quando dice: L'angelo che mi trasse da tutti i mali, benedica
questi figliuoli (Gn 48,16).
Perciò è lecito anche dedurre che, lungi dal diminuire la gloria di Dio,
l'onore tributato ai santi che si sono addormentati nel Signore, le
invocazioni ad essi rivolte, la venerazione portata alle loro reliquie e
alle loro ceneri, aumentano tanto più questa gloria, quanto meglio
stimolano la speranza degli uomini, la rassodano spingendoli
all'imitazione dei santi. Lo comprovano il secondo concilio Niceno,
quelli di Gangra e di Trento, e infine l'autorità dei santi Padri. Per
meglio riuscire alla confutazione di chi impugna questa verità, il
Parroco legga lo scritto di san Girolamo contro Vigilanzio, e
specialmente il Damasceno.
Quanto abbiamo detto è soprattutto confermato dalla consuetudine
trasmessa dagli Apostoli, costantemente ritenuta nella Chiesa di Dio, e
appoggiata alle testimonianze della Scrittura che celebra mirabilmente
le lodi dei santi. Non si potrebbe desiderare nulla di più chiaro e di
più solido. Di alcuni santi gli oracoli divini han tessuto l'elogio.
Come gli uomini potrebbero rifiutare loro un onore particolare? (Eccli.
XLIV).
Si rifletta che occorre invocarli e onorarli, anche perché essi offrono
perennemente preci per la salvezza degli uomini; e molti benefici
elargiti da Dio sono dovuti al loro merito e al loro favore. Se infatti
si fa gran festa in cielo per un peccatore pentito (Lc 15,7), non
si adopreranno i cittadini del cielo per aiutare i penitenti? E, se sono
invocati e implorati, potranno non impetrare il perdono dei peccati,
propiziandoci la grazia di Dio? Che se alcuni obietteranno essere
superfluo il patrocinio dei santi perché è Dio che sovviene alle nostre
preghiere senza bisogno d'interpreti, si risponderà a queste empie voci
con le parole di sant'Agostino: Dio spesso non concede se non in seguito
all'intervento efficace del mediatore che scongiura (Sull'Ex q. CXLIX).
Il che è confermato dagli esempi eloquenti di Abimelech e degli amici di
Giobbe ai quali Dio perdono le colpe per le preghiere di Abramo e di
Giobbe (Gn 20 ;Gb 42). E se qualcuno osserverà che il ricorso ai santi,
quali intermediari e patroni, è dovuto alla povertà e debolezza della
propria fede, gli si replicherà con l'esempio del Centurione. Questi,
pur essendo ricco di una fede la quale merito la più alta lode da nostro
Signore, tuttavia invio a lui gli anziani dei Giudei perché volessero
impetrare la guarigione al suo servo malato (Mt 8,10 Lc 7,9).
Senza dubbio confessiamo che uno solo è il nostro mediatore, Gesù
Cristo, il quale ci riconcilio col Padre celeste col suo sangue (Rm
5,10), e, garantita l'eterna redenzione, una volta entrato nel
Santuario, non cessa un istante di intercedere per noi (He 9,12).
Ma da ciò non segue affatto che non sia lecito fare appello al favore
dei santi. Se in realtà non fosse consentito di invocare il soccorso dei
santi, perché abbiamo un solo patrono, Gesù Cristo, l'Apostolo non
avrebbe davvero insistito nel volere che le preghiere dei fratelli
viventi lo soccorressero presso il Signore (Rm 15,30). Dunque non
solo la preghiera dei santi che sono in cielo, ma neppure quella dei
giusti viventi, possono attenuare la gloria e la maestà del Cristo
mediatore.
E chi non scorgerà prove luminose dell'obbligo di onorare i santi, e del
patrocinio che essi assumono di noi, nei prodigiosi fatti che si
compiono presso i loro sepolcri, con la restituzione di occhi, mani,
membra di ogni genere a chi ne mancava, con la resurrezione di morti
tornati in vita, col fatto di demoni cacciati dai corpi umani? Molti
riferirono di averne udito il racconto; moltissimi, individui serissimi,
di aver letto; né mancano testimoni ineccepibili, quali sant'Ambrogio e
sant'Agostino, che attestarono nelle loro lettere di aver visto. Che
più? se le vesti, i panni, e la stessa ombra dei santi ancora in vita
scacciarono le malattie e ridonarono le forze, chi oserà porre in dubbio
che Dio possa effettuare i medesimi portenti per mezzo delle ceneri,
delle ossa e delle altre reliquie dei santi? Si ricordi quel cadavere
che, portato per caso nel sepolcro di Eliseo, immediatamente rivisse a
contatto del suo corpo (2R 13,21).
