239.
Si deve
sovente inculcare la dottrina
intorno alla Penitenza
Essendo notissime la debolezza e fragilità della natura umana, come
ciascuno può facilmente sperimentare in se stesso, nessuno può
disconoscere la grande necessità del sacramento della Penitenza. Che se
lo zelo dei Pastori si deve misurare dall'importanza della materia da
loro trattata, bisogna concludere che essi non saranno mai abbastanza
zelanti nello spiegare questo argomento. Anzi, con tanto maggior
diligenza si dovrà trattare di questo in confronto col Battesimo, in
quanto il Battesimo si somministra una sola volta, né si può reiterare;
mentre la Penitenza si può ricevere ed è necessario riceverla ogni volta
che ci avvenga di ricadere nel peccato dopo il Battesimo. Perciò il
concilio di Trento ha detto che il sacramento della Penitenza è cosi
necessario per la salvezza di coloro che sono caduti in peccato dopo il
Battesimo, come questo è necessario a quelli che non sono ancora
rigenerati alla fede (Sess. 14, cap. 2). San Girolamo ha scritto quella
notissima sentenza, approvata pienamente da quelli che hanno scritto di
questo argomento sacro dopo di lui, che la Penitenza è la seconda tavola
di salvezza (In Is 3,8). Come, infranta la nave, rimane una sola
via di scampo, quella cioè di aggrapparsi a una tavola scampata al
naufragio, cosi un volta perduta l'innocenza battesimale, se non si
ricorre alla tavola della Penitenza, non v'è speranza di salvezza.
Queste considerazioni si rivolgono non solo ai Pastori ma a tutti i
fedeli, affinché in materia cosi necessaria non pecchino di negligenza.
Convinti dell'umana fragilità, il loro primo e più ardente desiderio sia
di camminare nella via di Dio, col soccorso della sua grazia, senza
inciampi né cadute. Ma se inciampassero, considerando subito la somma
benignità di Dio, che da buon Pastore cura le ferite delle sue pecorelle
e le risana (Ez 34,16), ricorreranno senza indugio a questa
saluberrima medicina della Penitenza.
240.
Veri
significati del termine "Penitenza"
Per entrare subito in materia, spieghiamo innanzi tutto il valore e il
significato del termine penitenza, per evitare che alcuno sia indotto in
errore dall'ambiguità del vocabolo. Taluni intendono penitenza come
soddisfazione; altri, ben lontani dalla dottrina Cattolica, la
definiscono una nuova vita, ritenendo che non abbia alcuna relazione col
passato. Bisogna adunque chiarire i significati di questo vocabolo.
Innanzi tutto diciamo che prova pentimento (o penitenza) chi si
rammarica di una cosa, che prima gli era piaciuta, a parte la
considerazione se fosse buona o cattiva. Tale è il pentimento di coloro
la cui tristezza è di carattere mondano, e non secondo Dio; pentimento
che arreca non la salute, ma la morte (2Co 7,10). Altra specie di
pentimento è quello di coloro che si dolgono di un misfatto commesso e
di cui si erano compiaciuti non per riguardo di Dio ma di se stessi (Mt
27,3). Una terza specie si ha quando non solo ci addoloriamo con
intimo sentimento del peccato commesso, o ne mostriamo anche, qualche
segno esterno, ma ci rammarichiamo principalmente per l'offesa di Dio (Jl
2,12).
A tutte e tre queste specie di dolore conviene propriamente il nome di
penitenza; quando invece leggiamo nella Scrittura che Dio si pente,
tale parola ha un valore metaforico, adattato alla maniera umana di
parlare, che la Scrittura adopera come per dire che Dio ha mutato
divisamente. Infatti in questo caso Dio sembra quasi agire alla maniera
degli uomini, che, quando si pentono di qualche cosa, cercano con ogni
studio di mutarla. In questo senso leggiamo che Dio si penti di avere
creato l'uomo (Gn 6,6) e di aver eletto re Saul (1S 15,11).
Ma v'è una grande diversità tra queste tre specie di penitenza. La prima
è difettosa, la seconda è l'afflizione di un animo commosso e turbato,
solo la terza è nello stesso tempo una virtù e un sacramento; e di
questa propriamente qui si tratta.
241.
La
penitenza in quanto virtù
Trattiamo prima di tutto della penitenza in quanto è una virtù, non
solo perché il popolo deve essere dai suoi Pastori istruito intorno a
ogni genere di virtù, ma anche perché gli atti di questa virtù offrono
la materia riguardante il sacramento della Penitenza; sicché, se non si
conosce prima bene che cosa sia la virtù della penitenza, si dovrà
necessariamente ignorare l'efficacia di questo sacramento.
Bisogna adunque esortare dapprima i fedeli a fare ogni sforzo per
raggiungere quella interiore penitenza dell'anima che noi chiamiamo
virtù e senza la quale la penitenza esteriore riuscirà di ben poco
giovamento. La penitenza interna è quella per la quale noi con tutto
l'animo ci convertiamo a Dio e detestiamo profondamente i peccati
commessi, proponendo insieme fermamente di emendare le nostre cattive
abitudini e i costumi corrotti, fiduciosi di conseguire il perdono dalla
misericordia di Dio. Si associa a questa penitenza, come compagna della
detestazione del peccato, una dolorosa tristezza che è una vera
affezione emotiva dell'animo e da molti viene chiamata passione. Perciò
parecchi santi Padri definiscono la penitenza partendo da un cosi fatto
tormento dell'anima. E tuttavia necessario che nel pentito la fede
preceda la penitenza, perché nessuno può convertirsi a Dio senza la
fede. Da ciò segue che a ragione non si può dire che la fede sia una
parte della penitenza.
Che questa interiore penitenza sia una virtù, come abbiamo detto, è
chiaramente dimostrato dai molti precetti che la riguardano (Mt 3,2
Mt 4,17 Mc 1,4 Mc 1,15 Lc 3,3 Ac 2,38). Poiché la legge ordina solo
quegli atti che si esercitano mediante la virtù. Del resto nessuno vorrà
negare che sia atto di virtù il dolersi nel tempo, nel modo e nella
misura opportuna. E tutto questo ce lo insegna a dovere la virtù della
penitenza. Spesso avviene infatti che gli uomini non si pentano dei
peccati quanto dovrebbero; che anzi vi sono taluni, a detta di Salomone,
che si rallegrano del male commesso (Pr 2,14); mentre vi sono
altri che se ne affliggono cosi amaramente, da disperare di salvarsi.
Tale sembra essere stato il caso di Caino che esclamo:Il mio peccato è
più grande del perdono di Dio (Gn 4,13); e tale fu certamente
quello di Giuda, il quale pentito, appendendosi al laccio, perdette
insieme la vita e l'anima (Mt 27,3 Ac 1,18). La virtù della
penitenza ci aiuta pertanto a conservare la giusta misura nel nostro
dolore.
Il medesimo si deduce anche da quanto si propone come fine chi davvero
si pente del peccato. Questi, infatti, prima vuoi cancellare la colpa e
lavare tutte le macchie dell'anima; secondo, vuoi dare soddisfazione a
Dio per i peccati commessi; il che è evidentemente un atto di giustizia.
Poiché, sebbene tra Dio e gli uomini non possano esserci rapporti di
vera e rigorosa giustizia, dato l'infinito abisso che li separa, pure
taluno ve n'è, nel genere di quelli che si verificano tra padre e figli,
tra padrone e servi; terzo, delibera di ritornare in grazia di Dio,
nella cui inimicizia e disgrazia era caduto per motivo del peccato.
Tutto ciò chiaramente mostra che la penitenza è una virtù.
242.
I vari
gradi per giungere alla penitenza
Importa anche insegnare ai fedeli attraverso quali gradini possiamo
progredire in questa divina virtù.
Innanzi tutto la misericordia di Dio ci previene e converte a sé i
nostri cuori. Questo domandava al Signore il profeta quando implorava:
Convertici a te, o Signore, e saremo convertiti (Treni, 5,21).
Secondo: illuminati da questa luce, ci rivolgiamo a Dio sulle ali della
fede, poiché, come afferma l'Apostolo, chi si accosta a Dio deve credere
che Dio esiste e che è il rimuneratore di quelli che lo cercano (He
11,6). Terzo: segue il senso del timore, quando l'anima,
considerando l'atrocità delle pene, si ritira dal peccato. A questo
sembrano riferirsi le parole di Isaia: Come una donna incinta, prossima
al parto, si lagna e grida fra le sue doglie, tali siamo noi (Is
26,17). Quarto: si aggiunge la speranza di impetrare la misericordia
di Dio, sollevati dalla quale, risolviamo di emendare la vita e i
costumi. Quinto: finalmente la carità infiamma i nostri cuori, e da essa
scaturisce quel filiale timore che degnamente conviene a figli probi e
assennati. Per essa, non temendo più che l'offesa della maestà di Dio,
abbandoniamo del tutto l'abitudine del peccato.
Questi sono i gradi attraverso i quali si giunge alla più sublime virtù
della penitenza, che agli occhi nostri deve apparire tutta celeste e
divina. Infatti la sacra Scrittura le promette il regno dei cieli, come
si legge in san Matteo: Fate penitenza, che il regno dei cieli è vicino
(Mt 3,2 Mt 4,17); e in Ezechiele: Se l'empio farà penitenza di
tutti i peccati commessi e custodirà tutti i miei precetti, operando
secondo il diritto e la giustizia, vivrà (Ez 18,21); e ancora:
Non voglio la morte dell'empio, ma che si converta dalla sua via e viva
(Ez 33,11). Le quali parole devono evidentemente riferirsi alla
vita eterna e beata.
243.
La
Penitenza come sacramento
Circa la penitenza esteriore si deve insegnare che essa costituisce
propriamente il sacramento e consiste in talune azioni esterne e
sensibili, che esprimono quello che avviene nell'interno dell'anima.
Innanzi tutto si deve spiegare ai fedeli perché Gesù Cristo ha messo la
Penitenza nel novero dei sacramenti. Ciò è perché non avessimo più a
dubitare della remissione dei peccati, da lui promessa con le parole
citate: Se l'empio farà penitenza, ecc. Poiché se giustamente ciascuno
deve temere del proprio giudizio sulle sue azioni, di necessità saremmo
stati condotti a dubitare del nostro pentimento interiore. Ma il
Signore, volendo rimediare a questa nostra ansietà, ha istituito il
sacramento della Penitenza, per il quale, in virtù dell'assoluzione del
sacerdote, noi fossimo certi della remissione dei nostri peccati, e la
coscienza si calmasse in grazia della fede che dobbiamo avere nella
virtù dei sacramenti. La parola del sacerdote che legittimamente assolve
dai peccati avrà per noi lo stesso valore di quella che Gesù Cristo
disse al paralitico: Confida figliuolo, che i tuoi peccati ti sono
rimessi (Mt 9,2).
