352. In questi due
comandamenti è riposto
il modo
per osservare gli altri
Si
noti prima di tutto che in questi due comandamenti, che sono stati dati
per ultimi, è quasi riposto il segreto per cui si possono osservare
tutti gli altri. Poiché quello che è imposto con queste parole mira a
questo: che se uno vuole osservare i suddetti comandi della Legge, deve
sopratutto badare a non desiderare disordinatamente. Infatti chi è
contento di quel che possiede, non desidera né brama le cose altrui.
Egli godrà dei vantaggi degli altri, darà gloria a Dio immortale, lo
ringrazierà più che può, onorerà il sabato, cioè godrà di perpetua pace,
onorerà i suoi maggiori, infine non offenderà alcuno né con atti né con
parole, né in altro modo. Infatti, origine e seme di tutti i mali è la
malvagia concupiscenza (1Tm 6,10 Jc 1,14; 1Tm 4,1),
giacché, chi ne è acceso, cade a precipizio in ogni sorta di turpitudini
e di colpe. Premesse queste avvertenze, il Parroco sarà molto diligente
nell'esporre quel che segue, e i fedeli più attentamente lo
ascolteranno.
Quantunque qui noi abbiamo unito due comandamenti, perché, essendone
simile l'argomento, tengono la medesima via nell'ammaestrarci, il
Parroco tuttavia, nell'esortare e nell'ammonire, potrà trattarli insieme
o separatamente, come gli sembrerà più conveniente. Se poi si assumerà
il compito di spiegare il Decalogo, mostri quale sia la dissomiglianza
tra i due comandamenti e in che cosa una concupiscenza differisca
dall'altra; la quale differenza è esposta da sant'Agostino nel libro
delle questioni sull'Esodo.
L'una di esse mira soltanto a ciò che è utile e a ciò che è vantaggioso;
l'altra ha per oggetto le libidini e i piaceri sessuali. Se dunque uno
desidera il podere o la casa d'altri, brama più il lucro o l'utile che
il piacere; se invece desidera la moglie altrui, arde non del desiderio
dell'utile, ma del piacere.
Duplice fu la necessità di questi comandamenti: la prima deriva
dall'esigenza di spiegare il senso del sesto e settimo comandamento.
Perché, quantunque con un certo naturale acume si potesse comprendere
che, vietato l'adulterio, era pur proibita la brama di possedere la
moglie altrui - giacché se fosse lecito il desiderare, dovrebbe esserlo
ugualmente il possedere - tuttavia molti Ebrei, accecati dal peccato,
non potevano essere indotti a credere che ciò fosse proibito; anzi, dopo
che fu divulgata e conosciuta questa legge divina, molti che si
professavano interpreti della Legge, caddero in questo errore, come si
può capire dal discorso del Signore, nel Vangelo di san Matteo: Udiste
come fu detto agli antichi: Non fare adulterio. Ma io vi dico... (Mt
5,27), con quel che segue. Seconda necessità di questi comandamenti
è di vietare distintamente ed esplicitamente certe colpe, non vietate
esplicitamente nei comandamenti sesto e settimo. Il settimo
comandamento, per es., proibisce che uno desideri ingiustamente le cose
altrui o tenti di prenderle; questo invece vieta che uno possa in
qualche modo desiderare le cose altrui, quand'anche potesse ottenerle a
buon diritto e secondo la legge, quando dal loro possesso derivasse un
danno al prossimo.
353.
In questi precetti è manifesta
la bontà di Dio verso di noi
Siano avvertiti i fedeli, prima di venire alla spiegazione del
comandamento, che noi con questa legge non siamo soltanto ammaestrati a
frenare le nostre cupidigie, ma anche a conoscer la pietà di Dio verso
di noi, che è immensa. Egli infatti, avendoci fornito con i precedenti
comandamenti della Legge una specie di difesa, perché nessuno potesse
danneggiare noi e le cose nostre, con questo comandamento supplementare
volle, sopratutto, provvedere che non ci danneggiassimo con i nostri
sfrenati desideri. Il che facilmente ci sarebbe accaduto se fosse stata
libera e intera per noi la possibilità di bramare e desiderare ogni
cosa. Col prescriverci, invece, questa legge su ciò che non dobbiamo
desiderare, Dio provvide a che gli stimoli delle passioni, dalle quali
possiamo più spesso esser incitati verso le cose a noi dannose, repressi
in qualche modo dal vigore di questa legge, meno ci assillino. E cosi,
liberati dalla molesta cura delle passioni, possiamo avere più tempo per
compiere quei doveri di pietà e di religione, che, in gran numero e
importantissimi, dobbiamo a Dio stesso.