304.
Norme sulla
illiceità delle immagini
Seguono le parole: Non ti farai opere di scultura a immagine di cose
esistenti nell'aria, sulla terra o nelle acque; non le adorerai, non
presterai loro culto. Alcuni, ritenendo che fosse qui enunciato un
secondo precetto, pensarono che i due ultimi precetti del decalogo ne
formassero invece uno solo. Ma sant'Agostino, considerando quei due
ultimi come distinti, afferma che le parole in questione appartengono al
primo precetto (Sull'Ex q. LXXI); e noi adottiamo volentieri simile
sentenza, che è comunissima nella Chiesa. Ma c'è di rincalzo l'ottima
ragione che, nel testo biblico (Es. 20,5s.), premio e castigo per il
precetto sono enunciati al termine di questa pericope in maniera
unitaria come per ciascun precetto.
Né si creda che con tale precetto sia del tutto vietata l'arte di
dipingere, di rappresentare, di scolpire. Leggiamo infatti nelle
Scritture che, per comando divino, furono fatti simulacri e immagini di
Cherubini (Ex 25,18 1R 6,23 1R 2) e del serpente di bronzo (Nb
21,8). Dobbiamo perciò interpretare la proibizione nel senso che,
prestando ai simulacri un culto come a delle divinità, si viene a
togliere qualcosa al vero culto di Dio.
Ed è chiaro che, nell'ambito di questo comandamento, in due modi
possiamo gravemente ledere la divina maestà. In primo luogo, venerando
come divinità idoli e simulacri, o ritenendo che dimori in essi qualche
virtù divina, per cui si debba prestar loro venerazione, si possa
chieder loro qualcosa, e riporre in essi quella fiducia che vi
riponevano una volta i pagani, rimproverati spesso dalla Scrittura di
collocare la loro speranza negli idoli. In secondo luogo, tentando di
raffigurare con i mezzi dell'arte la forma della divinità, quasi che
questa possa scorgersi con gli occhi corporei, o esprimersi con colori e
figure. Esclama il Damasceno: Chi potrà esprimere un Dio che non cade
sotto la presa dei sensi, non ha corpo, non può essere circoscritto in
alcun termine, né descritto da alcuna rappresentazione? (La fede ort.
4,16).
Più ampiamente spiega la cosa il secondo concilio Niceno (Atti 3 e 4).
Luminosamente l'Apostolo disse dei pagani che avevano deformato la
gloria di Dio incorruttibile, riducendola alle immagini dell'uomo
corruttibile, degli uccelli, dei quadrupedi, dei serpenti (Rm 1,23),
venerando come divinità simulacri di questa foggia. Anche gli Israeliti,
che dinanzi al simulacro del vitello gridavano: Ecco, o Israele, i tuoi
dèi che ti trassero fuori dalla terra di Egitto (Ex 32,4), furono
chiamati idolatri, avendo ridotto la gloria divina alle proporzioni di
una bestia erbivora (Ps 105,20).
Avendo quindi il Signore rigorosamente vietato di prestar culto a
divinità straniere per sopprimere ogni infiltrazione idolatrica, proibi
pure di trarre dal bronzo o da qualsiasi altra materia rappresentazioni
della divinità. Illustrando il divieto, Isaia esclama: A quale cosa
avete voi rassomigliato Dio? quale immagine farete di lui? (Is 40,18).
Che tale sentenza sia racchiusa in questo precetto risulta, oltre che
dagli scritti dei santi Padri che, secondo l'esposizione del settimo
Concilio (Atti 2 e 4), l'interpretano a questa maniera, anche dalle
parole abbastanza esplicite del Deuteronomio, dove Mosè, volendo
allontanare il popolo dall'idolatria, dice: Non vedeste nessuna immagine
il giorno in cui il Signore, sull'Oreb, vi parlo di mezzo al fuoco (Dt
4,15). Cosi si esprimeva il sapientissimo legislatore, affinché,
cadendo in errore, non si foggiassero un simulacro della divinità, e
finissero col tributare a una cosa creata l'onore dovuto a Dio.