Inoltre poiché nessuno può conseguire la salvezza se non per Cristo e
per i meriti della sua passione, era conveniente e assai utile per noi
che venisse istituito questo sacramento per la cui efficacia il sangue
di Cristo, scorrendo su di noi, lava i peccati commessi dopo il
Battesimo, e ci obbliga cosi a riconoscere che soltanto al nostro divino
Salvatore dobbiamo il beneficio della riconciliazione.
Che la Penitenza sia un vero sacramento i Parroci lo dimostreranno
facilmente cosi: come è un sacramento il Battesimo, perché cancella
tutti i peccati e specialmente quello originale, cosi lo è pure in senso
pieno la Penitenza che toglie tutti i peccati commessi, o col desiderio,
o con l'opera dopo il Battesimo. Di più (e questo è l'argomento
principale), siccome gli atti esterni del penitente e del sacerdote
indicano quel che avviene nell'interno dell'anima, chi vorrà negare che
la Penitenza abbia vera e propria natura di sacramento? Il sacramento
infatti è il segno di una cosa sacra: ora, il peccatore pentito esprime
chiaramente con le parole e con gli atti di avere distaccato l'animo dal
peccato. D'altra parte, dalle parole e dagli atti del sacerdote,
facilmente rileviamo la misericordia di Dio che perdona quei peccati.
Del resto, una prova chiara l'abbiamo nelle parole del Salvatore: Darò a
te le chiavi del regno dei cieli; qualunque cosa avrai sciolto sulla
terra, sarà sciolta anche nei cieli (Mt 16,19). L'assoluzione
pronunciata dal sacerdote esprime la remissione dei peccati che essa
produce nell'anima.
Ma non basta insegnare ai fedeli che la Penitenza è un sacramento:
occorre aggiungere che è uno di quelli che si possono ripetere. Infatti
quando Pietro domando al Signore se doveva perdonare fino a sette volte
un peccato, si ebbe per risposta: Non ti dico fino a sette, ma fino a
settanta volte sette (Mt 18,22). Pertanto, qualora si abbia a
trattare con uomini che sembrino diffidare della somma bontà e clemenza
di Dio, dovrà il loro animo esser rafforzato e sollevato alla speranza
della grazia divina. Ciò sarà facile, illustrando questo ed altri passi
numerosi della sacra Scrittura, e, insieme, allegando quei motivi e
quelle argomentazioni, che si trovano nel trattato Sui caduti in
peccato, di san Giovanni Crisostomo e in quello Sulla Penitenza, di
sant'Agostino.
244.
Materia
della Penitenza
Ma poiché il popolo deve conoscere meglio di ogni altra cosa, la materia
di questo sacramento, si dovrà insegnare che esso differisce dagli altri
sopratutto perché, mentre la materia degli altri è qualche cosa di
naturale, o di artificiale, della Penitenza sono quasi materia gli atti
del penitente: cioè la contrizione, la confessione e la soddisfazione,
com'è stato dichiarato dal concilio di Trento (Sess. 14, Della Penit. e.
3 e can. 4).
Codesti atti vengono detti parti della Penitenza, in quanto si esigono
per divina istituzione, nel penitente, per ottenere l'integrità del
sacramento e una piena e perfetta remissione dei peccati. Son detti:
quasi materia non perché non abbiano ragione di vera materia, ma perché
non sono di quel genere di materia che esteriormente si adopera, come
l'acqua nel Battesimo e il crisma nella Confermazione. Né, a intender
bene, hanno affermato cosa diversa coloro, che hanno detto essere i
peccati la materia propria di questo sacramento: perché, come diciamo
che le legna sono materia del fuoco, perché dal fuoco sono consumate,
cosi a buon diritto possiamo dire che i peccati sono materia della
Penitenza, perché dalla Penitenza vengono cancellati.
245.
Forma
della Penitenza
Né dovranno i Pastori tralasciar di spiegare la forma del sacramento,
perché questa conoscenza ecciterà gli animi dei fedeli a riceverne con
gran devozione la grazia che gli è propria. La forma è la seguente: " Io
ti assolvo ", come si ricava non solo da quelle parole: Quanto
scioglierete sulla terra, sarà sciolto nel cielo (Mt 18,18), ma
anche dall'insegnamento di Gesù Cristo tramandatoci dagli Apostoli. E
poiché i sacramenti significano quel che operano, le parole " Io ti
assolvo ", mostrano che la remissione dei peccati avviene mediante
l'amministrazione di questo sacramento. E chiaro dunque che questa è la
forma perfetta della Penitenza, in quanto i peccati sono quasi lacci che
tengono avvinte le anime, e da cui si liberano col sacramento della
Penitenza. Si noti anzi che il sacerdote pronunzia con eguale verità la
forma anche su di un penitente che, mosso da contrizione perfetta,
accompagnata dal desiderio di confessarsi, abbia già ottenuto da Dio il
perdono dei peccati.
Si aggiungono a queste parole varie preghiere, non necessarie alla forma
del sacramento, ma dirette ad allontanare tutto ciò che potrebbe
impedirne la virtù e l'efficacia per difetto di chi lo riceve.
Grazie infinite rendano dunque i peccatori a Dio che ha conferito ai
suoi sacerdoti una cosi ampia potestà nella Chiesa. Oggi i sacerdoti non
hanno soltanto il potere di dichiarare il penitente assolto dai peccati,
come quelli del vecchio Testamento che si limitavano a testificare che
il lebbroso era guarito dal suo male (L. 13), ma lo assolvono veramente,
come ministri di Dio il quale opera lui stesso principalmente, essendo
autore e padre della grazia e della giustizia.
I fedeli osserveranno con cura anche i riti propri di questo sacramento.
Cosi avranno più altamente scolpito nell'animo ciò che hanno conseguito
in questo sacramento: la riconciliazione, cioè, di loro, servi, con un
Padrone clementissimo; o piuttosto, di figlioli, con un ottimo Padre; e
comprenderanno meglio quel che convenga fare a coloro che vogliono (e
tutti devono volerlo) mostrarsi grati e memori di tanto beneficio. Colui
che si pente dei peccati, si getta con animo umile e dimesso ai piedi
del sacerdote, per riconoscere, mentre compie quest'atto di umiltà, che
si devono estirpare le radici della superbia, da cui hanno principio e
origine tutti quei peccati che piange e detesta. Nel sacerdote, che
siede come suo legittimo giudice, riconosce la persona e la potestà di
Gesù Cristo, poiché il sacerdote nell'amministrare la Penitenza, come
pure gli altri sacramenti, tiene il luogo di Cristo. Dopo di che il
penitente enumera tutti i suoi peccati, riconoscendo di meritare le pene
più grandi ed acerbe, e ne domanda supplichevole il perdono. In san
Dionigi si trovano le più chiare testimonianze sull'antichità di tutte
queste pratiche.
246.
Effetti
della Penitenza
Ma nulla gioverà tanto ai fedeli e desterà in essi il vivo desiderio di
appressarsi alla Penitenza, quanto la frequente spiegazione della sua
utilità fatta dal Parroco; vedranno allora quanto giustamente si possa
dire della Penitenza che se sono amare le sue radici, dolcissimi ne sono
i frutti.
Tutto il valore della Penitenza consiste nel restituirci alla grazia di
Dio stringendoci a lui in grande amicizia. Ne segue, massime negli
uomini pii che la ricevono con santa devozione, una ineffabile pace e
tranquillità di coscienza accompagnate da viva gioia spirituale. Infatti
non c'è colpa per quanto grave ed empia, che non si cancelli grazie alla
Penitenza; e non una sola volta, ma molte e molte volte. Al quale
proposito cosi parla il Signore per bocca di Ezechiele: Se l'empio farà
penitenza di tutti i suoi peccati, osserverà i miei precetti e
praticherà il giudizio e la giustizia, vivrà e non morrà, né io mi
ricorderò delle iniquità da lui commesse (Ez 18,21). E san
Giovanni: Se confessiamo i nostri peccati, Dio è fedele e giusto, e ce
li perdonerà (1Jn 1,9). E poco più oltre: Se taluno avrà peccato
- si noti che non eccettua nessun genere di peccato -, abbiamo un
avvocato presso il Padre, Gesù Cristo giusto, il quale è propiziazione
per i nostri peccati; né solamente per i nostri, ma anche per quelli di
tutto il mondo (I Jn 2,1,2).
E se leggiamo nella Scrittura che alcuni non hanno ricevuto misericordia
da Dio, pur avendola caldamente implorata (2M 2M 9,13 He 12,17),
ciò avvenne perché essi non erano pentiti di vero cuore dei loro
misfatti. Perciò quando occorrono nella Scrittura o nei Padri frasi che
sembrano affermare che per alcuni peccati non c'è remissione (1S 2,25
Mt 12,31 He 6,4 He 10,26), bisogna intenderle nel senso che il loro
perdono è oltremodo difficile. Come infatti una malattia viene detta
insanabile quando il malato respinge l'uso della medicina, cosi c'è una
specie di peccati che non si rimette né si perdona, perché rifugge dalla
grazia di Dio che è il rimedio suo proprio. In questo senso
sant'Agostino ha scritto: Quando un uomo, giunto alla conoscenza di Dio
per la grazia di Gesù Cristo, viola la carità fraterna e invidiosamente
si agita contro la grazia stessa, la macchia di tale peccato è tanta che
il peccatore non riesce a umiliarsi per domandarne perdono, sebbene i
rimorsi lo obblighino a riconoscere e confessare il suo fallo (Libr. I
sul serm. del Sign. nel monte 22,73 e 74).
Ma per ritornare alla Penitenza, la sua efficacia nel rimettere i
peccati le è in tal modo propria che senza di essa è impossibile non
solo ottenere, ma neppure sperarne il perdono, essendo scritto: Se non
farete penitenza, perirete tutti allo stesso modo (Lc 13,3). E
vero che queste parole si applicano solo ai peccati gravi o mortali; ma
anche i peccati più leggeri o veniali esigono la loro congrua penitenza.
Dice infatti sant'Agostino: Quella specie di penitenza che si fa ogni
giorno nella Chiesa per i peccati veniali, sarebbe certo vana se detti
peccati si potessero rimettere senza di essa.
247.
