|
|
GIOVANNI
PAOLO II - Lettere Apostoliche:
SALVIFICI
DOLORIS
|
Capitolo I
|
Introduzione
|
Capitolo II
|
Il
mondo dell'umana sofferenza
|
Capitolo III
|
Alla
ricerca della risposta all'interrogativo sul senso della sofferenza
|
Capitolo IV
|
Gesù
Cristo: La sofferenza vinta dall'amore
|
Capitolo V
|
Partecipi
delle sofferenze di Cristo
|
Capitolo VI
|
Il
vangelo della sofferenza
|
Capitolo VII
|
Il
buon Samaritano
|
Capitolo VIII
|
Conclusione
|
|
LETTERA APOSTOLICA
SALVIFICI DOLORIS
DEL SOMMO PONTEFICE
GIOVANNI PAOLO II
AI VESCOVI, AI SACERDOTI,
ALLE FAMIGLIE RELIGIOSE
ED AI FEDELI DELLA CHIESA CATTOLICA
SUL SENSO CRISTIANO
DELLA SOFFERENZA UMANA
Venerati Fratelli nell'episcopato,
carissimi Fratelli e Sorelle in Cristo!
|
I
INTRODUZIONE
1. « Completo nella mia carne — dice l'apostolo Paolo spiegando
il valore salvifico della sofferenza — quello che manca ai patimenti di
Cristo, in favore del suo corpo che è la Chiesa »(1).
Queste parole sembrano trovarsi al termine del lungo cammino che
si snoda attraverso la sofferenza inserita nella storia dell'uomo ed
illuminata dalla Parola di Dio. Esse hanno quasi il valore di una
definitiva scoperta, che viene accompagnata dalla gioia; per questo
l'Apostolo scrive: « Perciò sono lieto delle sofferenze che sopporto per
voi »(2). La gioia proviene dalla scoperta del senso della sofferenza, ed
una tale scoperta, anche se vi partecipa in modo personalissimo Paolo di
Tarso che scrive queste parole, è al tempo stesso valida per gli altri.
L'Apostolo comunica la propria scoperta e ne gioisce a motivo di tutti
coloro che essa può aiutare — così come aiutò lui — a penetrare il senso
salvifico della sofferenza.
2. Il tema della sofferenza—proprio sotto l'aspetto di questo
senso salvifico—sembra essere profondamente inserito nel contesto
dell'Anno della Redenzione come giubileo straordinario della Chiesa; ed
anche questa circostanza si dimostra direttamente in favore
dell'attenzione da dedicare ad esso proprio durante questo periodo.
Indipendentemente da questo fatto, è un tema universale che accompagna
l'uomo ad ogni grado della longitudine e della latitudine geografica:
esso, in un certo senso, coesiste con lui nel mondo, e perciò esige di
essere costantemente ripreso. Anche se Paolo nella Lettera ai Romani ha
scritto che « tutta la creazione geme e soffre fino ad oggi nelle doglie
del parto »(3), anche se all'uomo sono note e vicine le sofferenze
proprie del mondo degli animali, tuttavia ciò che esprimiamo con la
parola « sofferenza » sembra essere particolarmente essenziale alla
natura dell'uomo. Ciò è tanto profondo quanto l'uomo, appunto perché
manifesta a suo modo quella profondità che è propria dell'uomo, ed a suo
modo la supera. La sofferenza sembra appartenere alla trascendenza
dell'uomo: essa è uno di quei punti, nei quali l'uomo viene in un certo
senso « destinato » a superare se stesso, e viene a ciò chiamato in
modo misterioso.
3. Se il tema della sofferenza esige di essere affrontato in modo
particolare nel contesto dell'Anno della Redenzione, ciò avviene prima di
tutto perché la redenzione si è compiuta mediante la Croce di
Cristo, ossia mediante la sua sofferenza. E al tempo stesso
nell'Anno della Redenzione ripensiamo alla verità espressa nell'Enciclica
Redemptor
hominis: in Cristo « ogni uomo diventa la via della Chiesa
»(4). Si può dire che l'uomo diventa in modo speciale la via della
Chiesa, quando nella sua vita entra la sofferenza. Ciò avviene — come
è noto — in diversi momenti della vita, si realizza in modi differenti,
assume diverse dimensioni; tuttavia, nell'una o nell'altra forma, la
sofferenza sembra essere, ed è, quasi inseparabile dall'esistenza
terrena dell'uomo.
Dato dunque che l'uomo, attraverso la sua vita terrena, cammina in
un modo o nell'altro sulla via della sofferenza, la Chiesa in ogni tempo
— e forse specialmente nell'Anno della Redenzione — dovrebbe
incontrarsi con l'uomo proprio su questa via. La Chiesa, che nasce dal
mistero della redenzione nella Croce di Cristo, è tenuta a cercare
l'incontro con l'uomo in modo particolare sulla via della sua
sofferenza. In un tale incontro l'uomo « diventa la via della Chiesa »,
ed è, questa, una delle vie più importanti.
4. Da qui deriva anche la presente riflessione, proprio nell'Anno
della Redenzione: la riflessione sulla sofferenza. La sofferenza umana
desta compassione, desta anche rispetto, ed a suo modo intimidisce.
In essa, infatti, è contenuta la grandezza di uno specifico mistero.
Questo particolare rispetto per ogni umana sofferenza deve esser posto
all'inizio di quanto verrà espresso qui successivamente dal più profondo
bisogno del cuore, ed anche dal profondo imperativo della fede. Intorno
al tema della sofferenza questi due motivi sembrano avvicinarsi
particolarmente tra loro ed unirsi: il bisogno del cuore ci ordina di
vincere il timore, e l'imperativo della fede — formulato, per esempio,
nelle parole di San Paolo, riportate all'inizio — fornisce il contenuto,
nel nome e in forza del quale osiamo toccare ciò che sembra in ogni uomo
tanto intangibile: poiché l'uomo, nella sua sofferenza, rimane un mistero
intangibile.
|
II
IL MONDO DELL' UMANA
SOFFERENZA
5. Anche se nella sua dimensione soggettiva, come fatto personale,
racchiuso nel concreto e irripetibile interno dell'uomo, la sofferenza
sembra quasi ineffabile ed incomunicabile al tempo stesso, forse
nient'altro quanto essa esige, nella sua « realtà oggettiva », che
sia trattata, meditata, concepita nella forma di un esplicito problema, e
che quindi intorno ad essa si pongano interrogativi di fondo e si cerchino
le risposte. Come si vede, non si tratta qui solo di dare una descrizione
della sofferenza. Vi sono altri criteri, che vanno oltre la sfera della
descrizione, e che dobbiamo introdurre, quando vogliamo penetrare il mondo
dell'umana sofferenza.
Può darsi che la medicina, come scienza ed insieme come
arte del curare, scopra sul vasto terreno delle sofferenze dell'uomo il settore
più conosciuto, quello identificato con maggior precisione e,
relativamente, più controbilanciato dai metodi del «reagire » (cioè
della terapia). Tuttavia, questo è solo un settore. Il terreno della
sofferenza umana è molto più vasto, molto più vario e
pluridimensionale. L'uomo soffre in modi diversi, non sempre contemplati
dalla medicina, neanche nelle sue più avanzate specializzazioni. La
sofferenza è qualcosa di ancora più ampio della malattia, di più
complesso ed insieme ancor più profondamente radicato nell'umanità
stessa. Una certa idea di questo problema ci viene dalla distinzione tra
sofferenza fisica e sofferenza morale. Questa distinzione prende come
fondamento la duplice dimensione dell'essere umano, ed indica l'elemento
corporale e spirituale come l'immediato o diretto soggetto della
sofferenza. Per quanto si possano, fino ad un certo grado, usare come
sinonimi le parole « sofferenza » e « dolore », la sofferenza
fisica si verifica quando in qualsiasi modo « duole il corpo »,
mentre la sofferenza morale è « dolore dell'anima ». Si tratta,
infatti, del dolore di natura spirituale, e non solo della dimensione «
psichica » del dolore che accompagna sia la sofferenza morale, sia quella
fisica. La vastità e la multiformità della sofferenza morale non sono
certamente minori di quella fisica; al tempo stesso, però, essa sembra
quasi meno identificata e meno raggiungibile dalla terapia.
6. La Sacra Scrittura è un grande libro sulla sofferenza. Riportiamo
dai Libri dell'Antico Testamento solo alcuni esempi di situazioni, che
recano i segni della sofferenza e, prima di tutto, di quella morale: il
pericolo di morte(5), la morte dei propri figli(6) e, specialmente, la
morte del figlio primogenito ed unico(7), e poi anche: la mancanza di
prole(8), la nostalgia per la patria(9), la persecuzione e l'ostilità
dell'ambiente(10), lo scherno e la derisione per il sofferente(11), la
solitudine e l'abbandono(12); ed ancora: i rimorsi di coscienza(13), la
difficoltà di capire perché i cattivi prosperano e i giusti
soffrono(14), l'infedeltà e l'ingratitudine da parte degli amici e dei
vicini(15); infine: le sventure della propria nazione(16).
L'Antico Testamento, trattando l'uomo come un « insieme »
psicofisico, unisce spesso le sofferenze « morali » col dolore di
determinate parti dell'organismo: delle ossa(17), dei reni(18), del
fegato(19), dei visceri(20), del cuore(21). Non si può, infatti, negare
che le sofferenze morali abbiano anche una loro componente « fisica », o
somatica, e che spesso si riflettano sullo stato dell'intero organismo.
7. Come si vede dagli esempi riportati, nella Sacra Scrittura
troviamo un vasto elenco di situazioni variamente dolorose per l'uomo.
Questo elenco diversificato certamente non esaurisce tutto ciò che in
tema di sofferenza ha già detto e costantemente ripete il libro della
storia dell'uomo (questo è piuttosto un « libro non scritto »), ed
ancor più il libro della storia dell'umanità, letto attraverso la storia
di ogni uomo.
Si può dire che l'uomo soffre, allorquando sperimenta un
qualsiasi male. Nel vocabolario dell'Antico Testamento il rapporto tra
sofferenza e male si pone in evidenza come identità. Quel vocabolario,
infatti, non possedeva una parola specifica per indicare la « sofferenza
»; perciò, definiva come « male » tutto ciò che era sofferenza»(22).
Solamente la lingua greca e, insieme con essa, il Nuovo Testamento (e le
versioni greche dall'Antico) si servono del verbo «pasko = sono affetto
da ..., provo una sensazione, soffro »; e grazie ad esso la sofferenza
non è più direttamente identificabile col male (oggettivo), ma esprime
una situazione nella quale l'uomo prova il male e, provandolo, diventa
soggetto di sofferenza. Questa invero ha, ad un tempo, carattere attivo
e passivo (da « patior »). Perfino quando l'uomo si provoca
da solo una sofferenza, quando è l'autore di essa, questa sofferenza
rimane qualcosa di passivo nella sua essenza metafisica.
Ciò, tuttavia, non vuol dire che la sofferenza in senso
psicologico non sia contrassegnata da una specifica « attività ». Questa
è, infatti, quella molteplice e soggettivamente differenziata « attività
» di dolore, di tristezza, di delusione, di abbattimento o, addirittura,
di disperazione, a seconda dell'intensità della sofferenza, della sua
profondità e, indirettamente, a seconda di tutta la struttura del
soggetto sofferente e della sua specifica sensibilità. Al centro di ciò
che costituisce la forma psicologica della sofferenza si trova sempre un'esperienza
del male, a causa del quale l'uomo soffre.
Così dunque la realtà della sofferenza provoca l'interrogativo
sull'essenza del male: che cosa è il male?
Questo interrogativo sembra, in un certo senso, inseparabile dal
tema della sofferenza. La risposta cristiana ad esso è diversa da quella
che viene data da alcune tradizioni culturali e religiose, le quali
ritengono che l'esistenza sia un male, dal quale bisogna liberarsi. Il
cristianesimo proclama l'essenziale bene dell'esistenza e il bene
di ciò che esiste, professa la bontà del Creatore e proclama il bene
delle creature. L'uomo soffre a causa del male, che è una certa mancanza,
limitazione o distorsione del bene. Si potrebbe dire che l'uomo soffre a
motivo di un bene al quale egli non partecipa, dal quale viene, in un
certo senso, tagliato fuori, o del quale egli stesso si è privato. Soffre
in particolare quando « dovrebbe » aver parte—nell'ordine normale
delle cose—a questo bene, e non l'ha.
Cosi dunque nel concetto cristiano la realtà della sofferenza si
spiega per mezzo del male, che è sempre, in qualche modo, in riferimento
ad un bene.
8. La sofferenza umana costituisce in se stessa quasi uno
specifico « mondo » che esiste insieme all'uomo, che appare in
lui e passa, e a volte non passa, ma in lui si consolida ed approfondisce.