Né questa norma c'insegna solo questo; ma ci ammonisce pure che la Legge
di Dio è di tal fatta che bisogna osservarla non solo col compiere le
obbligazioni esterne imposteci dal dovere, ma anche con l'intima
adesione dell'animo. E questa è la differenza tra le leggi divine e le
umane: queste si contentano dell'osservanza esterna; quelle invece,
poiché Dio penetra nell'animo nostro, richiedono vera e sincera castità
e integrità dell'animo stesso. La Legge divina è come uno specchio, in
cui vediamo i vizi della nostra natura; perciò l'Apostolo disse: Non
avrei conosciuto la concupiscenza, se la Legge non dicesse: Non
desiderare (Rm 7,7). Infatti, poiché la concupiscenza, cioè il
fomite del peccato che ebbe origine dal peccato originale, perdura
sempre in noi, veniamo a conoscere che siamo nati nel peccato; e perciò,
supplichevoli, ci rifugiamo presso Colui che, solo, può togliere le
sozzure del peccato.
354.
Le due parti del comandamento:
proibizioni e prescrizioni
Ognuno di questi due comandamenti ha questo in comune con gli altri: da
una parte, vieta qualche cosa, dall'altra parte, impone dei doveri da
compiere.
Per quanto riguarda la proibizione, perché nessuno creda che sia peccato
la concupiscenza non viziosa, - come è quella dello spirito contro la
carne (Ga 5,17), o quella che consiste nel chiedere a ogni
momento le divine giustificazioni (Ps 118,20), ciò che David
desiderava di ricordare, - il Parroco insegni quale sia la concupiscenza
che viene colpita dalla prescrizione di questa legge.
Si ricordi che la concupiscenza è un turbamento e uno stimolo
dell'animo, per opera del quale gli uomini desiderano le cose gradite
che non possiedono; ed a quel modo che gli altri appetiti dell'animo non
sempre sono cattivi, cosi questo stimolo della concupiscenza non sempre
deve essere riposto tra i vizi. Infatti non è cosa cattiva il desiderare
cibo o bevanda, bramare di riscaldarci quando abbiamo freddo, o di
rinfrescarci quando abbiamo caldo; anzi questo retto stimolo della
concupiscenza è insito nella nostra natura per opera di Dio. Ma per il
peccato dei nostri progenitori, accadde che esso, passando i confini
segnalati dalla natura, si depravo a tal segno, che spesso è incitato a
desiderare le cose, che ripugnano allo spirito e alla ragione.
Questo stimolo, se moderato e racchiuso nei suoi limiti, spesso procura
grandi vantaggi; perché, prima di tutto, fa in modo che noi preghiamo
Dio con assiduità e chiediamo supplichevoli a lui quello che sopratutto
desideriamo. L'orazione infatti è la manifestazione del desiderio; e, se
mancasse questo retto stimolo della concupiscenza, non ci sarebbero
tante preghiere nella Chiesa di Dio. Inoltre ci rende più cari i doni di
Dio, perché quanto più fortemente ardiamo del desiderio di una cosa,
tanto più cara e gradita ci diviene, quando l'abbiamo ottenuta. Lo
stesso piacere, poi, che proviamo per la cosa desiderata, ci fa
ringraziare Dio con maggiore devozione. Perciò, se qualche volta è
lecito desiderare, dobbiamo riconoscere che non è proibito ogni stimolo
di concupiscenza; e, quantunque san Paolo abbia detto che la
concupiscenza è peccato (Rm 7,20), bisogna intendere ciò nel
senso in cui parlo Mosè (Ex 20,17), del quale riporta la
testimonianza; e lo dichiara la parola dello stesso Apostolo, poiché
nella Lettera ai Galati chiama questo difetto: concupiscenza della
carne. Camminate, egli dice, nello spirito, e non soddisfate i desideri
della carne (5,16).