Le parti
costitutive della Penitenza
Ma poiché in materia pratica non basta dare nozioni e spiegazioni
generali, i Parroci cureranno di spiegare a parte quanto i fedeli devono
sapere sulle doti di una vera e salutare penitenza. Ora, questo
sacramento, oltre alla materia e alla forma, che ha in comune con gli
altri sacramenti, contiene, come abbiamo già detto, tre elementi
necessari a renderlo integro e perfetto: la contrizione, la confessione
e la soddisfazione. Dice in proposito san Giovanni Crisostomo: La
penitenza induce il peccatore a sopportare tutto volentieri: nel suo
cuore è la contrizione, sulla bocca la confessione, nelle opere grande
umiltà, ossia la salutare soddisfazione (In Graz. p. 2, cap. 33, q. 5,
dist. 1, e. 40). Ora queste parti sono indispensabili alla costituzione
di un tutto.
Come il corpo umano è formato di molte membra, mani, piedi, occhi e
simili, di cui nessuna potrebbe mancare senza imperfezione dell'insieme,
che diciamo perfetto solo quando le possiede tutte, cosi la Penitenza
risulta delle tre suddette parti in modo tale che, sebbene la
contrizione e la confessione che giustificano il peccatore, siano le
sole richieste assolutamente per costituirla, nella sua assenza essa
rimane tuttavia imperfetta e difettosa, quando non include la
soddisfazione. Queste tre parti sono dunque inseparabili e cosi ben
collegate tra loro, che la contrizione racchiude il proposito e la
volontà di confessarsi e di soddisfare; la contrizione e la
soddisfazione implicano la confessione; e la soddisfazione è la
conseguenza delle altre due.
La ragione della necessità di queste tre parti è che noi offendiamo Dio
in tre maniere: in pensieri, parole ed opere. Perciò è giusto e
ragionevole che noi, sottomettendoci alle chiavi della Chiesa, ci
sforziamo di placare l'ira di Dio e di ottenere da lui il perdono dei
peccati con quegli stessi mezzi adoperati per offendere il suo
santissimo nome. Vi è un'altra ragione. La Penitenza è una specie di
compenso dei peccati, che procede dalla volontà del peccatore; ed è
stabilita dalla volontà di Dio, contro cui si è peccato. Bisogna quindi
da un lato che il penitente voglia dare questo compenso, e questo
costituisce la contrizione; dall'altro, che egli si sottometta al
giudizio del sacerdote il quale tiene il luogo di Dio, affinché si possa
fissare una pena proporzionata alle colpe; ed ecco la necessità della
confessione e della soddisfazione.
Ma poiché si devono insegnare ai fedeli la natura e la proprietà di
ciascuna di queste parti, bisogna cominciare dalla contrizione e
spiegarla con tanta maggior cura in quanto noi dobbiamo concepirla nel
nostro cuore non appena i peccati commessi ci ritornano alla memoria,
quando ne commettiamo dei nuovi.
248. La
contrizione: sua natura
Ecco come definiscono la contrizione i Padri del concilio di
Trento: La contrizione è un dolore dell'animo e una detestazione del
peccato commesso con il proposito di non più peccare per l'avvenire (Sess.
14, e. 4). Parlando più oltre della contrizione, aggiungono: Questo atto
prepara alla remissione dei peccati, purché sia accompagnato dalla
fiducia nella misericordia di Dio e dalla volontà di fare quanto è
necessario per ben ricevere il sacramento della Penitenza. Questa
definizione fa ben comprendere ai fedeli che l'essenza della contrizione
non consiste solo nel trattenersi dal peccare, nel risolvere di mutar
vita, o nell'iniziare di fatto una vita nuova, ma anche e sopratutto nel
detestare ed espiare le colpe della vita passata. Questo è chiaramente
provato dai gemiti dei Santi, che cosi spesso troviamo nei Libri sacri:
Io sono stanco di piangere - dice Davide -, ogni notte spargo di lacrime
il mio giaciglio. Il Signore ha sentito la voce del mio pianto (Ps
6,7-9). E in Isaia: Ti darò conto, o Signore, di tutti gli anni
miei, con l'amarezza dell'anima mia (Is 38,15). Queste parole, ed
altre simili, sono l'espressione evidente di un odio profondo dei
peccati commessi e di una detestazione della vita passata.
Dopo avere ben fissato che la contrizione è un dolore, bisogna avvertire
i fedeli di non immaginarsi che esso debba esser esterno e sensibile. La
contrizione è un atto della volontà; e sant'Agostino attesta che il
dolore accompagna la penitenza, ma non è la penitenza stessa (Serm.
CCCLI,1). I Padri Tridentini hanno espresso col termine dolore la
detestazione e l'odio del peccato commesso, sia perché la Scrittura lo
usa cosi (Fino a quando - dice Davide al Signore - terro in ansia
l'anima mia e il mio cuore in preda al dolore notte e giorno?) (Ps
12,2); sia perché il dolore nasce dalla contrizione in quella parte
inferiore dell'anima che è sede delle passioni. Non a torto, pertanto, è
stata definita la contrizione come un dolore, perché produce appunto il
dolore, ed i penitenti, per esprimere meglio il loro dolore, usavano
mutare le vesti, come si ricava dalle parole del Signore: Guai a te,
Corozain, guai a te, Betsaida; poiché se in Tiro e Sidone fossero
avvenuti i miracoli compiuti presso di voi, già da gran tempo avrebbero
fatto penitenza in cenere e cilizio (Mt 11,21 Lc 10,13).
La detestazione del peccato di cui parliamo ha ricevuto giustamente il
nome di contrizione per esprimere l'efficacia del dolore da essa
provocato, per similitudine tratta dalle sostanze corporee: come queste
si frantumano con un sasso o con altra materia più dura, cosi i cuori
induriti dall'orgoglio sono spezzati dalla forza della penitenza. Nessun
altro dolore, che nasca per la morte del padre, della madre, dei figli,
o per qualsiasi altra calamità, vien detto contrizione; ma soltanto
quello che proviamo per aver perduto la grazia di Dio e l'innocenza.
Ci sono anche altri vocaboli atti ad esprimere questa detestazione.
Talora essa viene chiamata contrizione di cuore, perché la Scrittura
scambia sovente il cuore con la volontà: come infatti il cuore è il
principio dei movimenti del corpo, cosi la volontà regola e governa
tutte le potenze dell'anima. Talora i Padri la chiamano compunzione del
cuore; e appunto cosi hanno intitolato i libri da loro scritti sulla
contrizione. Come si aprono col ferro chirurgico i tumori per farne
uscire la materia purulenta, cosi con lo scalpello della contrizione si
lacerano i cuori, affinché ne esca il veleno mortifero del peccato.
Anche Gioele chiama la contrizione una lacerazione del cuore, scrivendo:
Convertitevi a me con tutto il vostro cuore nel digiuno, nel pianto, nei
gemiti. E lacerate i vostri cuori (Gioel. 2,12).
249.
La contrizione: sue qualità
Il dolore d'aver offeso Dio con i peccati deve essere veramente sommo e
massimo, tale che non se ne possa pensare uno maggiore. E facile
dimostrarlo con le ragioni seguenti.
Poiché la perfetta contrizione è un atto di carità che procede dal
timore filiale, ne segue che la misura della contrizione dev'essere la
carità. E siccome la carità con cui amiamo Dio è la più grande, ne segue
che la contrizione deve portare con sé un veementissimo dolore di animo.
Se dobbiamo amare Dio sopra ogni cosa, dobbiamo anche detestare sopra
ogni cosa ciò che da lui ci allontana.
E qui giova notare che la Scrittura adopera i medesimi termini per
esprimere l'estensione della carità e della contrizione. Dice infatti
della carità: Amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore (Dt
6,5 Mt 22,37 Mc 12,30 Lc 10,27); e della seconda il Signore dice per
bocca del profeta: Convertitevi con tutto il vostro cuore (Jl 2,12).
In secondo luogo, come Dio è il primo dei beni da amare, cosi il peccato
è il primo e il maggiore dei mali da odiare. Quindi, la stessa ragione
che ci obbliga a riconoscere che Dio deve essere sommamente amato, ci
obbliga anche a portare sommo odio al peccato. Ora, che l'amore di Dio
si debba anteporre ad ogni altra cosa, sicché non sia lecito peccare
neppure per conservare la vita, lo mostrano apertamente queste parole
del Signore: Chi ama suo padre o sua madre più di me, non è degno di me
(Mt 10,37); Chi vorrà salvare la sua vita, la perderà (Mt
16,25 Mc 8,35). Notiamo ancora che alla carità, secondo san
Bernardo, non si può prescrivere né limite né misura, perché la misura
di amare Dio è di amarlo senza misura (Della dilezione di Dio, I).
Perciò non si deve porre limite alcuno alla detestazione del peccato.
Oltre che massima, la contrizione dev'esser vivissima e cosi perfetta da
escludere ogni negligenza e pigrizia. Sta scritto nel Deuteronomio:
Quando cercherai il Signore Dio tuo lo troverai, purché lo cerchi con
tutto il cuore e tutto il dolore dell'anima tua (Dt 4,29). E in
Geremia: Voi mi cercherete e mi troverete purché mi cerchiate con tutto
il vostro cuore, perché allora io mi faro trovare da voi, dice il
Signore (Jr 29,13).
Ma quand'anche la contrizione non fosse cosi perfetta, può esser sempre
vera ed efficace. Poiché avviene spesso che le cose sensibili ci
commuovono più delle spirituali, sicché taluni sentono per la morte dei
figli, maggior dolore che per la turpitudine del peccato. Il medesimo si
dica quando l'acerbità del dolore non suscita le lacrime, le quali però
nella Penitenza sono da desiderare e lodare assai, come ben dice
sant'Agostino: Non hai viscere di carità cristiana tu, che piangi un
corpo abbandonato dall'anima, e non piangi un'anima abbandonata da Dio (Serm.
XLI,6). A questo si possono riferire le parole del Signore citate sopra:
Guai a te, Corazain, guai a te, Betsaida; che se in Tiro e Sidone
fossero avvenuti i miracoli compiuti presso di voi, da gran tempo
avrebbero fatto penitenza in cenere e cilizio (Mt 11,21). A
conferma di questa verità basti ricordare gli esempi famosi dei Niniviti
(Giona, 3,5), di Davide (Ps 6,7), della Maddalena (Lc 7,37),
del Principe degli apostoli (Mt 26,75), i quali tutti implorarono
con lacrime abbondanti la misericordia di Dio e ottennero il perdono dei
peccati.
Sarà utile ammonire i fedeli ed esortarli nella maniera più efficace a
esprimere un particolare atto di contrizione per ogni peccato mortale,
poiché dice Ezechia: Io ti darò conto di tutti gli anni miei
nell'amarezza dell'anima mia (Is 38,15).
Dar conto di tutti gli anni significa ricercare uno ad uno tutti i
peccati, per deplorarli dal fondo del cuore. Leggiamo ancora in
Ezechiele: Se l'empio farà penitenza di tutti i suoi peccati, vivrà (Ez
18,21).