Questo mondo della sofferenza, diviso in molti, in numerosissimi soggetti,
esiste quasi nella dispersione. Ogni uomo, mediante la sua
personale sofferenza, costituisce non solo una piccola parte di quel «
mondo », ma al tempo stesso quel « mondo » è in lui come un'entità
finita e irripetibile. Di pari passo con ciò va, tuttavia, la dimensione
interumana e sociale. Il mondo della sofferenza possiede quasi una sua propria
compattezza. Gli uomini sofferenti si rendono simili tra loro mediante
l'analogia della situazione, la prova del destino, oppure mediante il
bisogno di comprensione e di premura, e forse soprattutto mediante il
persistente interrogativo circa il senso di essa. Benché dunque il mondo
della sofferenza esista nella dispersione, al tempo stesso contiene in se'
una singolare sfida alla comunione e alla solidarietà. Cercheremo
anche di seguire un tale appello nella presente riflessione.
Pensando al mondo della sofferenza nel suo significato personale
ed insieme collettivo, non si può, infine, non notare il fatto che un tal
mondo, in alcuni periodi di tempo ed in alcuni spazi dell'esistenza umana,
quasi si addensa in modo particolare. Ciò accade, per esempio, nei
casi di calamità naturali, di epidemie, di catastrofi e di cataclismi, di
diversi flagelli sociali: si pensi, ad esempio, a quello di un cattivo
raccolto e legato ad esso — oppure a diverse altre cause — al flagello
della fame.
Si pensi, infine, alla guerra. Parlo di essa in modo speciale.
Parlo della ultime due guerre mondiali, delle quali la seconda ha portato
con se' una messe molto più grande di morte ed un cumulo più pesante di
umane sofferenze. A sua volta, la seconda metà del nostro secolo — quasi
in proporzione agli errori ed alle trasgressioni della nostra civiltà
contemporanea — porta in se' una minaccia così orribile di guerra
nucleare, che non possiamo pensare a questo periodo se non in termini di un
accumulo incomparabile di sofferenze, fino alla possibile
auto-distruzione dell'umanità. In questo modo quel mondo di sofferenza,
che in definitiva ha il suo soggetto in ciascun uomo, sembra trasformarsi
nella nostra epoca — forse più che in qualsiasi altro momento — in
una particolare « sofferenza del mondo »: del mondo che come non mai è
trasformato dal progresso per opera dell'uomo e, in pari tempo, come non
mai è in pericolo a causa degli errori e delle colpe dell'uomo.
|
III
ALLA RICERCA DELLA
RISPOSTA ALL' INTERROGATIVO
SUL SENSO DELLA SOFFERENZA
9. All'interno di ogni singola sofferenza provata dall'uomo e,
parimenti, alla base dell'intero mondo delle sofferenze appare
inevitabilmente l'interrogativo: perché? E' un interrogativo circa
la causa, la ragione, ed insieme un interrogativo circa lo scopo (perché?)
e, in definitiva, circa il senso. Esso non solo accompagna l'umana
sofferenza, ma sembra addirittura determinarne il contenuto umano, ciò
per cui la sofferenza è propriamente sofferenza umana.
Ovviamente il dolore, specie quello fisico, è ampiamente diffuso
nel mondo degli animali. Però solo l'uomo, soffrendo, sa di soffrire e se
ne chiede il perché; e soffre in modo umanamente ancor più profondo, se
non trova soddisfacente risposta. Questa è una domanda difficile, così
come lo è un'altra, molto affine, cioè quella intorno al male. Perché
il male? Perché il male nel mondo? Quando poniamo l'interrogativo in
questo modo, facciamo sempre, almeno in una certa misura, una domanda
anche sulla sofferenza.
L'uno e l'altro interrogativo sono difficili, quando l'uomo li
pone all'uomo, gli uomini agli uomini, come anche quando l'uomo li pone
a Dio. L'uomo, infatti, non pone questo interrogativo al mondo, benché
molte volte la sofferenza gli provenga da esso, ma lo pone a Dio come al
Creatore e al Signore del mondo. Ed è ben noto come sul terreno di questo
interrogativo si arrivi non solo a molteplici frustrazioni e conflitti nei
rapporti dell'uomo con Dio, ma capiti anche che si giunga alla
negazione stessa di Dio. Se, infatti, l'esistenza del mondo apre quasi
lo sguardo dell'anima umana all'esistenza di Dio, alla sua sapienza,
potenza e magnificenza, allora il male e la sofferenza sembrano offuscare
quest'immagine, a volte in modo radicale, tanto più nella quotidiana
drammaticità di tante sofferenze senza colpa e di tante colpe senza
adeguata pena. Perciò, questa circostanza — forse ancor più di
qualunque altra — indica quanto sia importante l'interrogativo sul
senso della sofferenza, e con quale acutezza occorra trattare sia
l'interrogativo stesso, sia ogni possibile risposta da darvi.
10. L'uomo può rivolgere un tale interrogativo a Dio con tutta la
commozione del suo cuore e con la mente piena di stupore e di
inquietudine; e Dio aspetta la domanda e l'ascolta, come vediamo nella
Rivelazione dell'Antico Testamento. Nel Libro di Giobbe l'interrogativo ha
trovato la sua espressione più viva.
E' nota la storia di questo uomo giusto, il quale senza nessuna
colpa da parte sua viene provato da innumerevoli sofferenze. Egli perde i
beni, i figli e le figlie, ed infine viene egli stesso colpito da una
grave malattia. In quest'orribile situazione si presentano nella sua casa
i tre vecchi conoscenti, i quali — ognuno con diverse parole — cercano
di convincerlo che, poiché è stato colpito da una così molteplice e
terribile sofferenza, egli deve aver commesso una qualche colpa grave. La
sofferenza — essi dicono — colpisce infatti sempre l'uomo come pena
per un reato; viene mandata da Dio assolutamente giusto e trova la propria
motivazione nell'ordine della giustizia. Si direbbe che i vecchi amici di
Giobbe vogliano non solo convincerlo della giustezza morale del
male, ma in un certo senso tentino di difendere davanti a se'
stessi il senso morale della sofferenza. Questa, ai loro occhi, può avere
esclusivamente un senso come pena per il peccato, esclusivamente dunque
sul terreno della giustizia di Dio, che ripaga col bene il bene e col male
il male.
Il punto di riferimento è in questo caso la dottrina espressa in
altri scritti dell'Antico Testamento, che ci mostrano la sofferenza come
pena inflitta da Dio per i peccati degli uomini. Il Dio della Rivelazione
è Legislatore e Giudice in una tale misura, quale nessuna autorità
temporale può avere. Il Dio della Rivelazione, infatti, è prima di tutto
il Creatore, dal quale, insieme con l'esistenza, proviene il
bene essenziale della creazione. Pertanto, anche la consapevole e libera
violazione di questo bene da parte dell'uomo è non solo una trasgressione
della legge, ma al tempo stesso un'offesa al Creatore, che è il primo
Legislatore. Tale trasgressione ha carattere di peccato, secondo il
significato esatto, cioè biblico e teologico, di questa parola. Al male
morale del peccato corrisponde la punizione, che garantisce l'ordine
morale nello stesso senso trascendente, nel quale quest'ordine è
stabilito dalla volontà del Creatore e supremo Legislatore. Di qui deriva
anche una delle fondamentali verità della fede religiosa, basata del pari
sulla Rivelazione: che cioè Dio è giudice giusto, il quale premia il
bene e punisce il male: « Tu, Signore, sei giusto in tutto ciò che hai
fatto; tutte le tue opere sono vere, rette le tue vie e giusti tutti i
tuoi giudizi. Giusto è stato il tuo giudizio per quanto hai fatto
ricadere su di noi ... Con verità e giustizia tu ci hai inflitto tutto
questo a causa dei nostri peccati »(23).
Nell'opinione espressa dagli amici di Giobbe, si manifesta una
convinzione che si trova anche nella coscienza morale dell'umanità:
l'ordine morale oggettivo richiede una pena per la trasgressione, per il
peccato e per il reato. La sofferenza appare, da questo punto di vita,
come un « male giustificato ». La convinzione di coloro che spiegano la
sofferenza come punizione del peccato trova il suo sostegno nell'ordine
della giustizia, e ciò corrisponde all'opinione espressa da un amico di
Giobbe: « Per quanto io ho visto, chi coltiva iniquità, chi semina
affanni, li raccoglie »(24).
11. Giobbe, tuttavia, contesta la verità del principio, che
identifica la sofferenza con la punizione del peccato. E lo fa in base
alla propria opinione. Infatti, egli è consapevole di non aver meritato
una tale punizione, anzi espone il bene che ha fatto nella sua vita. Alla
fine Dio stesso rimprovera gli amici di Giobbe per le loro accuse e
riconosce che Giobbe non è colpevole. La sua è la sofferenza di un
innocente; deve essere accettata come un mistero, che l'uomo non è in
grado di penetrare fino in fondo con la sua intelligenza.
Il Libro di Giobbe non intacca le basi dell'ordine morale
trascendente, fondato sulla giustizia, quali son proposte dalla
Rivelazione, nell'Antica e nella Nuova Alleanza. Al tempo stesso, però,
il Libro dimostra con tutta fermezza che i principi di quest'ordine non si
possono applicare in modo esclusivo e superficiale. Se è vero che la
sofferenza ha un senso come punizione, quando è legata alla colpa, non
è vero, invece, che ogni sofferenza sia conseguenza della colpa ed
abbia carattere di punizione. La figura del giusto Giobbe ne è una
prova speciale nell'Antico Testamento. La Rivelazione, parola di Dio
stesso, pone con tutta franchezza il problema della sofferenza dell'uomo
innocente: la sofferenza senza colpa. Giobbe non è stato punito, non vi
erano le basi per infliggergli una pena, anche se è stato sottoposto ad
una durissima prova. Dall'introduzione del Libro risulta che Dio permise
questa prova per provocazione di Satana. Questi, infatti, aveva contestato
davanti al Signore la giustizia di Giobbe: « Forse che Giobbe teme Dio
per nulla? ... Tu hai benedetto il lavoro delle sue mani, e il suo
bestiame abbonda sulla terra. Ma stendi un poco la mano e tocca quanto ha,
e vedrai come ti benedirà in faccia »(25). E se il Signore acconsente a
provare Giobbe con la sofferenza, lo fa per dimostrarne la giustizia. La
sofferenza ha carattere di prova.
I1 Libro di Giobbe non è l'ultima parola della Rivelazione su
questo tema. In un certo modo esso è un annuncio della passione di
Cristo. Ma, già da solo, è un argomento sufficiente, perché la
risposta all'interrogativo sul senso della sofferenza non sia collegata
senza riserve con l'ordine morale, basato sulla sola giustizia. Se una
tale risposta ha una sua fondamentale e trascendente ragione e validità,
al tempo stesso essa si dimostra non solo insoddisfacente in casi analoghi
alla sofferenza del giusto Giobbe, ma anzi sembra addirittura appiattire
ed impoverire il concetto di giustizia, che incontriamo nella
Rivelazione.
12. Il Libro di Giobbe pone in modo acuto il « perché » della
sofferenza, mostra pure che essa colpisce l'innocente, ma non dà ancora
la soluzione al problema.
Già nell'Antico Testamento notiamo un orientamento che tende a
superare il concetto, secondo cui la sofferenza ha senso unicamente come
punizione del peccato, in quanto si sottolinea nello stesso tempo il
valore educativo della pena sofferenza. Così dunque, nelle sofferenze
inflitte da Dio al popolo eletto è racchiuso un invito della sua
misericordia, la quale corregge per condurre alla conversione: « Questi
castighi non vengono per la distruzione, ma per la correzione del nostro
popolo »(26).
Così si afferma la dimensione personale della pena. Secondo tale
dimensione, la pena ha senso non soltanto perché serve a ripagare lo
stesso male oggettivo della trasgressione con un altro male, ma prima di
tutto perché essa crea la possibilità di ricostruire il bene nello
stesso soggetto sofferente.
Questo è un aspetto estremamente importante della sofferenza.
Esso è profondamente radicato nell'intera Rivelazione dell'Antica e,
soprattutto, della Nuova Alleanza. La sofferenza deve servire alla
conversione, cioè alla ricostruzione del bene nel soggetto,
che può riconoscere la misericordia divina in questa chiamata alla
penitenza. La penitenza ha come scopo di superare il male, che sotto
diverse forme è latente nell'uomo, e di consolidare il bene sia in lui
stesso, sia nei rapporti con gli altri e, soprattutto, con Dio.
13. Ma per poter percepire la vera risposta al « perché » della
sofferenza, dobbiamo volgere il nostro sguardo verso la rivelazione
dell'amore divino, fonte ultima del senso di tutto ciò che esiste.