Dunque lo stimolo del desiderio naturale e moderato, che non esce dai
suoi limiti, non è proibito; e molto meno quella spirituale tendenza di
una retta mente, da cui siamo stimolati a desiderare ciò che ripugna
alla carne. Ad essa infatti ci esortano le sacre Scritture, dicendo:
Desiderate i miei discorsi (Sg 6,12); Venite a me tutti voi che
mi desiderate (Si 24,26).
Pertanto con questa proibizione non è vietato del tutto quel desiderio
che può condurre tanto al bene che al male; ma la consuetudine della
prava cupidigia, chiamata concupiscenza della carne e fomite di peccato,
la quale porta con sé il consenso dell'animo, deve esser sempre
annoverata tra i vizi. Dunque è vietata soltanto quella libidine di
concupiscenza, che l'Apostolo chiama concupiscenza della carne (Ga
5,16,24), cioè quei moti di concupiscenza che non hanno alcun freno di
ragione e non sono racchiusi nei limiti fissati da Dio.
Questa cupidigia è condannata, sia che desideri il male, come adulteri,
ebrietà, omicidi e altre simili colpe nefande, di cui l'Apostolo dice:
Non desideriamo ciò ch'è malvagio, come essi lo desiderarono (1Co
10,6); - sia che quanto desideriamo non sia lecito per noi,
quantunque le cose desiderate per natura non siano cattive. A questo
genere di cose appartiene ciò che Dio, o la Chiesa vietano di possedere;
non è infatti lecito desiderare ciò che è in generale proibito di
possedere, come lo erano nell'antica Legge, l'oro e l'argento che erano
serviti per farne idoli; le quali cose il Signore nel Deuteronomio vieto
di desiderare (7,25).
Inoltre questa viziosa bramosia è proibita perché le cose che si
desiderano sono di altri, come la casa, il servo, l'ancella, il campo,
la moglie, il bove, l'asino, e molte altre, che la Legge divina vieta di
desiderare appunto perché di altri. Il desiderio di tali cose è cattivo
e viene annoverato tra i più gravi peccati, quando l'animo da il suo
consenso. Infatti si ha naturalmente il peccato, quando, dopo l'impulso
di malvage passioni, l'animo si diletta di cose biasimevoli e consente o
non ripugna ad esse. Cosi insegna san Giacomo, allorché mostra l'origine
e il progredire del peccato, con queste parole: Ognuno è tentato,
attratto e allettato dalla propria concupiscenza. Quando poi la
concupiscenza ha concepito, produce il peccato; e il peccato quando è
stato consumato, genera la morte (I,14).
355.
Spiegazione del comandamento
Giacché siamo cosi messi in guardia dalla Legge che dice: Non
desiderare, queste parole si devono intendere nel senso che dobbiamo
tener lontano il desiderio dalle cose altrui; che la sete di cupidigia
per le cose degli altri è immensa e infinita, né mai si sazia. Sta
scritto infatti: L'avaro non si sazierà di denaro (Si 5,9); e
anche Isaia dice: Guai a voi che aggiungete casa a casa e unite campo
con campo (5,8). Ma dalla spiegazione delle singole parole più
facilmente capiremo la turpitudine e la gravita di questo peccato.
Il Parroco insegni che col termine casa, non s'intende soltanto il luogo
che abitiamo, ma tutti i beni ereditari, come si può ricavare
dall'usanza e consuetudine degli scrittori sacri. Nell'Esodo sta scritto
che alle levatrici furono edificate case da Dio (I,21); e la frase qui
significa che le loro sostanze furono aumentate e accresciute da Dio. Da
questa interpretazione conosciamo che questa parte del precetto vieta di
desiderare avidamente le ricchezze, di invidiare le facoltà, la potenza,
la nobiltà altrui, mentre ci è imposto di contentarci del nostro stato,
qualunque esso sia, umile o eccelso. Dobbiamo poi intendere che è
vietato anche il desiderio della gloria altrui, giacché anche questa ha
relazione con la casa.