In questo stesso senso sant'Agostino ha detto:Il peccatore esamini la
qualità del suo peccato secondo il luogo, il tempo, la specie e la
persona (Della vera e falsa pen. 14).
Ma i fedeli non disperino mai della bontà e clemenza infinita di Dio, il
quale, bramoso com'è della nostra salute, non tarda mai ad accordarci il
perdono. Egli abbraccia con paterna carità il peccatore, appena questi,
rientrato in se stesso, si ravvede, e, detestando in genere tutti i suoi
peccati, si rivolge al Signore, purché intenda di ricordarli e
detestarli ciascuno in particolare a tempo opportuno. Dio stesso ci
comanda di sperare, dicendo per bocca del suo Profeta: Non nuocerà
all'empio la sua empietà, dal giorno in cui egli si sarà convertito (Ez
33,12).
250.
Quanto è
richiesto per una vera contrizione
Da quanto abbiamo detto è facile dedurre le condizioni necessarie per
una vera contrizione, condizioni che devono essere spiegate ai fedeli
con la maggiore diligenza, affinché tutti sappiano con quali mezzi
possano acquistarla, e abbiano una norma sicura per discernere fino a
qual punto siano lontani dalla perfezione di essa.
La prima condizione è l'odio e la detestazione di tutti i peccati
commessi. Se ne detestassimo soltanto alcuni, la contrizione non sarebbe
salutare, ma falsa e simulata, poiché scrive san Giacomo: Chi osserva
tutta la legge e in una sola cosa manca, trasgredisce tutta la legge (Gc
2,10).
La seconda è che la contrizione comprenda il proposito di confessarci e
di fare la penitenza: cose di cui parleremo a suo luogo.
La terza è che il penitente faccia il proposito fermo e sincero di
riformare la sua vita, come insegna chiaramente il Profeta: Se l'empio
farà penitenza di tutti i peccati che ha commessi, custodirà tutti i
miei precetti e osserverà il giudizio e la giustizia, vivrà; né mi
ricorderò più dei peccati che avrà commesso. E più oltre: Quando l'empio
si allontanerà dalla empietà che ha commesso e osserverà il giudizio e
la giustizia, darà la vita all'anima sua. E più oltre ancora:
Convertitevi e fate penitenza di tutte le vostre iniquità; cosi queste
non vi torneranno a rovina. Gettate lungi da voi tutte le prevaricazioni
in cui siete caduti, e fatevi un cuore nuovo e uno spirito nuovo (Ez
18,21 Ez 18,31). La medesima cosa ha ordinato il Signore stesso nel
dire all'adultera: Va' e non peccare più (Jn 8,11); e al
paralitico risanato nella piscina: Ecco, sei risanato: non peccare più (Jn
5,14).
Del resto la natura e la ragione mostrano chiaramente che vi sono due
cose assolutamente necessarie, per rendere la contrizione vera e
sincera: il pentimento dei peccati commessi, e il proposito di non
commetterli più per l'avvenire. Chiunque si vuole riconciliare con un
amico che ha offeso, deve insieme deplorare l'ingiuria fatta, e
guardarsi bene, per l'avvenire, dall'offendere di nuovo l'amicizia.
Queste due cose devono necessariamente essere accompagnate
dall'obbedienza, poiché è giusto che l'uomo obbedisca alla legge
naturale, divina e umana alle quali è soggetto. Pertanto, se un
penitente ha rubato con violenza o con frode qualche cosa al suo
prossimo, è obbligato alla restituzione; se ha offeso la sua dignità e
la sua vita con le parole o con i fatti, deve soddisfarlo con la
prestazione di qualche servizio o di qualche beneficio. E noto a tutti,
in proposito, il detto di sant'Agostino: Non è rimesso il peccato, se
non si restituisce il maltolto (Epist. CL3,6,20).
Né si consideri come poco importante tra le altre condizioni volute
dalla contrizione, il perdonare interamente le offese ricevute, come
espressamente ci ammonisce il Signore e Salvatore nostro: Se perdonerete
agli uomini le loro mancanze, il vostro Padre celeste vi perdonerà i
vostri peccati; ma se non perdonerete agli uomini, nemmeno il Padre
vostro perdonerà a voi le vostre colpe (Mt 6,14-15).
Questo è quanto i fedeli devono osservare rispetto alla contrizione.
Tutte le altre considerazioni che i Pastori potranno facilmente
raccogliere in proposito, posson riuscire a render la contrizione più
perfetta nel suo genere, ma non devono essere considerate come
assolutamente necessarie, potendosi avere anche senza di esse una
Penitenza vera e salutare.
251.
Utilità
e mezzi per eccitare la contrizione
Ma perché i Parroci insegnino quanto occorre alla salvezza, a che i
fedeli indirizzino ad essa la vita e le opere, non trascurino di
ricordare spesso con diligenza, sia l'utilità, sia l'efficacia della
contrizione. Infatti le altre opere di devozione, come le elemosine, i
digiuni, le orazioni ed altre simili, sono talora respinte da Dio per
colpa di chi le offre; mentre la contrizione non può non essergli sempre
grata ed accetta. " Tu non respingerai, o Signore - dice il Profeta - un
cuore contrito e umiliato " (Ps 50,19). Che anzi, appena
l'abbiano concepita nel cuore, Dio da il perdono dei peccati, come il
Profeta stesso dichiara in altro luogo: Io dico: confesso il mio delitto
avanti al Signore; e tu rimetti l'empietà del mio peccato (Ps 31,5).
Di tale verità abbiamo come una figura nei dieci lebbrosi, che il
Signore invio ai sacerdoti, e che furono guariti prima che a loro
giungessero (Lc 17,14). Da ciò si rileva che la vera contrizione,
di cui abbiamo fin qui parlato, possiede si grande efficacia, che per
essa il Signore accorda immediatamente la remissione di tutti i nostri
peccati.
Molto varrà ancora, ad accendere la pietà dei fedeli, il fornire loro un
metodo per eccitarsi alla contrizione. A tale scopo sarà opportuno
ammonirli di esaminare spesso la propria coscienza, e vedere se hanno
fedelmente osservato i precetti di Dio e della Chiesa. Se si riconoscono
colpevoli di qualche fallo, se ne accusino subito davanti a Dio e glie
ne domandino umilmente perdono, scongiurandolo di accordare loro il
tempo di confessarsi e fare penitenza. Sopratutto implorino il soccorso
della sua grazia, per non più ricadere in quelle colpe che essi
deplorano amaramente di aver commesse.
Cercheranno infine i Pastori d'ispirare nei fedeli un odio sommo contro
il peccato, sia a motivo della sua immensa e vergognosa bruttezza, sia
perché arreca gravissimi danni in quanto aliena da noi la benevolenza di
Dio da cui abbiamo ricevuti tanti beni e tanti maggiori ce ne
ripromettiamo, mentre poi ci condanna alla morte eterna con i suoi
acerbi tormenti senza fine.
252.
Utilità
e necessità della confessione
Fin qui abbiamo trattato della contrizione; passiamo alla confessione, o
accusa, che costituisce la seconda parte della Penitenza. Con quanta
cura e diligenza i Parroci debbano spiegarla, s'intenderà facilmente
(com'è evidente per tutti i buoni Cristiani), considerando che tutto
quel che di santo, pio e religioso è piaciuto a Dio di conservare nella
Chiesa ai nostri tempi, lo si deve attribuire in gran parte alla
confessione. Sicché nessuno si meraviglierà, se il nemico del genere
umano, che vorrebbe distruggere dalle fondamenta la fede cattolica, si
stia sforzando a tutta possa, per mezzo dei suoi satelliti e ministri
della sua empietà, di abbattere questa rocca della virtù cristiana.
Si insegni innanzi tutto che l'istituzione della confessione fu per noi
utilissima, anzi necessaria. Pur ammettendo che la contrizione cancella
i peccati, chi non sa che essa deve, in tal caso, essere cosi viva e
ardente da eguagliare la grandezza del peccato? Ma poiché pochi sono
capaci di giungere a un grado si alto di pentimento, ne segue che
pochissimi potrebbero sperare da questa via il perdono dei peccati. Fu
dunque necessario che il Signore, nella sua clemenza, fornisse un più
agevole modo alla salvezza degli uomini; e lo fece in maniera mirabile,
dando alla Chiesa le chiavi del regno dei cieli.
Secondo la dottrina della Chiesa Cattolica, tutti devono credere e
affermare senza riserva che se uno è sinceramente pentito dei suoi
peccati e risoluto di non più commetterli per l'avvenire, quand'anche
non sentisse un dolore sufficiente a ottenergli il perdono, otterrà il
perdono e la remissione di tutte le colpe in virtù delle chiavi, purché
li confessi nel debito modo al Sacerdote. In questo senso tutto i santi
Padri hanno proclamato con ragione che il cielo ci è aperto dalle chiavi
della Chiesa; e il concilio di Firenze ha messo questa verità fuori
dubbio, dichiarando che l'effetto della Penitenza è la remissione dei
peccati (Decr. per gli Armeni).
Ma v'è un'altra considerazione che mostra l'utilità della confessione.
L'esperienza prova che nulla giova tanto ad emendare i costumi di
persone che menano una vita corrotta, quanto la manifestazione dei
segreti pensieri del loro animo, delle loro parole ed azioni, ad un
amico prudente e fedele, che li possa aiutare coi suoi servigi e
consigli. Allo stesso modo dobbiamo considerare sommamente profittevole
a quelli che sono turbati dal rimorso dei loro peccati, lo scoprire le
malattie e le piaghe della loro anima al Sacerdote, il quale tiene il
luogo di N.S. Gesù Cristo ed è sottoposto dalle leggi più severe a un
perpetuo silenzio. In tal guisa troveranno pronti dei rimedi pieni di
quella celeste virtù, atta non solo a sanare la presente infermità, ma
ancora a disporre le anime in modo che per l'avvenire non ricadano si
facilmente nella stessa malattia, o nello stesso vizio.
Né si dimentichi un altro vantaggio della confessione, che interessa
vivamente la vita sociale. Tolta infatti dalla vita cristiana la
confessione sacramentale, il mondo sarà inondato da occulte e nefande
scelleratezze. E a poco a poco l'abitudine del male renderà gli uomini
si depravati, che non si periteranno di commettere in pubblico queste
iniquità ed altre ancora più gravi. Invece il pudore di doversi
confessare raffrena la licenza e il desiderio del peccato, ponendo un
argine alla irrompente malizia degli uomini.
253.
Natura
della confessione
Esposta l'utilità della confessione, i Parroci ne spiegheranno la natura
e il valore. La confessione si definisce cosi: è un'accusa dei peccati,
nel sacramento della Penitenza, fatta per riceverne il perdono, in virtù
delle chiavi.