L'amore è anche la fonte più ricca del senso della sofferenza, che
rimane sempre un mistero: siamo consapevoli dell'insufficienza ed
inadeguatezza delle nostre spiegazioni. Cristo ci fa entrare nel mistero e
ci fa scoprire il « perché » della sofferenza, in quanto siamo capaci
di comprendere la sublimità dell'amore divino.
Per ritrovare il senso profondo della sofferenza, seguendo la
Parola rivelata di Dio, bisogna aprirsi largamente verso il soggetto umano
nella sua molteplice potenzialità. Bisogna, soprattutto, accogliere la
luce della Rivelazione non soltanto in quanto essa esprime l'ordine
trascendente della giustizia, ma in quanto illumina questo ordine con
l'amore, quale sorgente definitiva di tutto ciò che esiste. L'Amore è
anche la sorgente più piena della risposta all'interrogativo sul senso
della sofferenza. Questa risposta è stata data da Dio all'uomo nella
Croce di Gesù Cristo.
|
IV
GESU' CRISTO: LA
SOFFERENZA VINTA DALL'AMORE
14. « Dio infatti ha tanto amato il mondo che ha dato il suo
Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la
vita eterna »(27).
Queste parole, pronunciate da Cristo nel colloquio con Nicodemo,
ci introducono nel centro stesso dell'azione salvifica di Dio. Esse
esprimono anche l'essenza stessa della soteriologia cristiana, cioè della
teologia della salvezza. Salvezza significa liberazione dal male, e per ciò
stesso rimane in stretto rapporto col problema della sofferenza. Secondo
le parole rivolte a Nicodemo, Dio dà il suo Figlio al « mondo » per
liberare l'uomo dal male, che porta in se' la definitiva ed assoluta
prospettiva della sofferenza. Contemporaneamente, la stessa parola « dà
» («ha dato ») indica che questa liberazione deve essere compiuta
dal Figlio unigenito mediante la sua propria sofferenza. E in ciò si
manifesta l'amore, l'amore infinito sia di quel Figlio unigenito, sia del
Padre, il quale « dà » per questo il suo Figlio. Questo è l'amore per
l'uomo, l'amore per il « mondo »: è l'amore salvifico.
Ci troviamo qui — occorre rendersene conto chiaramente nella
nostra comune riflessione su questo problema — in una dimensione
completamente nuova del nostro tema. E' dimensione diversa da quella che
determinava e, in un certo senso, chiudeva la ricerca del significato
della sofferenza entro i limiti della giustizia. Questa è la
dimensione della Redenzione , alla quale nell'Antico Testamento già
sembrano preludere, almeno secondo il testo della Volgata, le parole del
giusto Giobbe: « Io so infatti che il mio Redentore vive, e che
nell'ultimo giorno... vedrò il mio Dio... »(28). Mentre finora la nostra
considerazione si è concentrata prima di tutto e, in un certo senso,
esclusivamente sulla sofferenza nella sua molteplice forma temporale (come
anche le sofferenze del giusto Giobbe), invece le parole, ora riportate
dal colloquio di Gesù con Nicodemo, riguardano la sofferenza nel suo
senso fondamentale e definitivo. Dio dà il suo Figlio unigenito,
affinché l'uomo « non muoia », e il significato di questo « non muoia
» viene precisato accuratamente dalle parole successive: « ma abbia la
vita eterna ».
L'uomo « muore », quando perde « la vita eterna ». Il
contrario della salvezza non è, quindi, la sola sofferenza temporale, una
qualsiasi sofferenza, ma la sofferenza definitiva: la perdita della vita
eterna, l'essere respinti da Dio, la dannazione. Il Figlio unigenito è
stato dato all'umanità per proteggere l'uomo, prima di tutto, contro
questo male definitivo e contro la sofferenza definitiva. Nella sua
missione salvifica egli deve, dunque, toccare il male alle sue stesse
radici trascendentali, dalle quali esso si sviluppa nella storia
dell'uomo. Tali radici trascendentali del male sono fissate nel peccato e
nella morte: esse, infatti, si trovano alla base della perdita della vita
eterna. La missione del Figlio unigenito consiste nel vincere il
peccato e la morte. Egli vince il peccato con la sua obbedienza fino
alla morte, e vince la morte con la sua risurrezione.
15. Quando si dice che Cristo con la sua missione tocca il male
alle sue stesse radici, noi abbiamo in mente non solo il male e la
sofferenza definitiva, escatologica (perché l'uomo « non muoia, ma abbia
la vita eterna »), ma anche — almeno indirettamente — il male e la
sofferenza nella loro dimensione temporale e storica. Il
male, infatti, rimane legato al peccato e alla morte. E anche se con
grande cautela si deve giudicare la sofferenza dell'uomo come conseguenza
di peccati concreti (ciò indica proprio l'esempio del giusto Giobbe),
tuttavia essa non può essere distaccata dal peccato delle origini, da ciò
che in san Giovanni è chiamato « il peccato del mondo »(29), dallo
sfondo peccaminoso delle azioni personali e dei processi sociali nella
storia dell'uomo. Se non è lecito applicare qui il criterio ristretto
della diretta dipendenza (come facevano i tre amici di Giobbe), tuttavia
non si può neanche rinunciare al criterio che, alla base delle umane
sofferenze, vi è un multiforme coinvolgimento nel peccato.
Similmente avviene quando si tratta della morte. Molte
volte essa è attesa persino come una liberazione dalle sofferenze di
questa vita. Al tempo stesso, non è possibile lasciarsi sfuggire che essa
costituisce quasi una definitiva sintesi della loro opera distruttiva sia
nell'organismo corporeo che nella psiche. Ma, prima di tutto la morte
comporta la dissociazione dell'intera personalità psicofisica
dell'uomo. L'anima sopravvive e sussiste separata dal corpo, mentre il
corpo viene sottoposto ad una graduale decomposizione secondo le parole
del Signore Dio, pronunciate dopo il peccato commesso dall'uomo agli inizi
della sua storia terrena: « Tu sei polvere e in polvere ritornerai »(30).
Anche se dunque la morte non è una sofferenza nel senso temporale della
parola, anche se in un certo modo si trova al di là di tutte le
sofferenze, contemporaneamente il male, che l'essere umano sperimenta
in essa, ha un caratere definitivo e totalizzante. Con la sua opera
salvifica il Figlio unigenito libera l'uomo dal peccato e dalla morte.
Prima di tutto egli cancella dalla storia dell'uomo il dominio
del peccato, che si è radicato sotto l'influsso dello Spirito
maligno, iniziando dal peccato originale, e dà poi all'uomo la possibilità
di vivere nella Grazia santificante. Sulla scia della vittoria sul peccato
egli toglie anche il dominio della morte, dando, con la sua
risurrezione, l'avvio alla futura risurrezione dei corpi. L'una e l'altra
sono condizione essenziale della « vita eterna », cioè della definitiva
felicità dell'uomo in unione con Dio; ciò vuol dire, per i salvati, che
nella prospettiva escatologica la sofferenza è totalmente cancellata.
In conseguenza dell'opera salvifica di Cristo l'uomo esiste sulla
terra con la speranza della vita e della santità eterne. E anche
se la vittoria sul peccato e sulla morte, riportata da Cristo con la sua
croce e risurrezione, non abolisce le sofferenze temporali dalla vita
umana, né libera dalla sofferenza l'intera dimensione storica
dell'esistenza umana, tuttavia su tutta questa dimensione e su ogni
sofferenza essa getta una luce nuova, che è la luce della
salvezza. E' questa la luce del Vangelo, cioè della Buona Novella. Al
centro di questa luce si trova la verità enunciata nel colloquio con
Nicodemo: « Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio
unigenito »(31). Questa verità cambia dalle sue fondamenta il quadro
della storia dell'uomo e della sua situazione terrena: nonostante il
peccato che si è radicato in questa storia e come eredità originale e
come « peccato del mondo » e come somma dei peccati personali, Dio Padre
ha amato il Figlio unigenito, cioè lo ama in modo durevole; nel tempo
poi, proprio per quest'amore che supera tutto, egli « dà » questo
Figlio, affinché tocchi le radici stesse del male umano e così si
avvicini in modo salvifico all'intero mondo della sofferenza, di cui
l'uomo è partecipe.
16. Nella sua attività messianica in mezzo a Israele Cristo si è
avvicinato incessantemente al mondo dell'umana sofferenza. « Passò
facendo del bene »(32), e questo suo operare riguardava, prima di tutto,
i sofferenti e coloro che attendevano aiuto. Egli guariva gli ammalati,
consolava gli afflitti, nutriva gli affamati, liberava gli uomini dalla
sordità, dalla cecità, dalla lebbra, dal demonio e da diverse
minorazioni fisiche, tre volte restituì ai morti la vita. Era sensibile a
ogni umana sofferenza, sia a quella del corpo che a quella dell'anima. E
al tempo stesso ammaestrava, ponendo al centro del suo insegnamento le
otto beatitudini, che sono indirizzate agli uomini provati da svariate
sofferenze nella vita temporale. Essi sono « i poveri in spirito » e «
gli afflitti », e « quelli che hanno fame e sete della giustizia » e «
i perseguitati per causa della giustizia », quando li insultano, li
perseguitano e mentendo, dicono ogni sorta di male contro di loro per
causa di Cristo(33)... Così secondo Matteo; Luca menziona esplicitamente
coloro « che ora hanno fame »(34).
Ad ogni modo Cristo si è avvicinato soprattutto al mondo
dell'umana sofferenza per il fatto di aver assunto egli stesso questa
sofferenza su di se'. Durante la sua attività pubblica provò non
solo la fatica, la mancanza di una casa, l'incomprensione persino da parte
dei più vicini, ma, più di ogni cosa, venne sempre più ermeticamente
circondato da un cerchio di ostilità e divennero sempre più chiari i
preparativi per toglierlo di mezzo dai viventi. Cristo è consapevole di
ciò, e molte volte parla ai suoi discepoli delle sofferenze e della morte
che lo attendono: « Ecco, noi saliamo a Gerusalemme e il Figlio dell'uomo
sarà consegnato ai sommi sacerdoti e agli scribi: lo condanneranno
a morte, lo consegneranno ai pagani, lo scherniranno, gli sputeranno
addosso, lo flagelleranno e lo uccideranno; ma dopo tre giorni risusciterà
»(35). Cristo va incontro alla sua passione e morte con tutta la
consapevolezza della missione che ha da compiere proprio in questo modo.
Proprio per mezzo di questa sua sofferenza egli deve far sì « che
l'uomo non muoia, ma abbia la vita eterna ». Proprio per mezzo della sua
Croce deve toccare le radici del male, piantate nella storia dell'uomo e
nelle anime umane. Proprio per mezzo della sua Croce deve compiere l'opera
della salvezza. Quest'opera, nel disegno dell'eterno Amore, ha un
carattere redentivo.
E perciò Cristo rimprovera severamente Pietro, quando vuole
fargli abbandonare i pensieri sulla sofferenza e sulla morte di Croce(36).
E quando, durante la cattura nel Getsemani, lo stesso Pietro tenta di
difenderlo con la spada, Cristo gli dice: « Rimetti la spada nel
fodero... Ma come allora si adempirebbero le Scritture, secondo le
quali così deve avvenire? »(37). Ed inoltre dice: « Non devo forse bere
il calice che il Padre mi ha dato? »(38). Questa risposta — come
altre che ritornano in diversi punti del Vangelo — mostra quanto
profondamente Cristo fosse penetrato dal pensiero che già aveva espresso
nel colloquio con Nicodemo: « Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare
il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia
la vita eterna »(39). Cristo s'incammina verso la propria sofferenza,
consapevole della sua forza salvifica, va obbediente al Padre, ma prima di
tutto è unito al Padre in quest'amore, col quale Egli ha amato il
mondo e l'uomo nel mondo. E per questo San Paolo scriverà di Cristo: «
Mi ha amato e ha dato se stesso per me »(40).
17. Le Scritture dovevano adempiersi. Erano molti i testi
messianici dell'Antico Testamento che preludevano alle sofferenze del
futuro Unto di Dio. Tra tutti particolarmente toccante è quello che di
solito è chiamato il quarto Carme del Servo di Jahvé, contenuto
nel Libro di Isaia. Il profeta, che giustamente viene chiamato « il
quinto evangelista », presenta in questo Carme l'immagine delle
sofferenze del Servo con un realismo così acuto quasi le vedesse con i
propri occhi: con gli occhi del corpo e dello spirito. La passione di
Cristo diventa, alla luce dei versetti di Isaia, quasi ancora più
espressiva e toccante che non nelle descrizioni degli stessi evangelisti.
Ecco, si presenta davanti a noi il vero Uomo dei dolori:
« Non ha apparenza né bellezza
per attirare i nostri sguardi...