Quel che segue poi: Né il bove né l'asino, mostra che non dobbiamo
desiderare non solo le cose importanti, come la casa, la nobiltà e la
gloria, quando siano d'altri, ma nemmeno le piccole, comunque siano,
animate o inanimate.
Segue ancora: Né il servo, né la serva; e ciò s'ha da intendere tanto
degli schiavi presi in guerra, quanto di tutti i servi, che non dobbiamo
desiderare, come ogni altro bene altrui. Quanto agli uomini liberi, che
servono di loro volontà, per denaro, per amore e affetto, in nessun
modo, né con parole, né con dar loro speranze, promesse, ricompense, si
devono corrompere o indurre ad abbandonare coloro ai quali
spontaneamente si sono vincolati; anzi, se prima del tempo pattuito per
il loro servigio, se ne allontanassero, siano ammoniti, con l'autorità
di questo comandamento, a farvi prontamente ritorno.
Quanto alla menzione che nel comandamento si fa del prossimo, essa mira
a dimostrare la colpa di coloro che insistono a desiderare i campi
vicini, le case contigue, o altra cosa siffatta, che sia a portata di
mano. La vicinanza, infatti, che suoi considerarsi come un vincolo
d'amicizia, talvolta cambia l'amore in odio, per colpa della cupidigia
di possedere. Ma non offendono affatto questo comandamento quelli che
desiderano comprare, o comprano a giusto prezzo dai vicini, quanto
questi possono vendere. Essi infatti non solo non danneggiano il
prossimo, ma lo aiutano grandemente, poiché il denaro gli sarà di
maggior comodo e vantaggio di quelle cose che vende.
Al precetto che vieta di desiderare la roba d'altri, segue l'altro che
vieta di desiderare la moglie degli altri; da quest'ultimo veniva
proibito non soltanto quella libidine di concupiscenza con cui
l'adultero desidera la moglie altrui, ma anche quella per la quale uno
desidera sposare la moglie d'altri. Infatti, quand'era permesso il
ricorso al libello del ripudio, poteva facilmente avvenire che la donna
ripudiata da uno fosse accolta in moglie da un altro. Ma il Signore lo
vieto, affinché né i mariti fossero stimolati a lasciare le mogli, né le
mogli si mostrassero scontrose e capricciose coi mariti, e cosi
s'imponesse loro quasi una certa necessità di ripudiarle.
Adesso dunque il peccato è più grave, perché un altro uomo non può
sposare una donna ripudiata dal marito, se non dopo la morte di questo;
e cosi chi desidera la moglie altrui, facilmente cadrà da un desiderio
all'altro: bramerà infatti o che muoia il marito di lei, o di commettere
un adulterio. Lo stesso si dica delle donne, promesse in matrimonio a un
altro; anche queste non è lecito desiderarle, giacché chi cerca di
rompere il fidanzamento, viola un santissimo vincolo religioso. A quel
modo poi che è somma nefandezza desiderare la donna d'altri, cosi non si
deve in nessun modo desiderare come moglie la donna, consacrata al culto
e alla religione di Dio.
Se poi uno desiderasse di prendere in moglie una donna maritata, non
credendola però tale, disposto però a non desiderarla, se la sapesse
maritata a un altro - come accadde al Faraone e ad Abimelech, che
desiderarono sposare Sara, credendola nubile e sorella, non già moglie
di Abramo (Gn 12,11 Gn 20,2 segg. ) -, colui che cosi pensa, non
viola questo precetto.
356.
Rimedi contro la concupiscenza
Perché il Parroco possa indicare i rimedi adatti a togliere questa
passione della cupidigia, deve spiegare l'altra parte del comandamento,
che consiste in questo: se le ricchezze abbondano, non dobbiamo
attaccarvi il cuore, ma essere invece sempre pronti a profonderle per
pietà e per amore delle cose divine, volentieri erogandole nel sollevare
le miserie dei poveri. Che se poi ci mancano i mezzi, dobbiamo
sopportare la povertà con animo sereno e ilare. E cosi, se saremo
liberali nel dare le cose nostre, estingueremo in noi il desiderio delle
altrui. Quanto alle lodi della povertà e al disprezzo delle ricchezze,
facilmente il Parroco potrà trovare molti argomenti nelle sacre
Scritture e nei santi Padri, per esporli al popolo fedele.