Innanzi tutto e a ragione è detta accusa; perché noi non dobbiamo
confessare i peccati quasi con ostentazione, come fanno coloro che si
compiacciono di operare il male (Pr 2,14); ovvero come una
narrazione, quasi volessimo trattenerci con una persona oziosa che non
avesse altro da fare; ma enumerarli con l'intenzione di confessarci
colpevoli e col desiderio di punirli in noi stessi. Noi confessiamo i
peccati per ottenerne il perdono; perché il tribunale della Penitenza è
diverso dai tribunali umani, nei quali alla confessione del delitto è
riservata la pena, non già la liberazione della colpa e il perdono
dell'offesa. In questo medesimo senso, sebbene con altre parole,
sembrano aver definito la confessione alcuni santi Padri. Per es.,
sant'Agostino: La confessione è la manifestazione di una infermità
occulta, fatta con la speranza del perdono (Serra. 4 delle parole del
Signore); e san Gregorio: La confessione è una detestazione dei peccati
(Omil. 40). Queste due definizioni possono riportarsi a quella data di
sopra, che le contiene tutt'e due.
I Parroci poi insegneranno ai fedeli, senza la minima esitazione, una
verità di massima importanza: cioè che Gesù Cristo medesimo, il quale ha
operato tutto bene e in vista della nostra salvezza, ha istituito questo
sacramento per la sua somma bontà e misericordia. Infatti essendo gli
Apostoli riuniti insieme il giorno della sua resurrezione, alito su di
essi dicendo: Ricevete lo Spirito santo. Saranno perdonati i peccati a
chi voi li rimetterete, e ritenuti a coloro, cui voi li avrete ritenuti
(Jn 20,22). Avendo dunque il Signore concessa ai sacerdoti la
facoltà di perdonare o di ritenere i peccati, è chiaro che egli li
costituì giudici di quello che dovessero fare.
La stessa cosa il Signore parve volesse significare, quando agli
Apostoli comando di sciogliere Lazzaro risuscitato, dalle bende in cui
era avvolto (Jn 11,44). Sant'Agostino spiega cosi quel passo: I
sacerdoti possono ora andare più in là, possono più abbondantemente
perdonare a chi confessa, rimettendo le colpe. Infatti il Signore affido
agli Apostoli l'incarico di sciogliere Lazzaro, ch'egli aveva
risuscitato, mostrando che la facoltà di sciogliere veniva concessa ai
sacerdoti.
Può anche invocarsi a questo proposito il comando impartito dal Signore
ai lebbrosi guariti lungo la strada, di presentarsi ai sacerdoti e di
sottoporsi al loro giudizio (Lc 17,14).
Poiché dunque il Signore ha conferito ai sacerdoti la facoltà di
rimettere o di ritenere i peccati, evidentemente essi sono costituiti
giudici in questa materia. E siccome secondo l'ammonimento sapiente del
santo concilio Tridentino non è possibile pronunciare una sentenza
giusta su qualsiasi argomento, né si può rispettare la regola della
giustizia nell'assegnare le pene dei delitti, se la causa non sia stata
ampiamente esposta e ponderata, ne segue che i penitenti nella loro
confessione devono presentare ai sacerdoti tutte e singole le loro
colpe.
I Parroci quindi spiegheranno minutamente quanto su ciò ha stabilito il
santo concilio Tridentino e la Cattolica Chiesa ha sempre insegnato. Se
leggiamo con attenzione i santi Padri, rintracceremo dovunque
testimonianze esplicite, le quali confermano come questo sacramento sia
stato istituito da nostro Signore G. Cristo, e come esista nel Vangelo
la legge della confessione sacramentale, che essi chiamano, alla greca,
exomologesi ed exagoreusi. Che se poi ci volgiamo al vecchio Testamento
in cerca di immagini, ci appariranno come indubbiamente pertinenti alla
confessione dei peccati quei vari generi di sacrifici, compiuti dai
sacerdoti in espiazione delle varie specie di peccati.
Né basta; come occorre mostrare ai fedeli l'istituzione divina della
confessione, occorre anche insegnare che per autorità della Chiesa
furono aggiunti riti e cerimonie solenni, non inerenti alla essenza del
sacramento, ma tali da farne maggiormente risaltare il valore, e da
predisporre le anime dei penitenti, riscaldate dalla pietà, a ricevere
più copiosamente la grazia del Signore. Prostrati a capo scoperto ai
piedi del sacerdote, gli occhi abbassati, le mani in atto di supplica,
dando prova anche in altri modi, non necessari all'essenza del
sacramento, di cristiana umiltà, confessiamo i nostri peccati. Mostriamo
cosi di comprendere che nel sacramento è racchiusa una forza celeste, e
che doverosamente con tutto l'ardore imploriamo e cerchiamo la
misericordia divina.
254.
Necessità della confessione
Nessuno osi pensare che la confessione sia stata istituita dal Signore
in modo che la pratica non ne sia necessaria. I fedeli sono tenuti a
credere che chi ha la coscienza gravata da peccato mortale, deve essere
richiamato alla vita spirituale mediante il sacramento della
confessione. Vediamo che il Signore espresse questa necessità con una
magnifica immagine, quando defini il potere di amministrare questo
sacramento: chiave del regno dei cieli (Mt 16,19). Chi può
penetrare in un luogo chiuso senza ricorrere a chi ne ha le chiavi? Cosi
nessuno può entrare in cielo, se i sacerdoti, alla fedeltà dei quali il
Signore consegno le chiavi, non ne dischiudano le porte. Altrimenti
sarebbe assolutamente inutile l'uso delle chiavi nella Chiesa; e
inutilmente chi ha questo potere potrebbe interdire l'ingresso in cielo
ad alcuno, se vi fosse un'altra via per giungervi.
Bene spiego la cosa sant'Agostino, dicendo: Nessuno pretenda di far
penitenza di nascosto, alla presenza del Signore, pensando: il Signore
che mi deve perdonare, sa quel che è nel mio cuore. Ma allora è stato
detto invano: Quel che avrete sciolto sulla terra sarà sciolto in cielo?
E senza ragione sono state consegnate le chiavi alla Chiesa di Dio?
(Disc. CCCXCII,3). Nel medesimo senso sant'Ambrogio scrive nel libro
Sulla penitenza, combattendo l'eresia dei Novaziani, i quali riservavano
soltanto a Dio la potestà di rimettere i peccati: Chi dunque presta
maggiore ossequio a Dio: chi si uniforma ai suoi comandi, o chi vi
resiste? Orbene: Dio ha comandato di obbedire ai suoi ministri; ciò
facendo, tributiamo in realtà onore direttamente a Dio.
Non potendo esserci dubbio alcuno sull'origine e istituzione divina
della legge della confessione, ne segue che occorre ricercare chi debba
ad essa sottostare, in quale età e in quale tempo dell'anno. Dal canone
del Concilio del Laterano, il quale comincia con le parole: "Ogni
individuo dell'uno o dell'altro sesso ", risulta che nessuno è vincolato
dalla legge della confessione prima dell'età in cui può avere l'uso
della ragione. Tale età però non si desume da un definito numero di
anni. Sicché sembra doversi ritenere genericamente che la confessione
comincia ad obbligare il fanciullo quando abbia raggiunto la capacità di
distinguere tra bene e male, e la sua anima sia capace di malizia. Si
devono, cioè, confessare i propri peccati al sacerdote, non appena
pervenuti a quella età in cui è dato di ragionare e di decidere intorno
alla vita eterna, non essendoci altro modo di sperare in essa, per chi
ha la consapevolezza di aver peccato.
Col medesimo canone la santa Chiesa stabiliva cosi il tempo in cui è
obbligatorio fare la confessione: " tutti i fedeli devono confessare i
propri peccati almeno una volta l'anno ". Vediamo però se la cura della
nostra salvezza non esiga qualcosa di più. In realtà, ogni volta che
sembra imminente il pericolo di morte, o iniziamo un atto impraticabile
per un uomo macchiato di colpa, come quando amministriamo o riceviamo i
sacramenti, la confessione non deve essere tralasciata. Lo stesso faremo
quando siamo nel dubbio di avere dimenticato una colpa. Non possiamo,
evidentemente, confessare peccati che non ricordiamo, ma neppure
otteniamo da Dio il perdono dei peccati, se attraverso la confessione
non li cancella il sacramento della Penitenza.
255.
Proprietà della confessione
Nel fare la confessione si devono osservare molte prescrizioni, di
cui alcune appartengono alla essenza stessa del sacramento, mentre altre
non sono cosi necessarie. Il Parroco spiegherà le une e le altre. Non
mancano peraltro opere e commenti, da cui è facile ricavare le
spiegazioni in proposito.
Innanzi tutto i Parroci dovranno insegnare che la confessione deve
essere integra ed assoluta, dovendosi manifestare al sacerdote tutti i
peccati mortali. I peccati veniali invece, che non tolgono la grazia di
Dio e in cui cadiamo più di frequente, sebbene si possano opportunamente
e utilmente confessare, come dimostra la consuetudine dei buoni
cristiani, possono però tralasciarsi senza colpa ed espiarsi in molte
altre maniere. Ma, ripetiamo, i peccati mortali devono essere tutti e
singoli enunciati, anche i più segreti, come quelli che violano
solamente i due ultimi comandamenti del Decalogo.
Accade sovente che tali colpe feriscono l'anima più seriamente di quelle
altre, che gli uomini sogliono commettere apertamente. Cosi ha definito
il concilio Tridentino (Sess. 14, e. 5 e can. 7) ed ha sempre insegnato
la Chiesa Cattolica, come ne fan fede le testimonianze dei santi Padri.
Leggiamo, per esempio, in sant'Ambrogio: Nessuno può essere perdonato di
una colpa, se non abbia confessato il suo peccato (Del parad. 14,71).
Commentando l'Ecclesiaste, san Girolamo conferma la medesima verità: Chi
sia stato segretamente morso dal serpente diabolico e infettato dal
veleno del peccato all'insaputa di tutti, se tacerà e non farà
penitenza, né scoprirà la sua ferita al fratello e al maestro, questo
maestro, che ha nella lingua la capacità di curare, non potrà essergli
utile (Sull'Eccl. 10). E san Cipriano, nel discorso sui Lapsi
apertamente sentenzia: Sebbene costoro non abbiano commesso il peccato
di sacrificare (agli idoli), o di comprare il relativo libello, se ne
ebbero il pensiero, devono nel dolore confessare la colpa ai sacerdoti
di Dio. Su questo punto il parere dei santi dottori è unanime.