Disprezzato e reietto dagli uomini,
uomo dei dolori che ben conosce il patire,
come uno davanti al quale ci si copre la faccia,
era disprezzato e non ne avevamo alcuna stima.
Eppure, egli si è caricato delle nostre sofferenze,
si è addossato i nostri dolori,
e noi lo giudicavamo castigato,
percosso da Dio e umiliato.
Egli è stato trafitto per i nostri delitti,
schiacciato per le nostre iniquità.
Il castigo che ci dà salvezza si è abbattuto su di lui;
per le sue piaghe noi siamo stati guariti.
Noi tutti eravamo sperduti come un gregge,
ognuno di noi seguiva la sua strada;
il Signore fece ricadere su di lui
l'iniquità di noi tutti »(41).
Il Carme del Servo sofferente contiene una descrizione nella quale
si possono, in un certo senso, identificare i momenti della passione di
Cristo in vari loro particolari: l'arresto, l'umiliazione, gli schiaffi,
gli sputi, il vilipendio della dignità stessa del prigioniero, l'ingiusto
giudizio, e poi la flagellazione, la coronazione di spine e lo scherno, il
cammino con la croce, la crocifissione, l'agonia.
Più ancora di questa descrizione della passione ci colpisce nelle
parole del profeta la profondità del sacrificio di Cristo. Ecco,
egli, benché innocente, si addossa le sofferenze di tutti gli uomini,
perché si addossa i peccati di tutti. « Il Signore fece ricadere su di
lui l'iniquità di tutti »: tutto il peccato dell'uomo nella sua
estensione e profondità diventa la vera causa della sofferenza del
Redentore. Se la sofferenza « viene misurata » col male sofferto, allora
le parole del profeta ci permettono di comprendere la misura di questo
male e di questa sofferenza, di cui Cristo si è caricato. Si può
dire che questa è sofferenza « sostitutiva »; soprattutto, però, essa
è « redentiva ». L'Uomo dei dolori di quella profezia è veramente
quell'« agnello di Dio, che toglie il peccato del mondo »(42). Nella sua
sofferenza i peccati vengono cancellati proprio perché egli solo come
Figlio unigenito poté prenderli su di sé, assumerli con quell'amore
verso il Padre che supera il male di ogni peccato; in un certo senso
annienta questo male nello spazio spirituale dei rapporti tra Dio e
l'umanità, e riempie questo spazio col bene.
Tocchiamo qui la dualità di natura di un unico soggetto personale
della sofferenza redentiva. Colui, che con la sua passione e morte sulla
Croce opera la Redenzione, è il Figlio unigenito che Dio « ha dato ». E
nello stesso tempo questo Figlio consostanziale al Padre soffre come
uomo. La sua sofferenza ha dimensioni umane, ha anche — uniche nella
storia dell'umanità — una profondità ed intensità che, pur essendo
umane, possono essere anche incomparabili profondità ed intensità di
sofferenza, in quanto l'Uomo che soffre è in persona lo stesso Figlio
unigenito: « Dio da Dio ». Dunque, soltanto Lui — il Figlio unigenito
— è capace di abbracciare la misura del male contenuta nel peccato
dell'uomo: in ogni peccato e nel peccato « totale », secondo le
dimensioni dell'esistenza storica dell'umanità sulla terra.
18. Si può dire che le suddette considerazioni ci conducono ormai
direttamente al Getsemani e sul Golgota, dove si è adempiuto il Carme del
Servo sofferente, contenuto nel Libro d'Isaia. Ancora prima di andarvi,
leggiamo i successivi versetti del Carme, che dànno un'anticipazione
profetica della passione del Getsemani e del Golgota. Il Servo sofferente
— e questo a sua volta è essenziale per un'analisi della passione di
Cristo — si addossa quelle sofferenze, di cui si è detto, in modo
del tutto volontario:
« Maltrattato, si lasciò umiliare
e non aprì la sua bocca;
era come agnello condotto al macello,
come pecora muta di fronte ai suoi tosatori,
e non aprì la sua bocca.
Con oppressione e ingiusta sentenza
fu tolto di mezzo;
chi si affligge per la sua sorte?
Sì, fu eliminato dalla terra dei viventi,
per l'iniquità del mio popolo fu percosso a morte.
Gli si diede la sepoltura con gli empi,
con il ricco fu il suo tumulo,
sebbene non avesse commesso violenza,
né vi fosse inganno nella sua bocca »(43).
Cristo soffre volontariamente e soffre innocentemente. Accoglie
con la sua sofferenza quell'interrogativo, che — posto molte volte dagli
uomini — è stato espresso, in un certo senso, in modo radicale dal
Libro di Giobbe. Cristo, tuttavia, non solo porta con sé la stessa
domanda (e ciò in modo ancor più radicale, poiché egli non è solo un
uomo come Giobbe, ma è l'unigenito Figlio di Dio), ma porta anche il massimo
della possibile risposta a questo interrogativo. La risposta emerge,
si può dire, dalla stessa materia, di cui è costituita la domanda.
Cristo dà la risposta all'interrogativo sulla sofferenza e sul senso
della sofferenza non soltanto col suo insegnamento, cioè con la Buona
Novella, ma prima di tutto con la propria sofferenza, che con un tale
insegnamento della Buona Novella è integrata in modo organico ed
indissolubile. E questa è l'ultima, sintetica parola di questo insegnamento:
« la parola della Croce », come dirà un giorno San Paolo(44).
Questa « parola della Croce » riempie di una realtà definitiva
l'immagine dell'antica profezia. Molti luoghi, molti discorsi durante
l'insegnamento pubblico di Cristo testimoniano come egli accetti sin
dall'inizio questa sofferenza, che è la volontà del Padre per la
salvezza del mondo. Tuttavia, un punto definitivo diventa qui la
preghiera nel Getsemani. Le parole: « Padre mio, se è possibile,
passi da me questo calice! Però non come voglio io, ma come vuoi tu! »(45),
e in seguito: « Padre mio, se questo calice non può passare da me senza
che io lo beva, sia fatta la tua volontà »(46), hanno una multiforme
eloquenza. Esse provano la verità di quell'amore, che il Figlio unigenito
dà al Padre nella sua obbedienza. Al tempo stesso, attestano la verità
della sua sofferenza. Le parole della preghiera di Cristo al Getsemani
provano la verità dell'amore mediante la verità della sofferenza. Le
parole di Cristo confermano con tutta semplicità questa umana verità
della sofferenza, fino in fondo: la sofferenza è un subire il male,
davanti al quale l'uomo rabbrividisce. Egli dice: « passi da me »,
proprio così, come dice Cristo nel Getsemani.
Le sue parole attestano insieme quest'unica ed incomparabile
profondità ed intensità della sofferenza, che poté sperimentare
solamente l'Uomo che è il Figlio unigenito. Esse attestano quella
profondità ed intensità, che le parole profetiche sopra riportate
aiutano, a loro modo, a capire: non certo fino in fondo (per questo si
dovrebbe penetrare il mistero divino-umano del Soggetto), ma almeno a
percepire quella differenza (e somiglianza insieme) che si verifica tra
ogni possibile sofferenza dell'uomo e quella del Dio-Uomo. Il Getsemani è
il luogo, nel quale appunto questa sofferenza, in tutta la verità
espressa dal profeta circa il male in essa provato, si è rivelata
quasi definitivamente davanti agli occhi dell'anima di Cristo.
Dopo le parole nel Getsemani vengono le parole pronunciate sul
Golgota, che testimoniano questa profondità — unica nella storia del
mondo — del male della sofferenza che si prova. Quando Cristo dice: «
Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato? », le sue parole non sono
solo espressione di quell'abbandono che più volte si faceva sentire
nell'Antico Testamento, specialmente nei Salmi e, in particolare, in quel
Salmo 22 [21], dal quale provengono le parole citate(47). Si può dire che
queste parole sull'abbandono nascono sul piano dell'inseparabile unione
del Figlio col Padre, e nascono perché il Padre « fece ricadere su di
lui l'iniquità di noi tutti » (48) è sulla traccia di ciò che dirà
San Paolo: « Colui che non aveva conosciuto peccato, Dio lo trattò da
peccato in nostro favore »(49). Insieme con questo orribile peso, misurando
« l'intero » male di voltare le spalle a Dio, contenuto nel peccato,
Cristo, mediante la divina profondità dell'unione filiale col Padre,
percepisce in modo umanamente inesprimibile questa sofferenza che è il
distacco, la ripulsa del Padre, la rottura con Dio. Ma proprio
mediante tale sofferenza egli compie la Redenzione, e può dire spirando:
« Tutto è compiuto »(50).
Si può anche dire che si è adempiuta la Scrittura, che sono
state definitivamente attuate nella realtà le parole di detto Carme del
Servo sofferente: « Al Signore è piaciuto prostrarlo con dolori »(51).
L'umana sofferenza ha raggiunto il suo culmine nella passione di Cristo. E
contemporaneamente essa è entrata in una dimensione completamente nuova e
in un nuovo ordine: è stata legata all'amore, a quell'amore del
quale Cristo parlava a Nicodemo, a quell'amore che crea il bene
ricavandolo anche dal male, ricavandolo per mezzo della sofferenza, così
come il bene supremo della redenzione del mondo è stato tratto dalla
Croce di Cristo, e costantemente prende da essa il suo avvio. La Croce di
Cristo è diventata una sorgente, dalla quale sgorgano fiumi d'acqua
viva(52). In essa dobbiamo anche riproporre l'interrogativo sul senso
della sofferenza, e leggervi sino alla fine la risposta a questo
interrogativo.
|
V
PARTECIPI DELLE
SOFFERENZE DI CRISTO
19. Il medesimo Carme del Servo sofferente nel Libro di Isaia ci
conduce, attraverso i versetti successivi, proprio nella direzione di
questo interrogativo e di questa risposta:
« Quando offrirà se stesso in espiazione,
vedrà una discendenza, vivrà a lungo,
si compirà per mezzo suo la volontà del Signore.
Dopo il suo intimo tormento vedrà la luce
e si sazierà della sua conoscenza,
il giusto mio servo giustificherà molti,
egli si addosserà la loro iniquità.
Perciò io gli darò in premio le moltitudini,
dei potenti egli farà bottino,
perché ha consegnato se stesso alla morte
ed è stato annoverato fra gli empi,
mentre egli portava il peccato di molti
e intercedeva per i peccatori »(53).
Si può dire che insieme con la passione di Cristo ogni sofferenza
umana si è trovata in una nuova situazione. Ed è come se Giobbe l'avesse
presentita, quando diceva: « Io so infatti che il mio Redentore vive...
»(54), e come se avesse indirizzato verso di essa la propria sofferenza,
la quale senza la redenzione non avrebbe potuto rivelargli la pienezza del
suo significato. Nella Croce di Cristo non solo si è compiuta la
redenzione mediante la sofferenza, ma anche la stessa sofferenza umana
è stata redenta. Cristo — senza nessuna colpa propria — si è
addossato « il male totale del peccato ». L'esperienza di questo male
determinò l'incomparabile misura della sofferenza di Cristo, che diventò
il prezzo della redenzione. Di questo parla il Carme del Servo
sofferente in Isaia. A loro tempo, di questo parleranno i testimoni della
Nuova Alleanza, stipulata nel sangue di Cristo. Ecco le parole
dell'apostolo Pietro dalla sua prima Lettera: « Voi sapete che non a
prezzo di cose corruttibili, come l'argento e l'oro, foste liberati dalla
vostra vuota condotta ereditata dai vostri padri, ma col sangue
prezioso di Cristo, come di agnello senza difetti e senza macchia »(55).
E l'apostolo Paolo nella Lettera ai Galati dirà: « Ha dato se stesso per
i nostri peccati, per strapparci da questo mondo perverso »(56), e nella
prima Lettera ai Corinzi: « Infatti siete stati comprati a caro prezzo.
Glorificate dunque Dio nel vostro corpo! »(57).
Con queste ed altre simili parole i testimoni della Nuova Alleanza
parlano della grandezza della redenzione, che si è compiuta mediante la
sofferenza di Cristo. Il Redentore ho sofferto al posto dell'uomo e per
l'uomo. Ogni uomo ha una sua partecipazione alla redenzione. Ognuno
è anche chiamato a partecipare a quella sofferenza, mediante la
quale si è compiuta la redenzione. E' chiamato a partecipare a quella
sofferenza, per mezzo della quale ogni umana sofferenza è stata anche
redenta. Operando la redenzione mediante la sofferenza, Cristo ha
elevato insieme la sofferenza umana a livello di redenzione. Quindi
anche ogni uomo, nella sua sofferenza, può diventare partecipe della
sofferenza redentiva di Cristo.