305.
Utilità del culto delle immagini
Non
si creda tuttavia che sia un mancare alla religione e un trasgredire la
legge di Dio, l'esprimere con figure sensibili, adoperate cosi nel
vecchio come nel nuovo Testamento, qualche Persona della santissima
Trinità. Non v'è infatti individuo cosi grossolano il quale possa
ritenere espressa da quella figura la divinità. Ad ogni modo il Parroco
spieghi come, mediante quelle figure, siano significate proprietà o
azioni attribuite a Dio. Cosi, quando, sulle indicazioni di Daniele (Da
7,9), si rappresenta l'Antico dei giorni seduto sul trono, con i
libri aperti dinanzi, si vuole significare l'eternità e l'infinita
sapienza di Dio, in virtù delle quali egli scorge tutti i pensieri e le
azioni degli uomini per giudicarli.
Gli angeli, poi, vengono raffigurati in forme umane e con le ali perché
i fedeli comprendano quanto essi siano ben disposti verso il genere
umano e come siano pronti ad eseguire le incombenze volute dal Signore.
Sono infatti spiriti al servizio di coloro che bramano l'eredità della
salvezza (He 1,14). Il simbolo della colomba e le lingue di fuoco
menzionati nel Vangelo (Mt 3,16 Mc 1,10 Lc 3,22 Jn 1,32) e negli
Atti degli apostoli (Ac 2,3), quali proprietà esprimano dello
Spirito santo è troppo noto perché occorra darne ampia spiegazione.
Siccome, poi, nostro Signore G. Cristo, la sua santa e purissima
Genitrice e tutti i santi dotati di natura umana, ebbero naturalmente
figura umana, non solo non è vietato dal presente precetto dipingerne e
onorarne le immagini, ma è stato sempre considerato come atto che
manifesta, in modo sicuro, animo grato e devoto. Lo confermano i
monumenti dell'età apostolica, i concili ecumenici, innumerevoli scritti
di Padri dottissimi e religiosissimi, tutti concordi fra loro.
Il Parroco insegnerà che non solo è lecito tenere immagini nelle chiese,
onorarle e prestar loro culto, purché la venerazione prestata s'intenda
diretta ai loro prototipi, ma mostrerà anche come ciò sia stato fatto
sempre fino ad oggi, con grandissimo vantaggio dei fedeli, come si vede
fra l'altro dal libro del Damasceno sulle immagini, e dal settimo
concilio che è il secondo Niceno.
Ma l'avversario del genere umano si sforza sempre con le sue frodi e
sofismi di pervertire le istituzioni più sante. Per questo il Parroco,
nel caso che il popolo sgarri, cercherà di fare quanto è in lui per
correggere gli abusi, secondo il decreto del concilio Tridentino, e,
senz'altro, all'occasione ne commenterà il testo stesso. Mostri
agl'incolti e a coloro che ignorano l'uso stesso delle immagini, che
queste mirano a far conoscere la storia dei due Testamenti e ad
alimentarne la memoria. Cosicché, stimolati dal ricordo delle divine
gesta, siamo sempre più tratti a venerare e amare Dio. Insegnerà pure
che le immagini dei santi sono poste nei templi affinché essi siano
onorati, e noi, sulle loro orme, ne riproduciamo la vita e i santi
costumi.
306.
Pene contro i trasgressori del primo comandamento
Io
sono il Signore Dio tuo, forte, geloso, che faccio ricadere la iniquità
dei padri nei figli, fino alla terza e alla quarta generazione, per
coloro che mi odiano; e, nel medesimo tempo, misericordioso
abbondantemente verso coloro che mi amano e osservano i miei
comandamenti (Ex 20,5)
Due cose vanno spiegate a proposito di quest'ultima parte del precetto.