Nella confessione si deve usare quella somma e diligentissima cura che
usiamo nelle contingenze più gravi: dobbiamo mirare con tutte le energie
a sanare le ferite dell'anima e a svellere le radici del peccato. Né
dobbiamo limitarci a spiegare nella confessione i peccati gravi, ma
anche le circostanze di ciascuno, che ne accrescono o diminuiscono
notevolmente la malizia. Infatti vi sono circostanze cosi aggravanti,
che da sole rendono mortale il peccato: è necessario perciò sempre
confessarle. Chi abbia ucciso, dovrà dire se la vittima era laico o
ecclesiastico. Chi abbia avuto rapporti carnali con una donna, dovrà
spiegare se questa era nubile o coniugata, parente o consacrata a Dio
con voto. Tutte queste circostanze costituiscono altrettanti generi di
peccati: nel primo caso si tratta di fornicazione semplice; nel secondo
di adulterio; nel terzo d'incesto; nel quarto, sempre secondo la
nomenclatura dei teologi, di sacrilegio.
Anche il furto è genericamente un peccato; ma chi ruba uno scudo pecca
molto più lievemente di chi ne ruba cento o duecento o, comunque,
sottragga una forte somma, specialmente se sacra. Simile considerazione
vale anche per il tempo e per il luogo, come appare dagli esempi ben
noti addotti da tanti mai libri, che non occorre ripeterli. Tutto ciò va
spiegato in confessione: però si ricordi che le circostanze non
aggravanti la colpa in misura notevole possono essere taciute senza
peccato.
E veramente indispensabile che la confessione sia integra e completa.
Chi di proposito confessi in parte i peccati e in parte li ometta, non
solo non ritrarrà alcun vantaggio dalla confessione, ma si renderà reo
di una nuova colpa. Simile difettosa manifestazione di colpe non potrà
meritare il nome di confessione sacramentale. In tal caso il penitente
dovrà rinnovare la confessione, e in più si è fatto reo di un altro
peccato, perché ha violato la santità sacramentale con la simulazione
della Confessione.
Si badi però che le lacune della confessione, non volute di proposito,
ma provenienti da involontaria dimenticanza, o da manchevole
esplorazione della propria coscienza, pur sussistendo l'intenzione di
confessare tutte le proprie colpe, non impongono che tutta la
confessione sia ripetuta. Basterà in un'altra occasione confessare al
sacerdote le colpe dimenticate, dopo che esse siano tornate alla
memoria. Occorre badare a che l'esame di coscienza non sia troppo
sommario e rapido. Se saremo stati cosi negligenti nel)'esaminarci sui
peccati commessi, che possa dirsi di noi di non averli in realtà voluti
ricordare, saremo tenuti a ripetere la confessione.
La confessione deve essere schietta, semplice, aperta, non
artificiosamente concepita, come sogliono fare tanti che sembrano fare
più la storia della loro vita, che confessare i peccati. Essa deve
mostrarci al Sacerdote quali noi siamo, quali compariamo a noi stessi,
dando il certo per certo, il dubbio per dubbio. Simili doti mancheranno
alla confessione, se i peccati non vengono nettamente espressi, o in
essa vengono mescolati discorsi estranei alla materia.
Meritano lode coloro che espongono le cose con prudenza e verecondia.
Non è bene perdersi in lunghe frasi; ma succintamente, modestamente,
deve dirsi quanto riguarda la natura e l'entità di ciascun peccato. Cosi
il confessore come il penitente devono cercare con ogni mezzo che la
loro conversazione nella confessione sia segreta. Perciò non è mai
lecito confessare i peccati per mezzo di una terza persona o per
lettera, non essendo questi i modi di tener segreta una cosa.
Sarà massima cura dei fedeli purificare incessantemente l'anima mediante
la confessione frequente dei peccati. Nulla è più salutare per chi ha
l'anima gravata da colpa mortale, in mezzo ai molti pericoli della vita,
che confessare senza indugio i propri peccati. Del resto, pur potendosi
ripromettere una lunga vita, è veramente riprovevole che noi, mentre
usiamo tanta diligenza nel mondare il corpo e le vesti, non usiamo
altrettanta diligenza nel far si che lo splendore dell'anima non sia
offuscato dalle macchie di turpissimi peccati.
256.
Ministro
della confessione
È tempo di parlare del Ministro di questo sacramento, che è il
Sacerdote fornito della facoltà ordinaria o delegata di assolvere, come
vogliono le leggi ecclesiastiche. Chi deve attendere a simile mansione,
riveste non solo la potestà dell'ordine, ma anche quella di
giurisdizione. Alcune parole del Signore nel Vangelo di san Giovanni
offrono un'insigne testimonianza intorno a questo sacro ministero: A chi
rimetterete i peccati, saranno rimessi; e saranno ritenuti a chi li
riterrete (20,23). E evidente che queste parole non furono rivolte a
tutti, ma solamente agli Apostoli, ai quali i sacerdoti succedono in
questa funzione. E poiché ogni specie di grazia., impartita mediante
questo sacramento, rifluisce dal capo, che è G. Cristo, nelle membra, è
logico che esso sia impartito al corpo mistico di G. Cristo, vale a dire
ai fedeli, solo da coloro, che hanno la potestà di consacrare
sull'altare il suo corpo reale; tanto più che, in virtù di questo
sacramento della Penitenza, i fedeli vengono preparati e abilitati a
ricevere l'Eucaristia.
I vecchi decreti dei Padri lasciano agevolmente comprendere di quanto
rispetto fosse circondata nella Chiesa antichissima la potestà del
sacerdote ordinario. Essi stabilivano che nessun Vescovo o Sacerdote
compisse atti di amministrazione sacramentale nella parrocchia altrui,
senza l'autorizzazione di chi vi fosse preposto, o senza la
giustificazione di un'estrema necessità. In sostanza la stessa cosa
sanciva l'Apostolo, ordinando a Tito di porre sacerdoti in ogni città,
perché nutrissero e formassero i fedeli col pascolo celeste della
dottrina e dei sacramenti (Tt 1,5).
Qualora però sussista pericolo imminente di morte, né sia possibile
avere pronto il proprio Parroco, affinché nessuno in tali circostanze si
perda, il concilio di Trento insegna essere consuetudine della Chiesa di
Dio che ogni Sacerdote possa non solamente assolvere da ogni genere di
peccato, comunque riservato, ma anche sciogliere dal vincolo della
scomunica.
Oltre la potestà di ordine e di giurisdizione, strettamente necessarie,
il Ministro di questo sacramento sia fornito di vasta dottrina e di
prudenza, poiché egli deve essere insieme giudice e medico. Non basta
una scienza qualsiasi, perché tale giudice deve conoscere a fondo i
peccati commessi, assegnarli alle rispettive specie, distinguere i
leggeri dai gravi, secondo la qualità e il rango dei penitenti. Anche
come medico ha bisogno della massima sagacia, dovendo con cura
apprestare al malato quei rimedi che sembrino più acconci a risanarne
l'anima, e a premunirla in avvenire dall'insidia del male. Da ciò i
fedeli comprenderanno come ciascuno debba porre ogni studio nello
scegliersi un sacerdote raccomandato per integrità di vita, per dottrina
e chiaroveggenza; che sia capace di valutare convenientemente
l'importanza gravissima del suo ufficio, quale pena convenga a ciascun
peccato, chi sia da sciogliere e chi da lasciar senza assoluzione.
257.
Legge
del segreto
Siccome tutti desiderano ardentemente che le proprie colpe e le
proprie vergogne rimangano occulte, i Pastori assicureranno i fedeli che
non v'è ragione di temere che il Sacerdote riveli mai ad alcuno i
peccati ascoltati in confessione, e ne possa giammai derivare alcun
genere di pericolo. Le sanzioni sacre minacciano gravissimamente quei
sacerdoti che non abbiano tenuti sepolti nel più inviolabile silenzio i
peccati da chiunque confessati loro nel sacramento. Leggiamo fra i
decreti del grande concilio Lateranense: Badi il Sacerdote a non
rivelare mai con la parola, coi segni, o con qualsiasi altro mezzo, il
peccatore.
258.
Regole per ricevere le confessioni
L'ordine della nostra esposizione esige che dopo aver trattato del
ministro, svolgiamo alcuni punti principali sull'uso e lo svolgimento
della confessione. Vi sono molti fedeli ai quali par mill'anni che
trascorrano i giorni dalla legge ecclesiastica stabiliti per la
confessione; e sono cosi remoti dalla genuina professione cristiana, da
non curarsi di ricordare bene i peccati che dovrebbero denunciare al
Sacerdote, trascurando tutto ciò che può massimamente contribuire al
conseguimento della grazia divina. Con tanto maggiore studio occorre
quindi venire in soccorso alla loro salvezza. Perciò i sacerdoti
osserveranno bene, se il penitente abbia concepito vero dolore dei suoi
peccati, e se nutra deliberato proposito di non ricadérvi.
Se si accorgono che egli possiede tali disposizioni, lo esortino a
ringraziare Dio di cosi singolare beneficio e a implorare
incessantemente l'aiuto della divina grazia, col sussidio della quale
potrà resistere vittoriosamente alle malvagie concupiscenze. Lo
ammaestrino a meditare ogni giorno per un po' di tempo sui misteri della
passione di nostro Signore, a imitarlo, e a riscaldare il cuore d'amore
per lui. Mediante tale meditazione si sentirà ogni giorno più al sicuro
dalle demoniache tentazioni. Causa vera della nostra rapida e facile
disfatta dinanzi agli assalti del nemico è appunto il non cercare di
attingere dalla meditazione delle verità celesti il fuoco della divina
carità, capace di rinnovare e rafforzare lo spirito.
Qualora il Sacerdote comprenda che il penitente non si duole dei suoi
peccati in modo da dirsi veramente contrito, si sforzi perché concepisca
vivo desiderio di tale contrizione. Il desiderio ardente di tanto dono
lo indurrà a invocarlo dalla misericordia divina.
Si deve però innanzi tutto reprimere la superbia di chi si sforza di
scurare, o attenuare le proprie colpe. Vi sarà, ad esempio, chi,
confessando i propri scatti d'ira, ne vorrà far ricadere la causa su
altri, da cui si lamenterà di aver ricevuto ingiuria. Il sacerdote gli
faccia osservare che qui v'è un indizio di animo superbo, che non tiene
conto, o addirittura ignora l'entità della propria colpa; che simile
genere di scuse finisce con l'accrescere, anziché diminuire, la gravita
del male, poiché chi lo vuole spiegare cosi, lascia intendere d'essere
disposto a usare pazienza solo quando non sia ingiuriato da altri. Ci
potrebbe mai essere cosa meno degna di un cristiano? Avrebbe dovuto
invece dolersi quanto mai per colui che lo ha ingiuriato. Invece non è
colpito dallo spettacolo del male, ma si adira; e anziché cogliere
l'ottima occasione per prestare ossequio a Dio con la sua pazienza, e
correggere il fratello con la mitezza, trasforma un mezzo di salute in
mezzo di rovina.