20. I testi del Nuovo Testamento esprimono in molti punti questo
concetto. Nella seconda Lettera ai Corinzi l'Apostolo scrive: « Siamo
infatti tribolati da ogni parte, ma non schiacciati; siamo sconvolti, ma
non disperati; perseguitati, ma non abbandonati; colpiti, ma non uccisi, portando
sempre e dappertutto nel nostro corpo la morte di Gesù, perché
anche la vita di Gesù si manifesti nel nostro corpo. Sempre, infatti, noi
che siamo vivi, veniamo esposti alla morte a causa di Gesù, perché anche
la vita di Gesù sia manifesta nella nostra carne mortale..., convinti che
colui che ha risuscitato il Signore Gesù, risusciterà anche noi con Gesù
»(58).
San Paolo parla delle diverse sofferenze e, in particolare, di
quelle di cui diventavano partecipi i primi cristiani « a causa di Gesù
». Queste sofferenze permettono ai destinatari di quella Lettera di
partecipare all'opera della redenzione, compiuta mediante le sofferenze e
la morte del Redentore. L'eloquenza della Croce e della morte viene
tuttavia completata con l'eloquenza della risurrezione. L'uomo
trova nella risurrezione una luce completamente nuova, che lo aiuta a
farsi strada attraverso il fitto buio delle umiliazioni, dei dubbi, della
disperazione e della persecuzione. Perciò, l'Apostolo scriverà anche
nella seconda Lettera ai Corinzi: « Infatti, come abbondano le
sofferenze di Cristo in noi, così, per mezzo di Cristo, abbonda anche
la nostra consolazione »(59).
Altrove egli si rivolge ai suoi destinatari con parole
d'incoraggiamento: « Il Signore diriga i vostri cuori nell'amore di Dio e
nella pazienza di Cristo »(60). E nella Lettera ai Romani scrive: « Vi
esorto dunque, fratelli, per la misericordia di Dio, ad offrire i
vostri corpi come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio: è questo
il vostro culto spirituale »(61).
La partecipazione stessa alla sofferenza di Cristo trova, in
queste espressioni apostoliche, quasi una duplice dimensione. Se un uomo
diventa partecipe delle sofferenze di Cristo, ciò avviene perché Cristo ha
aperto la sua sofferenza all'uomo, perché egli stesso nella sua
sofferenza redentiva è divenuto, in un certo senso, partecipe di tutte le
sofferenze umane. L'uomo, scoprendo mediante la fede la sofferenza
redentrice di Cristo, insieme scopre in essa le proprie sofferenze, le
ritrova, mediante la fede, arricchite di un nuovo contenuto e di un
nuovo significato.
Questa scoperta dettò a San Paolo parole particolarmente forti
nella Lettera ai Galati: « Sono stato crocifisso con Cristo, e non sono
più io che vivo, ma Cristo vive in me. Questa vita, che vivo nella carne,
io la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha dato se
stesso per me »(62). La fede permette all'autore di queste parole di
conoscere quell'amore, che condusse Cristo sulla Croce. E se amò così,
soffrendo e morendo, allora con questa sua sofferenza e morte egli vive
in colui che amò così, egli vive nell'uomo: in Paolo. E vivendo in
lui — man mano che Paolo, consapevole di ciò mediante la fede, risponde
con l'amore al suo amore — Cristo diventa anche in modo particolare unito
all'uomo, a Paolo, mediante la Croce. Quest'unione ha dettato a
Paolo, nella stessa Lettera ai Galati, ancora altre parole, non meno
forti: « Quanto a me invece, non ci sia altro vanto che nella Croce
del Signore nostro Gesù Cristo, per mezzo della quale il mondo per me
è stato crocifisso, come io per il mondo »(63).
21. La Croce di Cristo getta in modo tanto penetrante la luce
salvifica sulla vita dell'uomo e, in particolare, sulla sua sofferenza,
perché mediante la fede lo raggiunge insieme con la risurrezione: il
mistero della passione è racchiuso nel mistero pasquale. I testimoni
della passione di Cristo sono contemporaneamente testimoni della sua
risurrezione. Scrive Paolo: « Perché io possa conoscere lui (Cristo), la
potenza della sua risurrezione, la partecipazione alle sue sofferenze,
diventandogli conforme nella morte, con la speranza di giungere alla
risurrezione dai morti »(64). Veramente, l'Apostolo prima sperimentò «
la potenza della risurrezione » di Cristo sulla via di Damasco, e solo in
seguito, in questa luce pasquale, giunse a quella « partecipazione alle
sue sofferenze », della quale parla, ad esempio, nella Lettera ai Galati.
La via di Paolo è chiaramente pasquale: la partecipazione alla Croce di
Cristo avviene attraverso l'esperienza del Risorto, dunque mediante
una speciale partecipazione alla risurrezione. Perciò, anche nelle
espressioni dell'Apostolo sul tema della sofferenza appare così spesso il
motivo della gloria, alla quale la Croce di Cristo dà inizio.
I testimoni della Croce e della risurrezione erano convinti che «
è necessario attraversare molte tribolazioni per entrare nel Regno di Dio
»(65). E Paolo, scrivendo ai Tessalonicesi, dice così: « Possiamo
gloriarci di voi ... per la vostra fermezza e per la vostra fede in tutte
le persecuzioni e tribolazioni che sopportate. Questo è un segno del
giusto giudizio di Dio, che vi proclamerà degni di quel Regno di Dio, per
il quale ora soffrite »(66). Così dunque la partecipazione alle
sofferenze di Cristo è, al tempo stesso, sofferenza per il Regno di Dio.
Agli occhi del Dio giusto, di fronte al suo giudizio, quanti partecipano
alle sofferenze di Cristo diventano degni di questo Regno. Mediante le
loro sofferenze essi, in un certo senso, restituiscono l'infinito prezzo
della passione e della morte di Cristo, che divenne il prezzo della nostra
redenzione: a questo prezzo il Regno di Dio è stato nuovamente
consolidato nella storia dell'uomo, divenendo la prospettiva definitiva
della sua esistenza terrena. Cristo ci ha introdotti in questo Regno
mediante la sua sofferenza. E anche mediante la sofferenza maturano per
esso gli uomini avvolti dal mistero della redenzione di Cristo.
22. Alla prospettiva del Regno di Dio è unita la speranza di
quella gloria, il cui inizio si trova nella Croce di Cristo. La
risurrezione ha rivelato questa gloria — la gloria escatologica — che
nella Croce di Cristo era completamente offuscata dall'immensità della
sofferenza. Coloro che sono partecipi delle sofferenze di Cristo sono
anche chiamati, mediante le loro proprie sofferenze, a prender parte alla
gloria. Paolo esprime questo in diversi punti. Scrive ai Romani: «
Siamo ... coeredi di Cristo, se veramente partecipiamo alle sue sofferenze
per partecipare anche alla sua gloria. Io ritengo, infatti, che le
sofferenze del momento presente non sono paragonabili alla gloria futura,
che dovrà essere rivelata in noi »(67). Nella seconda Lettera ai Corinzi
leggiamo: « Infatti, il momentaneo, leggero peso della nostra
tribolazione ci procura una quantità smisurata ed eterna di gloria, perché
noi non fissiamo lo sguardo sulle cose visibili, ma su quelle invisibili
»(68). L'apostolo Pietro esprimerà questa verità nelle seguenti parole
della sua prima Lettera: « Nella misura in cui partecipate alle
sofferenze di Cristo, rallegratevi, perché anche nella rivelazione della
sua gloria possiate rallegrarvi ed esultare »(69).
Il motivo della sofferenza e della gloria ha la sua
caratteristica strettamente evangelica, che si chiarisce mediante il
riferimento alla Croce ed alla risurrezione. La risurrezione è diventata
prima di tutto la manifestazione della gloria, che corrisponde
all'elevazione di Cristo per mezzo della Croce. Se, infatti, la Croce è
stata agli occhi degli uomini lo spogliamento di Cristo, nello
stesso tempo essa è stata agli occhi di Dio la sua elevazione. Sulla
Croce Cristo ha raggiunto e realizzato in tutta pienezza la sua missione:
compiendo la volontà del Padre, realizzò insieme se stesso. Nella
debolezza manifestò la sua potenza, e nell'umiliazione tutta la
sua grandezza messianica. Non sono forse una prova di questa grandezza
tutte le parole pronunciate durante l'agonia sul Golgota e, specialmente,
quelle riguardanti gli autori della crocifissione: « Padre, perdonali,
perché non sanno quello che fanno »?(70) A coloro che sono partecipi
delle sofferenze di Cristo queste parole si impongono con la forza di un
supremo esempio. La sofferenza è anche una chiamata a manifestare la
grandezza morale dell'uomo, la sua maturità spirituale. Di ciò
hanno dato la prova, nelle diverse generazioni, i martiri ed i confessori
di Cristo, fedeli alle parole: « E non abbiate paura di quelli che
uccidono il corpo, ma non hanno potere di uccidere l'anima »(71).
La risurrezione di Cristo ha rivelato « la gloria del secolo
futuro » e, contemporaneamente, ha confermato « il vanto della Croce »:
quella gloria che è contenuta nella sofferenza stessa di Cristo, e
quale molte volte si è rispecchiata e si rispecchia nella sofferenza
dell'uomo, come espressione della sua spirituale grandezza. Bisogna dare
testimonianza di questa gloria non solo ai martiri della fede, ma anche a
numerosi altri uomini, che a volte, pur senza la fede in Cristo, soffrono
e danno la vita per la verità e per una giusta causa. Nelle sofferenze di
tutti costoro viene confermata in modo particolare la grande dignità
dell'uomo.
23. La sofferenza, infatti, è sempre una prova — a volte
una prova alquanto dura —, alla quale viene sottoposta l'umanità. Dalle
pagine delle Lettere di San Paolo più volte parla a noi quel paradosso
evangelico della debolezza e della forza, sperimentato in modo
particolare dall'Apostolo stesso e che insieme con lui provano tutti
coloro che partecipano alle sofferenze di Cristo. Egli scrive nella
seconda Lettera ai Corinzi: « Mi vanterò quindi ben volentieri delle mie
debolezze, perché dimori in me la potenza di Cristo »(72). Nella seconda
Lettera a Timoteo leggiamo: « E' questa la causa dei mali che soffro, ma
non me ne vergogno: so infatti a chi ho creduto »(73). E nella Lettera ai
Filippesi dirà addirittura: « Tutto posso in colui che mi dà la
forza »(74).
Coloro che sono partecipi delle sofferenze di Cristo hanno davanti
agli occhi il mistero pasquale della Croce e della risurrezione, nel quale
Cristo discende, in una prima fase, sino agli ultimi confini della
debolezza e dell'impotenza umana: egli, infatti, muore inchiodato sulla
Croce. Ma se al tempo stesso in questa debolezza si compie la sua elevazione,
confermata con la forza della risurrezione, ciò significa che le
debolezze di tutte le sofferenze umane possono essere permeate dalla
stessa potenza di Dio, quale si è manifestata nella Croce di Cristo. In
questa concezione soffrire significa diventare particolarmente suscettibili,
particolarmente aperti all'opera delle forze salvifiche di Dio, offerte
all'umanità in Cristo. In lui Dio ha confermato di voler agire
specialmente per mezzo della sofferenza, che è la debolezza e lo
spogliamento dell'uomo, e di voler proprio in questa debolezza e in questo
spogliamento manifestare la sua potenza. Con ciò si può anche spiegare
la raccomandazione della prima Lettera di Pietro: « Ma se uno soffre come
cristiano, non ne arrossisca; glorifichi anzi Dio per questo nome »(75).
Nella Lettera ai Romani l'apostolo Paolo si pronuncia ancora più
ampiamente sul tema di questo « nascere della forza nella debolezza »,
di questo ritemprarsi spirituale dell'uomo in mezzo alle prove e
alle tribolazioni, che è la speciale vocazione di coloro che sono
partecipi delle sofferenze di Cristo: « Noi ci vantiamo anche nelle
tribolazioni, ben sapendo che la tribolazione produce pazienza, la
pazienza una virtù provata e la virtù provata la speranza. La speranza
poi non delude, perché l'amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori
per mezzo dello Spirito Santo, che ci è stato dato »(76). Nella
sofferenza è come contenuta una particolare chiamata alla virtù, che
l'uomo deve esercitare da parte sua. E questa è la virtù della
perseveranza nel sopportare ciò che disturba e fa male. L'uomo, così
facendo, sprigiona la speranza, che mantiene in lui la convinzione che la
sofferenza non prevarrà sopra di lui, non lo priverà della dignità
propria dell'uomo unita alla consapevolezza del senso della vita. Ed ecco,
questo senso si manifesta insieme con l'opera dell'amore di Dio, che
è il dono supremo dello Spirito Santo. Man mano che partecipa a questo
amore, l'uomo si ritrova fino in fondo nella sofferenza: ritrova «
l'anima », che gli sembrava di aver « perduto »(77) a causa della
sofferenza.