Innanzi tutto che, sebbene a causa della maggiore gravita della
trasgressione del primo precetto e dell'inclinazione degli uomini a
commetterla, la pena sia opportunamente qui menzionata, in realtà si
tratta di un'appendice comune a tutti i precetti. Ogni legge infatti
spinge gli uomini al rispetto delle prescrizioni col premio e con la
pena. Per questo frequenti promesse divine sono disseminate nella sacra
Scrittura. Tralasciando quelle pressoché innumerevoli contenute nel
vecchio Testamento, ricordiamo le parole del Vangelo: Se vuoi entrare
nella vita, rispetta i comandamenti (Mt 19,17); e altrove: Solo
chi adempie il volere del Padre mio che è nei cieli entrerà nel regno
celeste (Mt 7,21). In un altro luogo: Ogni albero che non fa buon
frutto, sarà tagliato e gettato nel fuoco (Mt 3,10). Altrove:
Chiunque si adira contro il suo fratello, sarà condannato in giudizio (Mt
5,22). Infine: Se non perdonate agli uomini, nemmeno il Padre vostro
perdonerà a voi le vostre mancanze (Mt 6,15).
In secondo luogo, si ricordi che questa appendice deve essere spiegata
in maniera molto diversa agli individui perfetti e a quelli carnali. Ai
primi infatti, che operano sotto la guida di Dio (Rm 8,14) e a
lui obbediscono con animo alacre e docile, esso parla quale annuncio di
letizia e quale prova luminosa del volere divino, ben disposto verso di
loro. Essi riconoscono cosi la premura di Dio, amantissimo di loro, il
quale, ora con i premi, ora con le pene, quasi costringe gli uomini al
proprio culto e alla religione. Ne scorgono cosi l'infinita bontà, e
vedono che cosa comandi loro, e come voglia far convergere la loro opera
verso la gloria del nome divino. Né solo riconoscono tutto ciò, ma
nutrono speranza che Dio, come comanda ciò che vuole, cosi darà le forze
necessarie per obbedire alla sua legge.
Per gli individui carnali, invece, non ancora affrancati dallo spirito
del servaggio, e che si tengono lontani dal peccato più per timore delle
pene che per amore della virtù, quell'appendice ha sapore di forte
agrume. Perciò dovranno essere incoraggiati con esortazioni pie e quasi
condotti per mano là dove vuole la Legge. Ogni volta che venga
l'occasione di spiegare uno qualsiasi dei comandamenti, il Parroco tenga
presenti queste considerazioni.
307.
Due stimoli
Mirando agli uomini carnali come agli spirituali, egli adotterà i
due pungoli o stimoli, contenuti nell'appendice del precetto, capaci di
eccitare efficacemente gli uomini al rispetto della Legge.
In primo luogo, si spieghi l'inciso, in cui è detto che Dio è forte, con
tanto maggiore diligenza, in quanto spesso la carne, meno colpita dai
terrori delle divine minacce, va mendicando tutti i pretesti per
sfuggire all'ira di Dio e alla pena stabilita. Chi pero tiene per fermo
che Dio è forte, ricorda piuttosto il motto del grande David: Dove mi
rifugerò lungi dal tuo spirito? dove, lungi dal tuo volto? (Ps 133,7).
La stessa carne, diffidente talora delle divine promesse, si raffigura
cosi forti i nemici da reputarsi incapace di resistenza. Invece la fede
salda e sicura, nulla temendo, poggiata com'è sulla forza e la virtù
divina, conforta e rafforza gli uomini, esclamando:Il Signore è la mia
luce e la mia salvezza; di chi avrò paura? (Ps 26,1).
L'altro stimolo è rappresentato dalla stessa gelosia divina. Infatti gli
uomini pensano talora che Dio non curi le cose umane, e non si preoccupi
neppure del nostro ossequio, o della nostra disobbedienza alla Legge. Ne
segue un grande disordine nella vita. Ma se noi ricordiamo che Dio si
preoccupa di tutto, saremo più attenti al nostro compito. Naturalmente
quella specie di gelosia che attribuiamo a Dio, non implica un
turbamento dell'animo, ma solo quel divino amore e quell'alta carità,
per cui Dio non tollera che un'anima si allontani impunemente da lui (Ps
72,27) e irrimediabilmente punisce quanti se ne allontanano. La
gelosia è dunque in Dio quella sua serenissima e sincera giustizia, per
la quale l'anima, corrotta dalle false opinioni e dalle perverse
cupidigie, è ripudiata, e, quasi adultera, allontanata dal connubio
divino.
Tale gelosia divina la sperimentiamo invece come un sentimento
soavissimo e dolcissimo, quando l'alta e ineffabile volontà di Dio verso
di noi si manifesta da questo stesso zelo per noi. Non v'è fra gli
uomini amore più appassionato, unione più intima di quella che vien data
dal vincolo coniugale. Orbene, Dio mostra di quale amore ci prediliga,
quando, paragonandosi spesso allo sposo e al marito, si dichiara geloso.