Più perniciosa appare la colpa di coloro che, trattenuti da uno sciocco
pudore, non osano manifestare i propri peccati. Bisogna far loro animo
con le esortazioni; far loro intendere che non c'è motivo di vergognarsi
nel rivelare i loro vizi, e che non c'è da meravigliarsi,
nell'apprendere che un uomo ha peccato. Non è questo un male universale,
che rientra nella sfera dell'umana debolezza?
Vi sono altri poi che, per la poca consuetudine, o per la nessuna cura
posta nell'evocare il ricordo delle loro colpe, non sanno condurre bene
a termine una confessione cominciata, o non sanno neppure cominciarla.
Occorre vivamente rimproverarli e insegnare che, prima di presentarsi al
Sacerdote, devono con ogni cura concepire dolore dei peccati, il che è
impossibile se questi non sono stati distintamente e minutamente
ricordati.
Se il Sacerdote riconosce che codesti penitenti sono del tutto
impreparati, li congedi cortesemente, non mancando di esortarli a
prendere tempo per ricordare le proprie colpe e poi tornare. Se
protesteranno di avere già posto nella preparazione ogni studio e ogni
diligenza, - poiché il Sacerdote deve sempre avere timore che se
respinti non tornino più, - dovranno essere ascoltati, specialmente nel
caso che dimostrino sincera brama di correggere la propria vita, e
finiscano con l'accusare la propria negligenza e promettere di
compensarla nell'avvenire con maggiore riflessione. Però in tutto questo
è necessaria una scrupolosa cautela.
Ascoltata la confessione, se il Sacerdote giudica che non mancano al
penitente né la diligenza nell'esposizione delle colpe, né il dolore di
averle commesse, potrà assolverlo; altrimenti, come abbiamo detto,
raccomanderà maggiore attenzione nell'esame di coscienza e lo congederà
colla maggiore delicatezza.
Siccome accade che qualche donna, avendo dimenticato di accusare un
peccato in una confessione precedente, non osa tornare al Sacerdote, nel
timore di essere tenuta dal popolo rea di singolare malvagità, o avida
di lode per la sua religiosità, non sarà male insistere, in pubblico e
in privato, che nessuno può vantare tale memoria, da ricordare tutti e
singoli i suoi atti, i suoi detti e i suoi pensieri. Perciò i fedeli non
devono in nessun modo vergognarsi di tornare al sacerdote, qualora
ricordino un peccato prima dimenticato. Queste e altre simili regole
dovranno essere osservate dai sacerdoti nella confessione.
259.
Definizione e proprietà della soddisfazione
Veniamo alla terza parte della Penitenza, che è la soddisfazione.
Esporremo innanzi tutto il significato e l'efficacia della
soddisfazione, da cui i nemici della Chiesa Cattolica hanno tratto
ripetute occasioni di divergenza e discordia, con gravissimo pregiudizio
del popolo cristiano.
La soddisfazione è l'integrale pagamento di quello che è dovuto: poiché
è soddisfacente ciò a cui nulla manca. Sicché trattando della
riconciliazione per riottenere la grazia, soddisfare significa offrire
quel che a un animo irato apparisce sufficiente a vendicare l'ingiuria.
In altre parole, la soddisfazione è il compenso offerto per l'ingiuria
arrecata ad altri. Nel caso nostro i teologi usarono il vocabolo
soddisfazione, per indicare quel genere di compenso che l'uomo offre a
Dio per i peccati commessi.
E poiché in questo campo possono esserci molte gradazioni, la
soddisfazione può intendersi in vari modi.
La più alta ed eccellente soddisfazione è quella con la quale, a
compenso delle nostre colpe, è stato dato a Dio tutto ciò che da parte
nostra gli si doveva, pur supponendo che Dio abbia voluto trattarci a
rigore di diritto. Tale soddisfazione, che ci rese Dio placato e
propizio, fu offerta unicamente da G. Cristo Signor nostro; che sulla
croce sconto l'intero debito dei nostri peccati. Nessuna creatura
avrebbe potuto sgravarci di cosi pesante onere; per questo, egli,
secondo la parola di san Giovanni, si diede pegno di propiziazione per
le colpe nostre e per quelle di tutto il mondo (1Jn 2,2).
Questa è dunque la piena e globale soddisfazione, perfettamente adeguata
al debito contratto col cumulo di malvagie azioni commesse in tutta la
storia del mondo. Il suo valore riabilita gli atti umani al cospetto di
Dio; senza di esso, questi apparirebbero destituiti di qualsiasi pregio.
Sembrano valere in proposito le parole di Davide che, dopo avere
esclamato nella contemplazione dello spirito: Che cosa renderò al
Signore per quanto mi ha donato? nulla rinvenne degno di tanti e cosi
grandi benefici, al di fuori di questa soddisfazione, che espresse col
nome di calice: Prenderò il calice, della salvezza e invocherò il nome
del Signore (Ps 115,12).
Un secondo genere di soddisfazione è detto canonico; e si compie in un
determinato periodo di tempo. E antichissima consuetudine ecclesiastica
che, nel momento dell'assoluzione, sia assegnata ai penitenti una
penitenza determinata, il cui soddisfacimento è appunto chiamato
soddisfazione.
Col medesimo nome è pure indicato ogni genere di penalità, che
spontaneamente e deliberatamente affrontiamo a sconto dei nostri
peccati, anche senza l'imposizione del sacerdote.
Quest'ultima soddisfazione non spetta alla natura del sacramento, di cui
invece fa parte quella imposta per i peccati dal sacerdote di Dio, con
unito il fermo proposito di evitare in avvenire ogni peccato. Perciò
alcuni proposero questa definizione: " Soddisfare significa tributare a
Dio l'onore dovuto. Ma è evidente che nessuno può tributare a Dio
l'onore dovutogli, se non si proponga di evitare assolutamente ogni
colpa. Quindi soddisfare è anche un recidere le cause dei peccati, non
lasciare varco alla loro suggestione. Per questo altri preferiscono
definire la soddisfazione come la purificazione dell'anima da ogni
bruttura di peccato e l'affrancamento dalle pene temporali stabilite, i
cui vincoli la stringevano.
260.
Necessità della soddisfazione
Ciò posto, non sarà difficile persuadere i fedeli della necessità,
in cui si trovano i penitenti, di esercitarsi nella pratica della
soddisfazione.
Si deve loro insegnare che dal peccato scaturiscono due conseguenze: la
macchia e la pena. Poiché perdonata la colpa, risparmiato il supplizio
della morte eterna nell'inferno, non sempre accade, secondo la
definizione del Tridentino, che il Signore condoni i residui dei peccati
e la pena temporanea loro dovuta. Esempi significativi di questa verità
si riscontrano nella sacra Scrittura. Nel terzo capitolo della Genesi,
nei capi duodecimo e ventesimo dei Numeri, e altrove.
Ma l'esempio più insigne è offerto da Davide, il quale, sebbene avesse
udito dal profeta Nathan le parole rassicuratrici:Il Signore ha
cancellato il tuo peccato e tu non morrai (1S 12,13); pure
dovette sottostare a pene gravissime, implorando notte e giorno la
misericordia divina: Lavami abbondantemente dalla mia iniquità; mondami
dal mio peccato; riconosco la mia colpa; ho sempre dinanzi a me il mio
peccato (Ps 50,4). Cosi chiedeva al Signore di condonargli non
solamente il delitto, ma anche la pena ad esso dovuta; e che lo volesse
reintegrare nel primitivo stato di decoro, purgandolo da ogni residuo
peccaminoso. Eppure il Signore, nonostante le sue incessanti preci,
colpi Davide col tradimento e la morte del figlio adulterino e di
Assalonne, il prediletto, e con altre punizioni, in antecedenza
annunciate.
Anche nell'Esodo leggiamo che, sebbene il Signore, placato dalle
preghiere di Mosè, avesse perdonato al popolo idolatra, pure minaccio di
chiedere conto con gravi pene di cosi grande colpa; e lo stesso Mosè
previde che il Signore ne avrebbe tratto severissima vendetta fino alla
terza e quarta generazione (Ex 32,14-34). L'autorità dei santi
Padri attesta come questi ammaestramenti siano stati sempre vivi nella
Chiesa Cattolica.
Il santo concilio Tridentino spiega luminosamente la ragione, per cui
non tutta la pena viene condonata nel sacramento della Penitenza, come
invece accade nel Battesimo, con queste parole: L'essenza della
giustizia divina esige che in modo diverso siano ricevuti in grazia
coloro che per ignoranza peccarono prima del Battesimo, e coloro che,
una volta affrancati dalla schiavitù del peccato e del demonio,
insigniti del dono dello Spirito santo, non esitano a violare
consapevolmente il tempio di Dio e a contristare lo Spirito santo. In
questo caso conviene alla divina clemenza che non siano condonati i
peccati senza alcuna soddisfazione, perché alla prima occasione,
reputando poca cosa la colpa, disprezzando lo Spirito santo, non cadiamo
in misfatti più gravi, accumulando l'ira divina per il giorno della
vendetta. Senza dubbio le pene soddisfattorie trattengono efficamente
dal peccato e ci stringono con un freno potente, rendendoci più cauti e
vigili per l'avvenire (Sess. 14, e. 8).
Esse inoltre sono come prove documentarie del dolore concepito per i
peccati commessi: sono riparazione data alla Chiesa, gravemente lesa nel
suo decoro dalle nostre colpe. Scrive sant'Agostino: Dio non ripudia un
cuore contrito ed umiliato; ma perché spesso il dolore di un cuore è
ignorato da un altro, e non giunge a cognizione altrui con parole o con
altri segni, opportunamente sono stati fissati dalla Chiesa i periodi
della penitenza, affinché sia data soddisfazione alla Chiesa stessa, nel
cui grembo i peccati vengono rimessi (Ench. LXV).
Si aggiunga che gli esempi della nostra penitenza insegnano agli altri
come essi stessi debbano regolare la loro vita e battere la via della
pietà. Scorgendo le pene imposteci per i nostri peccati, gli altri
comprendono come siano necessarie nella vita speciali cautele, e come i
costumi vadano corretti. Per questo la Chiesa ha saggiamente stabilito
che chi ha pubblicamente peccato, sottostia a una penitenza parimente
pubblica; cosi gli altri, intimoriti, sappiano più diligentemente
evitare in seguito la colpa. Del resto anche per i peccati occulti
s'imponeva talvolta la penitenza pubblica, quando fossero molto gravi.
La regola però non ammetteva eccezione per i peccati pubblici, che non
venivano assolti prima della pubblica penitenza. Frattanto i pastori
pregavano Dio per il peccatore, e nel medesimo tempo lo esortavano a
fare altrettanto.