24. Tuttavia, le esperienze dell'Apostolo, partecipe delle
sofferenze di Cristo, vanno ancora oltre. Nella Lettera ai Colossesi
leggiamo le parole, che costituiscono quasi l'ultima tappa dell'itinerario
spirituale in relazione alla sofferenza. San Paolo scrive: « Perciò sono
lieto delle sofferenze che sopporto per voi e completo nella mia
carne quello che manca ai patimenti di Cristo, in favore del suo
corpo che è la Chiesa »(78). Ed egli in un'altra Lettera interroga i
suoi destinatari: « Non sapete che i vostri corpi sono membra di Cristo?
»(79).
Nel mistero pasquale Cristo ha dato inizio all'unione con
l'uomo nella comunità della Chiesa. Il mistero della Chiesa si
esprime in questo: che già all'atto del Battesimo, che configura a
Cristo, e poi mediante il suo Sacrificio — sacramentalmente mediante
l'Eucaristia — la Chiesa di continuo si edifica spiritualmente come
corpo di Cristo. In questo corpo Cristo vuole essere unito con tutti gli
uomini, ed in modo particolare egli è unito con coloro che soffrono. Le
citate parole della Lettera ai Colossesi attestano l'eccezionale carattere
di questa unione. Ecco, infatti, colui che soffre in unione con Cristo
— come in unione con Cristo sopporta le sue « tribolazioni »
l'apostolo Paolo — non solo attinge da Cristo quella forza, della quale
si è parlato precedentemente, ma anche « completa » con la sua
sofferenza « quello che manca ai patimenti di Cristo ». In questo quadro
evangelico è messa in risalto, in modo particolare, la verità sul
carattere creativo della sofferenza. La sofferenza di Cristo ha creato
il bene della redenzione del mondo. Questo bene in se stesso è
inesauribile ed infinito. Nessun uomo può aggiungervi qualcosa. Allo
stesso tempo, però, nel mistero della Chiesa come suo corpo, Cristo in un
certo senso ha aperto la propria sofferenza redentiva ad ogni sofferenza
dell'uomo. In quanto l'uomo diventa partecipe delle sofferenze di Cristo
— in qualsiasi luogo del mondo e tempo della storia —, in tanto egli
completa a suo modo quella sofferenza, mediante la quale Cristo ha
operato la redenzione del mondo.
Questo vuol dire, forse, che la redenzione compiuta da Cristo non
è completa? No. Questo significa solo che la redenzione, operata in forza
dell'amore soddisfattorio, rimane costantemente aperta ad ogni amore che
si esprime nell'umana sofferenza. In questa dimensione — nella
dimensione dell'amore — la redenzione già compiuta fino in fondo, si
compie, in un certo senso, costantemente. Cristo ha operato la redenzione
completamente e sino alla fine; al tempo stesso, però, non l'ha chiusa:
in questa sofferenza redentiva, mediante la quale si è operata la
redenzione del mondo, Cristo si è aperto sin dall'inizio, e costantemente
si apre, ad ogni umana sofferenza. Sì, sembra far parte dell'essenza
stessa della sofferenza redentiva di Cristo il fatto che essa richieda
di essere incessantemente completata.
In questo modo, con una tale apertura ad ogni umana sofferenza,
Cristo ha operato con la propria sofferenza la redenzione del mondo.
Infatti, al tempo stesso, questa redenzione, anche se compiuta in tutta la
pienezza con la sofferenza di Cristo, vive e si sviluppa a suo modo nella
storia dell'uomo. Vive e si sviluppa come corpo di Cristo, che è la
Chiesa, ed in questa dimensione ogni umana sofferenza, in forza
dell'unione nell'amore con Cristo, completa la sofferenza di Cristo. La
completa così come la Chiesa completa l'opera redentrice di Cristo. Il
mistero della Chiesa — di quel corpo che completa in sé anche il corpo
crocifisso e risorto di Cristo — indica contemporaneamente quello
spazio, nel quale le sofferenze umane completano le sofferenze di Cristo.
Solo in questo raggio e in questa dimensione della Chiesa-corpo di Cristo,
che continuamente si sviluppa nello spazio e nel tempo, si può pensare e
parlare di « ciò che manca » ai patimenti di Cristo. L'Apostolo, del
resto, lo mette chiaramente in rilievo, quando scrive del completamento di
« quello che manca ai patimenti di Cristo, in favore del suo corpo che è
la Chiesa ».
Proprio la Chiesa, che attinge incessantemente alle
infinite risorse della redenzione, introducendola nella vita dell'umanità,
è la dimensione, nella quale la sofferenza redentrice di Cristo può
essere costantemente completata dalla sofferenza dell'uomo. In ciò vien
messa in risalto anche la natura divino-umana della Chiesa. La sofferenza
sembra partecipare in un qualche modo alle caratteristiche di questa
natura. E perciò essa ha pure un valore speciale davanti alla Chiesa.
Essa è un bene, dinanzi al quale la Chiesa si inchina con venerazione, in
tutta la profondità della sua fede nella redenzione. Si inchina, insieme,
in tutta la profondità di quella fede, con la quale essa abbraccia in se
stessa l'inesprimibile mistero del corpo di Cristo.
|
VI
IL VANGELO DELLA
SOFFERENZA
25. I testimoni della Croce e della risurrezione di Cristo hanno
trasmesso alla Chiesa e all'umanità uno specifico Vangelo della
sofferenza. Il Redentore stesso ha scritto questo Vangelo dapprima con la
propria sofferenza assunta per amore, affinché l'uomo « non muoia, ma
abbia la vita eterna »(80). Questa sofferenza, insieme con la viva parola
del suo insegnamento, è diventata una fonte abbondante per tutti coloro
che hanno preso parte alle sofferenze di Gesù nella prima generazione dei
suoi discepoli e confessori, e poi in quelle che si sono succedute nel
corso dei secoli.
E', innanzitutto, consolante — come è evangelicamente e
storicamente esatto — notare che a fianco di Cristo, in primissima e ben
rilevata posizione accanto a lui, c'è sempre la sua Madre santissima per
la testimonianza esemplare, che con l'intera sua vita rende a
questo particolare Vangelo della sofferenza. In lei le numerose ed intense
sofferenze si assommarono in una tale connessione e concatenazione, che se
furono prova della sua fede incrollabile, furono altresì un contributo
alla redenzione di tutti. In realtà, fin dall'arcano colloquio avuto con
l'angelo, Ella intravide nella sua missione di madre la « destinazione »
a condividere in maniera unica ed irripetibile la missione stessa del
Figlio. E la conferma in proposito le venne assai presto sia dagli eventi
che accompagnarono la nascita di Gesù a Betlemme, sia dall'annuncio
formale del vecchio Simeone che parlò di una spada tanto acuta da
trapassarle l'anima, sia dalle ansie e ristrettezze della fuga precipitosa
in Egitto, provocata dalla crudele decisione di Erode.
Ed ancora, dopo le vicende della vita nascosta e pubblica del suo
Figlio, da lei indubbiamente condivise con acuta sensibilità, fu sul
Calvario che la sofferenza di Maria Santissima, accanto a quella di Gesù,
raggiunse un vertice già difficilmente immaginabile nella sua altezza dal
punto di vista umano, ma certo misterioso e soprannaturalmente fecondo ai
fini dell'universale salvezza. Quel suo ascendere al Calvario, quel suo «
stare » ai piedi della Croce insieme col discepolo prediletto furono una
partecipazione del tutto speciale alla morte redentrice del Figlio, come
del resto le parole, che poté raccogliere dal suo labbro, furono quasi la
solenne consegna di questo tipico Vangelo da annunciare all'intera comunità
dei credenti.
Testimone della passione del Figlio con la sua presenza, e
di essa partecipe con la sua compassione, Maria Santissima offrì
un singolare apporto al Vangelo della sofferenza, awerando in anticipo
l'espressione paolina, riportata all'inizio. In effetti, Ella ha titoli
specialissimi per poter asserire di « completare nella sua carne — come
già nel suo cuore — quello che manca ai patimenti di Cristo ».
Nella luce dell'inarrivabile esempio di Cristo, riflesso con
singolare evidenza nella vita della Madre sua, il Vangelo della
sofferenza, mediante l'esperienza e la parola degli Apostoli, diventa fonte
inesauribile per le generazioni sempre nuove che si avvicendano nella
storia della Chiesa. Il Vangelo della sofferenza significa non solo la
presenza della sofferenza nel Vangelo, come uno dei temi della Buona
Novella, ma la rivelazione, altresì, della forza salvifica e del
significato salvifico della sofferenza nella missione messianica di
Cristo e, in seguito, nella missione e nella vocazione della Chiesa.
Cristo non nascondeva ai propri ascoltatori la necessità
della sofferenza. Molto chiaramente diceva: « Se qualcuno vuol venire
dietro a me, ... prenda la sua croce ogni giorno »(81), ed ai suoi
discepoli poneva esigenze di natura morale, la cui realizzazione è
possibile solo a condizione di « rinnegare se stessi »(82). La via che
porta al Regno dei cieli è « stretta ed angusta », e Cristo la
contrappone alla via « larga e spaziosa », che peraltro « conduce alla
perdizione »(83). Diverse volte Cristo diceva anche che i suoi discepoli
e confessori avrebbero incontrato molteplici persecuzioni, ciò che
— come si sa — è avvenuto non solo nei primi secoli della vita della
Chiesa sotto l'impero romano, ma si è avverato e si avvera in diversi
periodi della storia e in differenti luoghi della terra, anche ai nostri
tempi.
Ecco alcune frasi di Cristo su questo tema: « Metteranno le mani
su di voi e vi perseguiteranno, consegnandovi alle sinagoghe e alle
prigioni, trascinandovi davanti a re e a governatori, a causa del mio
nome. Questo vi darà occasione di rendere testimonianza. Mettetevi
bene in mente di non preparare prima la vostra difesa: io vi darò lingua
e sapienza, a cui tutti i vostri avversari non potranno resistere, né
controbattere. Sarete traditi perfino dai genitori, dai fratelli, dai
parenti e dagli amici, e metteranno a morte alcuni di voi; sarete odiati
da tutti per causa del mio nome. Ma nemmeno un capello del vostro
capo perirà. Con la vostra perseveranza salverete le vostre anime »(84).
Il Vangelo della sofferenza parla prima in diversi punti della
sofferenza « per Cristo », « a causa di Cristo », e ciò fa con le
parole stesse di Gesù, oppure con le parole dei suoi Apostoli. Il Maestro
non nasconde ai suoi discepoli e seguaci la prospettiva di una tale
sofferenza, anzi la rivela con tutta franchezza, indicando
contemporaneamente le forze soprannaturali, che li accompagneranno in
mezzo alle persecuzioni e tribolazioni « per il suo nome ». Queste
saranno insieme quasi una speciale verifica della somiglianza a
Cristo e dell'unione con lui. « Se il mondo vi odia, sappiate che prima
di voi ha odiato me ...; poiché invece non siete del mondo, ma io vi ho
scelti dal mondo, per questo il mondo vi odia ... Un servo non è più
grande del suo padrone. Se hanno perseguitato me, perseguiteranno anche
voi... Ma tutto questo vi faranno a causa del mio nome, perché non
conoscono colui che mi ha mandato »(85). « Vi ho dette queste cose,
perché abbiate pace in me. Voi avrete tribolazione nel mondo, ma abbiate
fiducia: io ho vinto il mondo! »(86).
Questo primo capitolo del Vangelo della sofferenza, che parla
delle persecuzioni, cioè delle tribolazioni a motivo di Cristo, contiene
in sé una speciale chiamata al coraggio ed alla fortezza, sostenuta
dall'eloquenza della risurrezione. Cristo ha vinto il mondo
definitivamente con la sua risurrezione; tuttavia, grazie al rapporto di
essa con la passione e la morte, ha vinto al tempo stesso questo mondo con
la sua sofferenza. Si, la sofferenza è stata in modo singolare inserita
in quella vittoria sul mondo, che si è manifestata nella risurrezione.
Cristo conserva nel suo corpo risorto i segni delle ferite della Croce
sulle sue mani, sui piedi e nel costato. Mediante la risurrezione egli
manifesta la forza vittoriosa della sofferenza, e vuole infondere
la convinzione di questa forza nel cuore di coloro che ha scelto come suoi
Apostoli e di coloro che continuamente sceglie ed invia. L'apostolo Paolo
dirà: « Tutti quelli che vogliono vivere piamente in Cristo Gesù
saranno perseguitati »(87).