Con questa legge ci viene pure comandato di desiderare con ardente
passione e con tutta la forza dell'animo che si compia sopratutto non
ciò che desideriamo, ma quel che Dio vuole, secondo le parole
nell'Orazione domenicale. E la volontà di Dio è sopratutto questa: che
noi in maniera speciale diventiamo santi, conserviamo l'animo sincero,
integro e puro da ogni macchia, e ci esercitiamo in quei doveri della
mente e dello spirito, che ripugnano ai sensi materiali; cosicché,
domati i loro appetiti, teniamo nella vita la retta strada, sotto la
guida della ragione e dello spirito, e infine freniamo sopratutto
l'impeto violento di quei sensi che offrono materia alla nostra
cupidigia e alla libidine.
Ma a estinguere questo ardore di desideri giova moltissimo il proporci
dinanzi agli occhi i danni che ne derivano.
Primo danno è questo: se noi siamo schiavi di tali passioni, nell'anima
nostra regna fortissimo il potere del peccato; perciò l'Apostolo
ammonisce: Non regni il peccato nel vostro corpo mortale, in modo che
dobbiate ubbidire alle sue concupiscenze (Rm 6,12). Poiché, come
resistendo noi alle passioni, cadono a terra le forze del peccato, cosi,
soccombendo ad esse, cacciamo il Signore dal suo regno, ed in suo luogo
poniamo il peccato.
C'è poi il secondo danno: da questo impeto di concupiscenze, come da una
fonte, emanano tutti i peccati, come insegna san Giacomo (I,14). E san
Giovanni scrive: Tutto quello che è nel mondo, è concupiscenza della
carne, concupiscenza degli occhi e superbia della vita (1Jn 2,16).
Il terzo danno consiste in questo: dalle passioni viene oscurato il
retto giudizio dell'animo, perché gli uomini accecati dalle tenebre
delle passioni, giudicano onesto e bellissimo quanto essi bramano.
Infine l'impeto della concupiscenza soffoca la parola di Dio, posta
nelle anime da quel grande agricoltore che è Dio. Cosi infatti sta
scritto in san Marco: Gli altri (chicchi di grano) seminati tra le
spine, sono coloro che ascoltano la parola; ma le cure del mondo,
l'inganno delle ricchezze e le voglie delle altre cose s'insinuano a
soffocare la parola: la quale resta cosi infruttuosa (4,18,19).
357.
Chi soprattutto
debba esser tenuto lontano
dal vizio della concupiscenza
Più di tutti gli altri, sono colpiti da questi vizi della
concupiscenza e sono quindi più bisognosi di essere esortati dal Parroco
a osservare più diligentemente questo comandamento, quanti si dilettano
di giuochi disonesti, o abusano immoderatamente dei giuochi; cosi pure
quei mercanti che desiderano penuria d'ogni cosa e carestia, o
sopportano a malincuore che ci siano altri i quali riescono a vendere a
più caro prezzo, o a comperare più a buon mercato di loro.
Peccano allo stesso modo quanti desiderano che gli altri siano nel
bisogno, per potere nel commercio guadagnare di più. Cosi pure peccano
quei soldati che bramano la guerra per cupidigia di saccheggio; i medici
che desiderano le malattie; i giureconsulti che si augurano abbondanza
di cause e di liti; gli artigiani, infine, che, avidi di guadagno,
invocano penuria di quanto è necessario alla vita, per trame il maggior
lucro possibile. Inoltre, in questo peccano gravemente quanti sono avidi
e bramosi di acquistar lode e gloria, sia pure a prezzo di calunnia e
danno alla fama altrui; sopra tutto se coloro che desiderano lode e
gloria, sono uomini inetti e di nessun valore. Poiché la lode e la fama
sono premi del valore e del lavoro, non già dell'ignavia e della
nullità.
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