Va ricordata in proposito la premura di sant'Ambrogio, le cui lacrime, a
quanto è narrato, riuscirono più volte a infondere autentico dolore in
anime che si erano avvicinate con molta freddezza al sacramento della
Penitenza (Paolino, Vita,39). Più tardi, purtroppo, si è abbandonata la
severità dell'antica disciplina, essendosi raffreddata la carità; sicché
molti fedeli hanno finito col non ritenere necessari, per impetrare il
perdono dei peccati, alcun dolore intimo dell'animo, né gemito del
cuore; credendo sufficiente la semplice parvenza del dolore.
Infine sottostando alle debite pene, noi riproduciamo l'immagine del
nostro capo Gesù Cristo, che ha affrontato la passione e la prova (He
2,18). Come ha detto san Bernardo, che cosa si potrebbe concepire di
più deforme che un membro delicato, unito a un capo coronato di spine? (Serm.
5, Di tutti i Santi,9). Scrive infatti l'Apostolo che saremo coeredi con
Cristo, se soffriremo con lui (Rm 8,17); vivremo con lui, se
saremo morti insieme; regneremo con lui, se con lui avremo sofferto (2Tm
2,11).
Anche san Bernardo ha affermato che nel peccato si riscontrano la
macchia e la piaga; la prima è cancellata dalla misericordia divina, ma
a sanare la seconda è indispensabile la cura, che consiste nel rimedio
della penitenza. Come nella ferita rimarginata rimangono cicatrici, che
esigono esse stesse una cura, cosi nell'anima, assolta dalla colpa,
rimangono tracce bisognose ancora di rimedio. Una sentenza del
Crisostomo conferma questa verità, quando osserva che non basta estrarre
dal corpo la freccia, ma bisogna risanarne la ferita; cosi appunto
nell'anima, dopo conseguito il perdono della colpa, deve curarsi con la
penitenza la piaga rimasta. Ripetutamente insegna sant'Agostino che
nella Penitenza è necessario distinguere la misericordia dalla giustizia
di Dio; la prima rimette le colpe e le pene eterne meritate; la seconda
infligge al peccatore pene temporali (Sul Salmo L,7).
Del resto la pena penitenziale, volenterosamente accettata, previene i
supplizi stabiliti da Dio, come insegna l'Apostolo. Se ci giudicassimo
da noi stessi non saremmo giudicati; ma giudicati, dal Signore siamo
castigati per non essere condannati con questo mondo. (1Co 11,31).
Nell 'apprendere tutto ciò, i fedeli si sentiranno necessariamente
stimolati ad opere di penitenza.
261.
Efficacia e base della soddisfazione
Quanto grande sia l'efficacia della soddisfazione risulta dal fatto che
essa scaturisce tutta dai meriti della passione di nostro Signore Gesù
Cristo. In virtù della quale noi conseguiamo con le azioni virtuose i
due massimi beni: il premio della gloria immortale, poiché è scritto che
neppure un bicchiere d'acqua fresca dato nel suo nome mancherà di
congrua mercede (Mt 10,42); e il soddisfacimento che facciamo per
i nostri peccati.
Non è oscurata per questo la perfetta e sovrabbondante soddisfazione,
offerta da nostro Signore Gesù Cristo. Al contrario, è resa più insigne
e più luminosa. Risulta infatti più copiosa la grazia di G. Cristo per
il fatto che ci vengono comunicati non solo i suoi meriti personali, ma
anche quelli che, come capo, egli attua nei santi e nei giusti, che sono
sue membra. Infatti solo di là le azioni giuste e oneste dei pii
ricevono tanto valore e tanta importanza. Come la testa in rapporto a
tutto il corpo e la vite in rapporto ai tralci (Jn 15,4 Ep 4,15),
G. Cristo non cessa di diffondere la sua grazia in coloro che gli sono
uniti nella carità. E questa grazia previene sempre le nostre buone
azioni, le accompagna e le segue, rendendoci possibili il merito e la
soddisfazione da darsi a Dio.
Ne segue che nulla manca ai giusti. Mediante le opere compiute col
soccorso di Dio, essi possono soddisfare alla legge divina secondo la
capacità della natura umana e mortale; e possono meritare la vita
eterna, che conseguiranno se escono da questa vita ornati della grazia
divina. E nota la sentenza del Salvatore: Chi avrà bevuto l'acqua che io
darò, non avrà sete in eterno; e l'acqua che gli avrò dato, si
trasformerà in lui in una sorgente d'acqua che sale all'eterna vita (Jn
4,13).
La soddisfazione però deve possedere due requisiti. Innanzi tutto, chi
soddisfa deve essere giusto e amico di Dio. Le opere compiute senza fede
e senza carità non possono essere in nessun modo gradite a Dio. In
secondo luogo le opere intraprese siano tali da recare dolore e disagio;
perché dovendo esse riuscire compensatrici di passati peccati, e quasi,
secondo le parole di san Cipriano, redentrici del male fatto (Lett. LV),
occorre assolutamente che racchiudano qualcosa di amaro, sebbene non
sempre sia vero che chi si esercita in azioni onerose, per questo stesso
ne senta dolore. Spesso l'abitudine del soffrire o l'ardente amore di
Dio fanno si che anche pene gravissime siano appena percepite. Ciò non
toglie a tali opere la capacità di soddisfazione, poiché è proprio dei
figli di Dio l'essere cosi infiammati dall'amore divino, da non provare
incomodo in mezzo ai più acerbi dolori, sopportando tutto con animo
invitto.
262. Azioni soddisfattorie
I Parroci insegneranno che le opere capaci di valore
soddisfattorio possono ridursi a tre categorie: orazioni, digiuni,
elemosine, in corrispondenza al triplice ordine di beni, spirituali,
corporali, ed esteriori, che abbiamo ricevuto da Dio. Si trovano qui i
mezzi più atti ed efficaci a recidere le radici del peccato. Poiché
infatti il mondo è impastato di cupidigia carnale, di cupidigia degli
occhi, di superbia della vita, è chiaro che a queste tre cause di male
vanno contrapposte tre medicine: il digiuno, l'elemosina, la preghiera.
Tale classificazione appare ragionevole anche se si considerano le
persone offese dai nostri peccati e che sono Dio, il prossimo, noi
stessi. Ora noi plachiamo Dio con la preghiera; diamo soddisfazione al
prossimo con l'elemosina; dominiamo noi stessi col digiuno.
Ma poiché fatalmente la vita è accompagnata da innumerevoli angoscie e
disgrazie, ai fedeli si deve con ogni cura ricordare che tollerando
pazientemente quanto a Dio piaccia di mandarci, si accumula buon
materiale di meriti e di soddisfazione; mentre recalcitrando e
ripugnando alla sofferenza, si perde ogni frutto di soddisfazione,
esponendosi alla diretta punizione di Dio, giusto vendicatore della
colpa.
Veramente degna di ogni lode e di ogni ringraziamento è la bontà
clemente di Dio, il quale concesse all'umana debolezza che uno potesse
soddisfare per un altro; cosa che è in modo speciale propria di questa
parte della Penitenza. Se nessuno può pentirsi o fare la confessione
delle colpe al posto di altri, può però, chi è in grazia, sciogliere per
altri il debito contratto verso Dio; in altre parole, portare in qualche
modo il carico altrui. Il fedele non può in alcun modo dubitarne, poiché
nel Simbolo degli apostoli professiamo di credere nella comunione dei
santi.
Infatti se tutti, lavati nel medesimo Battesimo, rinasciamo a Cristo,
partecipiamo ai medesimi sacramenti, e principalmente ci alimentiamo e
ci dissetiamo col medesimo corpo e sangue di nostro Signore Gesù Cristo,
siamo evidentemente membra del medesimo corpo. Orbene, come il piede
adempie la sua funzione per il vantaggio, non solamente proprio, ma
anche, per es., degli occhi; e a sua volta la vista giova agli occhi e
insieme a tutte le membra; cosi dobbiamo reputare comuni fra tutti noi
le opere della soddisfazione. Vi sono però delle eccezioni, per quanto
riguarda i vantaggi che da esse scaturiscono. Le opere soddisfattone
infatti sono come medicine e metodi di cura, prescritti al penitente per
risanare le cattive inclinazioni del suo spirito: perciò non possono
partecipare della loro virtù risanatrice coloro che personalmente nulla
fanno per soddisfare.
263. A chi
deve negarsi l'assoluzione
Le tre parti della Penitenza: dolore, confessione,
soddisfazione, devono essere abbondantemente spiegate. I sacerdoti però,
ascoltata la confessione dei peccati e prima di assolvere il penitente,
vedano bene se questi sia veramente reo di avere sottratto qualcosa alla
sostanza o alla fama del prossimo. In tal caso dovrà riparare il danno e
non potrà essere assolto, se non promette di affrettarsi a restituire. E
poiché molti si dilungano nel promettere la riparazione, ma non si
decidono mai ad assolvere la promessa, devono esservi assolutamente
costretti, ripetendo l'ammonimento dell'Apostolo: Chi ha rubato, ormai
non rubi più; lavori piuttosto con le sue mani per venire incontro alle
necessità di chi soffre (Ep 4,28).
Nell'assegnare la pena soddisfattoria, i sacerdoti ricordino di non
fissarla a capriccio, bensì con giustizia, prudenza, e pietà. E affinché
i peccati risultino valutati secondo una regola, e i penitenti
riconoscano più agevolmente la gravita dei loro misfatti, sarà bene dir
loro talvolta quali pene fossero decretate dai vecchi canoni, detti
penitenziali, per determinati peccati. In generale la misura della
soddisfazione sarà data dalla natura della colpa. Tra tutte le forme di
soddisfazione è bene specialmente imporre ai penitenti di pregare in
determinati giorni per tutti, ma in modo particolare per coloro che
hanno lasciato questa vita nel nome del Signore. I sacerdoti li
esorteranno a ripetere spesso le medesime opere soddisfattone; a
foggiare i loro costumi in modo che, pur avendo coscienziosamente
compiuti tutti gli atti pertinenti al sacramento della confessione, non
tralascino per questo la pratica della virtù della penitenza. Che se
talora, a causa del pubblico scandalo, sarà necessario imporre una
penitenza pubblica, anche se il penitente cerchi di evitarla, e per
questo preghi, non gli si presti facilmente ascolto; ma è necessario
convincerlo a sottostare con animo pronto a quanto riesce salutare a lui
e agli altri.
Quanto siamo venuti esponendo relativamente al sacramento della
Penitenza e alle sue parti, sia spiegato in modo che non solo i fedeli
l'intendano perfettamente, ma anche, con l'aiuto del Signore, si sentano
indotti a eseguirlo piamente e religiosamente.
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