26. Se il primo grande capitolo del Vangelo della sofferenza viene
scritto, lungo le generazioni, da coloro che soffrono persecuzioni per
Cristo, di pari passo si svolge lungo la storia un altro grande capitolo
di questo Vangelo. Lo scrivono tutti coloro che soffrono insieme con
Cristo, unendo le proprie sofferenze umane alla sua sofferenza
salvifica. In essi si compie ciò che i primi testimoni della passione e
della risurrezione hanno detto ed hanno scritto circa la partecipazione
alle sofferenze di Cristo. In essi quindi si compie il Vangelo della
sofferenza e, al tempo stesso, ognuno di essi continua in un certo modo a
scriverlo: lo scrive e lo proclama al mondo, lo annuncia al proprio
ambiente ed agli uomini contemporanei.
Attraverso i secoli e le generazioni è stato costatato che nella
sofferenza si nasconde una particolare forza che avvicina interiormente
l'uomo a Cristo, una particolare grazia. Ad essa debbono la loro
profonda conversione molti Santi, come ad esempio San Francesco d'Assisi,
Sant'Ignazio di Loyola, ecc. Frutto di una tale conversione non è solo il
fatto che l'uomo scopre il senso salvifico della sofferenza, ma
soprattutto che nella sofferenza diventa un uomo completamente nuovo. Egli
trova quasi una nuova misura di tutta la propria vita e della
propria vocazione. Questa scoperta è una particolare conferma della
grandezza spirituale che nell'uomo supera il corpo in modo del tutto
incomparabile. Allorché questo corpo è profondamente malato, totalmente
inabile e l'uomo è quasi incapace di vivere e di agire, tanto più si
mettono in evidenza l'interiore maturità e grandezza
spirituale, costituendo una commovente lezione per gli uomini sani e
normali.
Questa interiore maturità e grandezza spirituale nella sofferenza
certamente sono frutto di una particolare conversione e
cooperazione con la Grazia del Redentore crocifisso. E' lui stesso ad
agire nel vivo delle umane sofferenze per mezzo del suo Spirito di verità,
per mezzo dello Spirito Consolatore. E' lui a trasformare, in un certo
senso, la sostanza stessa della vita spirituale, indicando all'uomo
sofferente un posto vicino a sé. E' lui — come Maestro e Guida
interiore — ad insegnare al fratello e alla sorella sofferenti
questo mirabile scambio, posto nel cuore stesso del mistero della
redenzione. La sofferenza è, in se stessa, un provare il male. Ma Cristo
ne ha fatto la più solida base del bene definitivo, cioè del bene della
salvezza eterna. Con la sua sofferenza sulla Croce Cristo ha raggiunto le
radici stesse del male: del peccato e della morte. Egli ha vinto
l'artefice del male, che è Satana, e la sua permanente ribellione contro
il Creatore. Davanti al fratello o alla sorella sofferenti Cristo dischiude
e dispiega gradualmente gli orizzonti del Regno di Dio: di un
mondo convertito al Creatore, di un mondo liberato dal peccato, che si sta
edificando sulla potenza salvifica dell'amore. E, lentamente ma
efficacemente, Cristo introduce in questo mondo, in questo Regno del Padre
l'uomo sofferente, in un certo senso attraverso il cuore stesso della sua
sofferenza. La sofferenza, infatti, non può essere trasformata e
mutata con una grazia dall'esterno, ma dall'interno. E Cristo
mediante la sua propria sofferenza salvifica si trova quanto mai dentro ad
ogni sofferenza umana, e può agire dall'interno di essa con la potenza
del suo Spirito di verità, del suo Spirito Consolatore.
Non basta: il divin Redentore vuole penetrare nell'animo di ogni
sofferente attraverso il cuore della sua Madre santissima, primizia e
vertice di tutti i redenti. Quasi a continuazione di quella maternità,
che per opera dello Spirito Santo gli aveva dato la vita, Cristo morente
conferì alla sempre Vergine Maria una maternità nuova —
spirituale e universale — verso tutti gli uomini, affinché ognuno,
nella peregrinazione della fede, gli rimanesse insieme con lei
strettamente unito fino alla Croce e, con la forza di questa Croce, ogni
sofferenza rigenerata diventasse, da debolezza dell'uomo, potenza di Dio.
Non sempre, però, un tale processo interiore si svolge in modo
uguale. Spesso inizia e si instaura con difficoltà. Già il punto stesso
di partenza è diverso: diversa è la disposizione, che l'uomo porta nella
sua sofferenza. Si può, tuttavia, premettere che quasi sempre ciascuno
entra nella sofferenza con una protesta tipicamente umana e con
la domanda del suo « perché ». Ciascuno si chiede il senso della
sofferenza e cerca una risposta a questa domanda al suo livello umano.
Certamente pone più volte questa domanda anche a Dio, come la pone a
Cristo. Inoltre, egli non può non notare che colui, al quale pone la sua
domanda, soffre lui stesso e vuole rispondergli dalla Croce, dal
centro della sua propria sofferenza. Tuttavia, a volte c'è bisogno di
tempo, persino di un lungo tempo, perché questa risposta cominci ad
essere internamente percepibile. Cristo, infatti, non risponde
direttamente e non risponde in astratto a questo interrogativo umano circa
il senso della sofferenza. L'uomo ode la sua risposta salvifica man mano
che egli stesso diventa partecipe delle sofferenze di Cristo.
La risposta che giunge mediante tale partecipazione, lungo la
strada dell'incontro interiore col Maestro, è a sua volta qualcosa di
più della sola risposta astratta all'interrogativo sul senso della
sofferenza. Questa è, infatti, soprattutto una chiamata. E' una
vocazione. Cristo non spiega in astratto le ragioni della sofferenza, ma
prima di tutto dice: « Seguimi! ». Vieni! prendi parte con la tua
sofferenza a quest'opera di salvezza del mondo, che si compie per mezzo
della mia sofferenza! Per mezzo della mia Croce. Man mano che l'uomo
prende la sua croce, unendosi spiritualmente alla Croce di Cristo, si
rivela davanti a lui il senso salvifico della sofferenza. L'uomo non
scopre questo senso al suo livello umano, ma al livello della sofferenza
di Cristo. Al tempo stesso, però, da questo livello di Cristo, quel senso
salvifico della sofferenza scende a livello dell'uomo e diventa, in
qualche modo, la sua risposta personale. E allora l'uomo trova nella sua
sofferenza la pace interiore e perfino la gioia spirituale.
27. Di tale gioia parla l'Apostolo nella Lettera ai Colossesi: «
Sono lieto delle sofferenze che sopporto per voi »(88). Fonte di gioia
diventa il superamento del senso d'inutilità della sofferenza,
sensazione che a volte è radicata molto fortemente nell'umana sofferenza.
Questa non solo consuma l'uomo dentro se stesso, ma sembra renderlo un
peso per gli altri. L'uomo si sente condannato a ricevere aiuto ed
assistenza dagli altri e, in pari tempo, sembra a se stesso inutile. La
scoperta del senso salvifico della sofferenza in unione con Cristo trasforma
questa sensazione deprimente. La fede nella partecipazione alle
sofferenze di Cristo porta in sé la certezza interiore che l'uomo
sofferente « completa quello che manca ai patimenti di Cristo »; che
nella dimensione spirituale dell'opera della redenzione serve, come
Cristo, alla salvezza dei suoi fratelli e sorelle. Non solo quindi
è utile agli altri, ma per di più adempie un servizio insostituibile.
Nel corpo di Cristo, che incessantemente cresce dalla Croce del Redentore,
proprio la sofferenza, permeata dallo spirito del sacrificio di Cristo, è
l'insostituibile mediatrice ed autrice dei beni, indispensabili per
la salvezza del mondo. E' essa, più di ogni altra cosa, a fare strada
alla Grazia che trasforma le anime umane. Essa, più di ogni altra cosa,
rende presenti nella storia dell'umanità le forze della redenzione. In
quella lotta « cosmica » tra le forze spirituali del bene e del male,
della quale parla la Lettera agli Efesini(89), le sofferenze umane, unite
con la sofferenza redentrice di Cristo, costituiscono un particolare
sostegno per le forze del bene, aprendo la strada alla vittoria di
queste forze salvifiche.
E perciò la Chiesa vede in tutti i fratelli e sorelle di Cristo
sofferenti quasi un soggetto molteplice della sua forza soprannaturale.
Quanto spesso proprio ad essi ricorrono i pastori della Chiesa, e
proprio presso di essi cercano aiuto ed appoggio! I1 Vangelo della
sofferenza viene scritto incessantemente, ed incessantemente parla con le
parole di questo strano paradosso: le sorgenti della forza divina sgorgano
proprio in mezzo all'umana debolezza. Coloro che partecipano alle
sofferenze di Cristo conservano nelle proprie sofferenze una specialissima
particella dell'infinito tesoro della redenzione del mondo, e
possono condividere questo tesoro con gli altri. Quanto più l'uomo è
minacciato dal peccato, quanto più pesanti sono le strutture del peccato
che porta in sé il mondo d'oggi, tanto più grande è l'eloquenza che la
sofferenza umana in sé possiede. E tanto più la Chiesa sente il bisogno
di ricorrere al valore delle sofferenze umane per la salvezza del mondo.
|
VII
IL BUON SAMARITANO
28. Al Vangelo della sofferenza appartiene anche — ed in modo
organico — la parabola del buon Samaritano. Mediante questa parabola
Cristo volle dare risposta alla domanda: « chi è il mio prossimo? »(90).
Infatti, fra i tre passanti lungo la via da Gerusalemme a Gerico, dove
giaceva per terra mezzo morto un uomo rapinato e ferito dai briganti,
proprio il Samaritano dimostrò di essere davvero il « prossimo
» per quell'infelice: « prossimo » significa anche colui che adempì
il comandamento dell'amore del prossimo. Altri due uomini percorrevano la
stessa strada: uno era sacerdote, e l'altro levita, ma ciascuno « lo vide
e passò oltre ». Invece, il Samaritano « lo vide e n'ebbe compassione.
Gli si fece vicino, ... gli fasciò le ferite », poi « lo portò a una
locanda e si prese cura di lui »(91). Ed all'atto di partire, affidò
sollecitamente la cura dell'uomo sofferente all'albergatore, impegnandosi
a sostenere le spese occorrenti.
La parabola del buon Samaritano appartiene al Vangelo della
sofferenza. Essa indica, infatti, quale debba essere il rapporto di
ciascuno di noi verso il prossimo sofferente. Non ci è lecito « passare
oltre » con indifferenza, ma dobbiamo « fermarci » accanto a lui. Buon
Samaritano è ogni uomo, che si ferma accanto alla sofferenza di un
altro uomo, qualunque essa sia. Quel fermarsi non significa curiosità,
ma disponibilità. Questa è come l'aprirsi di una certa interiore
disposizione del cuore, che ha anche la sua espressione emotiva. Buon
Samaritano è ogni uomo sensibile alla sofferenza altrui, l'uomo
che « si commuove » per la disgrazia del prossimo. Se Cristo,
conoscitore dell'interno dell'uomo, sottolinea questa commozione, vuol
dire che essa è importante per tutto il nostro atteggiamento di fronte
alla sofferenza altrui. Bisogna, dunque, coltivare in sé questa
sensibilità del cuore, che testimonia la compassione verso un
sofferente. A volte questa compassione rimane l'unica o principale
espressione del nostro amore e della nostra solidarietà con l'uomo
sofferente.
Tuttavia, il buon Samaritano della parabola di Cristo non si ferma
alla sola commozione e compassione. Queste diventano per lui uno stimolo
alle azioni che mirano a portare aiuto all'uomo ferito. Buon Samaritano è,
dunque, in definitiva colui che porta aiuto nella sofferenza, di
qualunque natura essa sia. Aiuto, in quanto possibile, efficace. In esso
egli mette il suo cuore, ma non risparmia neanche i mezzi materiali. Si può
dire che dà se stesso, il suo proprio « io », aprendo quest'« io »
all'altro. Tocchiamo qui uno dei punti-chiave di tutta l'antropologia
cristiana. L'uomo non può « ritrovarsi pienamente se non attraverso un
dono sincero di sé »(92). Buon Samaritano è l'uomo capace appunto
di tale dono di sé.