Il Parroco si fermi perciò a dimostrare come gli uomini debbano essere
tanto preoccupati del culto e dell'onore divino, da essere detti
anch'essi a buon diritto piuttosto gelosi che amanti, sull'esempio di
colui, il quale ha detto di sé: Mi sono mostrato geloso dell'onore del
Signore Iddio degli eserciti (1R 19,14). Imitino Cristo stesso
che disse: Lo zelo per la tua casa mi divora (Ps 68,10 Jn 2,17).
Deve essere poi spiegata la sentenza di minaccia. Dio non tollera che i
peccatori rimangano impuniti, ma li castigherà, come un padre fa con i
figli, o li punirà duramente come un giudice severo. Volendo significare
ciò, Mosè ha detto: Constaterai che il Signore Iddio tuo è Dio forte e
fedele: egli rispetta il patto e usa misericordia a chi lo ama; rispetta
i suoi precetti fino alla millesima generazione; ma anche ripaga senza
indugio chi lo odia (Dt 7,9). E Giosuè: Non potrete servire il
Signore, poiché Dio è santo e forte nel suo zelo; non perdonerà ai
vostri scellerati peccati. Se abbandonerete il Signore e servirete a
divinità straniere, Egli si rivolgerà contro di voi, tormentandovi e
determinando la vostra rovina (Gios. 24,19).
Il Parroco ricordi al popolo che la maledizione divina si propaga fino
alla terza e alla quarta generazione degli empi. Non già nel senso che i
posteri debbano sempre necessariamente portare la pena delle colpe degli
avi, ma nel senso che, se questi e i loro figli non hanno espiato, non
tutta la loro posterità riuscirà a evitare l'ira e la pena divina. Va
ricordato in proposito l'esempio del re Giosia. Dio gli perdono per la
sua singolare pietà, e gli concesse di scendere in pace nel sepolcro dei
padri per non assistere alle sciagure dei tempi imminenti, determinate
su Giuda e su Gerusalemme dall'empietà di Manasse suo avo. Ma, dopo la
sua morte, la vendetta di Dio raggiunse i suoi posteri, non risparmiando
neppure i figli di Giosia (2R 32,2-19 2R 33,25-29).
In che modo poi queste parole della legge si possano conciliare con la
sentenza del Profeta: L'anima che avrà peccato, perirà (Ez 8,4),
lo mostra chiaramente l'autorità di san Gregorio, concorde in questo con
tutti gli antichi Padri, dicendo: Chiunque imita l'iniquità di un
malvagio genitore, è vincolato pure dalla colpa di lui; ma chi non ne
imita la malvagità, non porta il suo carico morale; per questo il figlio
cattivo di un cattivo padre non sconta solamente le colpe proprie, ma
anche quelle di suo padre, non avendo temuto di accoppiare alla
perversione paterna, contro cui sa irato il Signore, anche la propria
malvagità.
E' giusto del resto che colui il quale, sotto lo sguardo di un giudice
severo, non ha ritegno di battere le vie di un genitore malvagio, sia
tenuto nella vita presente a scontare pure le colpe dell'iniquo suo
padre (Mor. 15,51). Ricorderà pero il Parroco che la bontà e la
misericordia di Dio superano la sua giustizia: rivela la sua ira infatti
fino alla terza e alla quarta generazione, ma riversa la sua
misericordia fino alla millesima.
L'inciso poi: " Di coloro che mi odiano ", vuole rilevare la gravita del
peccato. Che cosa di più orribile e di più nefasto che odiare la Bontà
per essenza e la Verità somma? Ciò vale per tutti i peccatori; perché,
come chi rispetta i precetti di Dio, ama Dio (Jn 14,21); cosi chi
disprezza la legge di Dio e non rispetta i suoi comandamenti,
giustamente può dirsi che lo odia.
Infine la frase ultima: " A coloro che mi amano ", insegna il modo e il
motivo del rispetto della Legge. E' infatti necessario che coloro i
quali osservano la Legge di Dio siano indotti a obbedirgli dal medesimo
amore che li spinge verso di lui: cosa che vedremo anche nella
trattazione dei singoli comandamenti.
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