29. Seguendo la parabola evangelica, si potrebbe dire che la
sofferenza, presente sotto tante forme diverse nel nostro mondo umano, vi
sia presente anche per sprigionare nell'uomo l'amore, proprio quel
dono disinteressato del proprio « io » in favore degli altri uomini,
degli uomini sofferenti. I1 mondo dell'umana sofferenza invoca, per così
dire, senza sosta un altro mondo: quello dell'amore umano; e quell'amore
disinteressato, che si desta nel suo cuore e nelle sue opere, l'uomo lo
deve in un certo senso alla sofferenza. Non può l'uomo « prossimo »
passare con indifferenza davanti alla sofferenza altrui in nome della
fondamentale solidarietà umana, né tanto meno in nome dell'amore del
prossimo. Egli deve « fermarsi », « commuoversi », agendo così come
il Samaritano della parabola evangelica. La parabola in sé esprime una
verità profondamente cristiana, ma insieme quanto mai
universalmente umana. Non senza ragione anche nel linguaggio comune viene
chiamata opera « da buon samaritano » ogni attività in favore degli
uomini sofferenti e bisognosi di aiuto.
Quest'attività assume, nel corso dei secoli, forme
istituzionali organizzate e costituisce un campo di lavoro nelle
rispettive professioni. Quanto è « da buon samaritano » la
professione del medico, o dell'infermiera, o altre simili! In ragione del
contenuto « evangelico », racchiuso in essa, siamo inclini a pensare qui
piuttosto ad una vocazione, che non semplicemente ad una professione. E le
istituzioni che, nell'arco delle generazioni, hanno compiuto un servizio
« da samaritano », ai nostri tempi si sono ancora maggiormente
sviluppate e specializzate. Ciò prova indubbiamente che l'uomo di oggi si
ferma con sempre maggiore attenzione e perspicacia accanto alle sofferenze
del prossimo, cerca di comprenderle e di prevenirle sempre più
esattamente. Egli possiede anche una sempre maggiore capacità e
specializzazione in questo settore. Guardando a tutto questo, possiamo
dire che la parabola del Samaritano del Vangelo è diventata una delle
componenti essenziali della cultura morale e della civiltà universalmente
umana. E pensando a tutti quegli uomini, che con la loro scienza e la
loro capacità rendono molteplici servizi al prossimo sofferente, non
possiamo esimerci dal rivolgere al loro indirizzo parole di riconoscimento
e di gratitudine.
Queste si estendono a tutti coloro, che svolgono il proprio
servizio verso il prossimo sofferente in maniera disinteressata, impegnandosi
volontariamente nell'aiuto « da buon samaritano », e destinando a
tale causa tutto il tempo e le forze che rimangono a loro disposizione al
di fuori del lavoro professionale. Una tale spontanea attività « da buon
samaritano » o caritativa può essere chiamata attività sociale, può
anche essere definita come apostolato, tutte le volte che viene
intrapresa per motivi schiettamente evangelici, specialmente se ciò
avviene in collegamento con la Chiesà o con un'altra Comunità cristiana.
La volontaria attività « da buon samaritano » si realizza attraverso ambienti
adeguati oppure attraverso organizzazioni create a questo
scopo. L'operare in questa forma ha una grande importanza, specialmente se
si tratta di assumere compiti più grandi, che esigono la cooperazione e
l'uso dei mezzi tecnici. Non meno preziosa è anche l'attività
individuale, specialmente da parte delle persone, che sono ad essa meglio
predisposte riguardo alle varie specie di umana sofferenza, verso le quali
l'aiuto non può essere portato che individualmente e personalmente.
L'aiuto familiare poi significa sia gli atti d'amore del prossimo,
resi alle persone appartenenti alla stessa famiglia, sia l'aiuto reciproco
tra le famiglie.
E' difficile elencare qui tutti i tipi ed i diversi àmbiti
dell'attività « da samaritano » che esistono nella Chiesa e nella
società. Bisogna riconoscere che essi sono molto numerosi, ed anche
esprimere la gioia perché grazie ad essi i fondamentali valori morali,
quali il valore dell'umana solidarietà, il valore dell'amore
cristiano del prossimo, formano il quadro della vita sociale e dei
rapporti interumani, combattendo su questo fronte le diverse forme
dell'odio, della violenza, della crudeltà, del disprezzo per l'uomo,
oppure della semplice « insensibilità », cioè dell'indifferenza verso
il prossimo e le sue sofferenze.
Enorme è qui il significato degli atteggiamenti opportuni da
usare nell'educazione. La famiglia, la scuola, le altre istituzioni
educative, anche solo per motivi umanitari, devono lavorare con
perseveranza per il risveglio e l'affinamento di quella sensibilità verso
il prossimo e la sua sofferenza, di cui è diventata simbolo la figura del
Samaritano evangelico. La Chiesa ovviamente deve far lo stesso,
addentrandosi ancora più profondamente — in quanto possibile — nelle
motivazioni che Cristo ha racchiuso nella sua parabola ed in tutto il
Vangelo. L'eloquenza della parabola del buon Samaritano, come anche di
tutto il Vangelo, è in particolare questa: l'uomo deve sentirsi come
chiamato in prima persona a testimoniare l'amore nella sofferenza. Le
istituzioni sono molto importanti ed indispensabili; tuttavia, nessuna
istituzione può da sola sostituire il cuore umano, la compassione umana,
l'amore umano, l'iniziativa umana, quando si tratti di farsi incontro alla
sofferenza dell'altro. Questo si riferisce alle sofferenze fisiche, ma
vale ancora di più se si tratta delle molteplici sofferenze morali, e
quando, prima di tutto, a soffrire è l'anima.
30. La parabola del buon Samaritano, che — come si è detto —
appartiene al Vangelo della sofferenza, cammina insieme con esso lungo la
storia della Chiesa e del cristianesimo, lungo la storia dell'uomo e
dell'umanità. Essa testimonia che la rivelazione da parte di Cristo del
senso salvifico della sofferenza non si identifica in alcun modo con un
atteggiamento di passività. E' tutto il contrario. Il Vangelo è la
negazione della passività di fronte alla sofferenza. Cristo stesso in
questo campo è soprattutto attivo. In questo modo, egli realizza il
programma messianico della sua missione, secondo le parole del profeta: «
Lo Spirito del Signore è sopra di me; per questo mi ha consacrato con
l'unzione e mi ha mandato per annunziare ai poveri un lieto messaggio, per
proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista; per
rimettere in libertà gli oppressi, e predicare un anno di grazia del
Signore »(93). Cristo compie in modo sovrabbondante questo programma
messianico della sua missione: egli passa « beneficando (94), ed il
bene delle sue opere ha assunto rilievo soprattutto di fronte all'umana
sofferenza. La parabola del buon Samaritano è in profonda armonia col
comportamento di Cristo stesso.
Questa parabola entrerà, infine, per il suo contenuto essenziale,
in quelle sconvolgenti parole sul giudizio finale, che Matteo ha annotato
nel suo Vangelo: « Venite, benedetti del Padre mio; ricevete in eredità
il regno preparato per voi fin dalla fondazione del mondo. Perché io ho
avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da
bere; ero forestiero e mi avete ospitato, nudo e mi avete vestito, malato
e mi avete visitato, carcerato e siete venuti a trovarmi »(95). Ai giusti
che chiedono quando mai abbiano fatta proprio a lui tutto questo, il
Figlio dell'Uomo risponderà: « In verità vi dico: ogni volta che
avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli,
l'avete fatto a me » (96). La sentenza opposta toccherà a coloro
che si sono comportati diversamente: « Ogni volta che non avete fatto
queste cose a uno di questi miei fratelli più piccoli, non l'avete fatto
a me »(97).
Si potrebbe certamente allungare l'elenco delle sofferenze che
hanno incontrato la sensibilità umana, la compassione, l'aiuto, oppure
che non le hanno incontrate. La prima e la seconda parte della
dichiarazione di Cristo sul giudizio finale indicano senza ambiguità come
siano essenziali, nella prospettiva della vita eterna di ogni uomo, il «
fermarsi », come fece il buon Samaritano, accanto alla sofferenza del suo
prossimo, l'aver « compassione » di essa, ed infine il dare aiuto. Nel
programma messianico di Cristo, che è insieme il programma del Regno
di Dio, la sofferenza è presente nel mondo per sprigionare amore, per
far nascere opere di amore verso il prossimo, per trasformare tutta la
civiltà umana nella « civiltà dell'amore ». In questo amore il
significato salvifico della sofferenza si realizza fino in fondo e
raggiunge la sua dimensione definitiva. Le parole di Cristo sul giudizio
finale permettono di comprendere ciò in tutta la semplicità e
perspicacia del Vangelo.
Queste parole sull'amore, sugli atti di amore, collegati con
l'umana sofferenza, ci permettono ancora una volta di scoprire, alla base
di tutte le sofferenze umane, la stessa sofferenza redentrice di
Cristo. Cristo dice: « L'avete fatto a me ». Egli stesso è colui
che in ognuno sperimenta l'amore; egli stesso è colui che riceve aiuto,
quando questo viene reso ad ogni sofferente senza eccezione. Egli stesso
è presente in questo sofferente, poiché la sua sofferenza salvifica è
stata aperta una volta per sempre ad ogni sofferenza umana. E tutti coloro
che soffrono sono stati chiamati una volta per sempre a diventare
partecipi « delle sofferenze di Cristo »(98). Così come tutti sono
stati chiamati a « completare » con la propria sofferenza « quello che
manca ai patimenti di Cristo »(99). Cristo allo stesso tempo ha insegnato
all'uomo a far del bene con la sofferenza ed a far del bene a
chi soffre. In questo duplice aspetto egli ha svelato fino in fondo il
senso della sofferenza.
|
VIII
CONCLUSIONE
31. Questo è il senso veramente soprannaturale ed insieme umano
della sofferenza. E' soprannaturale, perché si radica nel mistero
divino della redenzione del mondo, ed è, altresì, profondamente umano,
perché in esso l'uomo ritrova se stesso, la propria umanità, la
propria dignità, la propria missione.
La sofferenza certamente appartiene al mistero dell'uomo. Forse
essa non è avvolta quanto lui da questo mistero, che è particolarmente
impenetrabile. Il Concilio Vaticano II ha espresso questa verità che «
in realtà, solamente nel mistero del Verbo Incarnato trova vera luce il
mistero dell'uomo. Infatti..., Cristo che è il nuovo Adamo,
proprio rivelando il mistero del Padre e del suo amore, svela anche
pienamente l'uomo all'uomo e gli fa nota la sua altissima vocazione
»(100). Se queste parole si riferiscono a tutto ciò che riguarda il
mistero dell'uomo, allora certamente si riferiscono in modo
particolarissimo all'umana sofferenza. Proprio in questo punto lo
« svelare l'uomo all'uomo e fargli nota la sua altissima vocazione » è
particolarmente indispensabile. Succede anche — come prova
l'esperienza — che ciò sia particolarmente drammatico. Quando
però si compie fino in fondo e diventa luce della vita umana, ciò è
anche particolarmente beato. « Per Cristo e in Cristo si illumina
l'enigma del dolore e della morte »(101).
Chiudiamo le presenti considerazioni sulla sofferenza nell'anno
nel quale la Chiesa vive il giubileo straordinario, collegato
all'anniversario della redenzione.
I1 mistero della redenzione del mondo è in modo sorprendente radicato
nella sofferenza, e questa, a sua volta, trova in esso il suo supremo
e più sicuro punto di riferimento.
Desideriamo vivere quest'Anno della Redenzione in speciale unione
con tutti coloro che soffrono. Occorre, pertanto, che sotto la Croce del
Calvario idealmente convengano tutti i sofferenti che credono in Cristo e,
particolarmente, coloro che soffrono a causa della loro fede in lui
Crocifisso e Risorto, affinché l'offerta delle loro sofferenze affretti
il compimento della preghiera dello stesso Salvatore per l'unità di
tutti(102). Là pure convengano gli uomini di buona volontà, perché
sulla Croce sta il « Redentore dell'uomo », l'Uomo dei dolori, che in sé
ha assunto le sofferenze fisiche e morali degli uomini di tutti i tempi,
affinché nell'amore possano trovare il senso salvifico del loro
dolore e risposte valide a tutti i loro interrogativi.
Insieme con Maria, Madre di Cristo, che
stava sotto la Croce (103), ci fermiamo accanto a tutte le croci
dell'uomo d'oggi.
Invochiamo tutti i Santi, che durante i secoli furono in
special modo partecipi delle sofferenze di Cristo. Chiediamo loro di
sostenerci.
E chiediamo a voi tutti, che soffrite, di sostenerci.
Proprio a voi, che siete deboli, chiediamo che diventiate una sorgente
di forza per la Chiesa e per l'umanità. Nel terribile combattimento
tra le forze del bene e del male, di cui ci offre spettacolo il nostro
mondo contemporaneo, vinca la vostra sofferenza in unione con la Croce di
Cristo!
A tutti, Fratelli e Sorelle carissimi, invio la mia Apostolica
Benedizione.
Dato a Roma, presso San Pietro, nella memoria liturgica della
Beata Maria Vergine di Lourdes, l'11 febbraio dell'anno 1984, sesto di
Pontificato.
GIOVANNI PAOLO II
|
|