CAPITOLO I
CHI VEDE ME, VEDE IL PADRE
(cfr Gv 14,9)
1. Rivelazione della misericordia
«Dio ricco di misericordia» (Ef2,4) è
colui che Gesù Cristo ci ha rivelato come Padre: proprio il suo Figlio,
in se stesso, ce l'ha manifestato e fatto conoscere. (Gv1,18) (Eb1,1)
Memorabile al riguardo è il momento in cui Filippo, uno dei dodici
apostoli, rivolgendosi a Cristo, disse: «Signore, mostraci il Padre e ci
basta»; e Gesù così gli rispose: «Da tanto tempo sono con voi, e tu non
mi hai conosciuto...? Chi ha visto me, ha visto il Padre». (Gv14,8)
Queste parole furono pronunciate durante il discorso di addio, al
termine della cena pasquale, a cui seguirono gli eventi di quei santi
giorni durante i quali doveva una volta per sempre trovar conferma il
fatto che «Dio, ricco di misericordia, per il grande amore con il quale
ci ha amati, da morti che eravamo per i peccati, ci ha fatti rivivere
con Cristo». (Ef2,4)
Seguendo la dottrina del Concilio Vaticano
II e aderendo alle particolari necessità dei tempi in cui viviamo, ho
dedicato l'enciclica Redemptor hominis alla verità intorno all'uomo, che
nella sua pienezza e profondità ci viene rivelata in Cristo. Un'esigenza
di non minore importanza, in questi tempi critici e non facili, mi
spinge a scoprire nello stesso Cristo ancora una volta il volto del
Padre, che è «misericordioso e Dio di ogni consolazione». Si legge
infatti nella costituzione Gaudium et spes: «Cristo, che è il nuovo
Adamo... svela... pienamente l'uomo all'uomo e gli fa nota la sua
altissima vocazione»: egli lo fa «proprio rivelando il mistero del Padre
e del suo amore». Le parole citate attestano chiaramente che la
manifestazione dell'uomo, nella piena dignità della sua natura, non può
aver luogo senza il riferimento--non soltanto concettuale, ma
integralmente esistenziale a Dio. L'uomo e la sua vocazione suprema si
svelano in Cristo mediante la rivelazione del mistero del Padre e del
suo amore.
È per questo che conviene ora volgerci a
quel mistero: lo suggeriscono molteplici esperienze della Chiesa e
dell'uomo contemporaneo; lo esigono anche le invocazioni di tanti cuori
umani, le loro sofferenze e speranze, le loro angosce ed attese. Se è
vero che ogni uomo, in un certo senso, è la via della Chiesa, come ho
affermato nell'enciclica Redemptor hominis, al tempo stesso il Vangelo e
tutta la tradizione ci indicano costantemente che dobbiamo percorrere
questa via con ogni uomo cosi come Cristo l'ha tracciata, rivelando in
se stesso il Padre e il suo amore. In Gesù Cristo ogni cammino verso
l'uomo, quale è stato una volta per sempre assegnato alla Chiesa nel
mutevole contesto dei tempi, è simultaneamente un andare incontro al
Padre e al suo amore. Il Concilio Vaticano II ha confermato questa
verità a misura dei nostri tempi.
Quanto più la missione svolta dalla Chiesa
si incentra sull'uomo, quanto più è, per cosi dire, antropocentrica,
tanto più essa deve confermarsi e realizzarsi teocentricamente, cioè
orientarsi in Gesù Cristo verso il Padre. Mentre le varie correnti del
pensiero umano nel passato e nel presente sono state e continuano ad
essere propense a dividere e perfino a contrapporre il teocentrismo e
l'antropocentrismo, la Chiesa invece, seguendo il Cristo, cerca di
congiungerli nella storia dell'uomo in maniera organica e profonda. E
questo è anche uno dei principi fondamentali, e forse il più importante,
del magistero dell'ultimo Concilio. Se dunque nella fase attuale della
storia della Chiesa, ci proponiamo come compito preminente di attuare la
dottrina del grande Concilio, dobbiamo appunto richiamarci a questo
principio con fede, con mente aperta e col cuore. Già nella citata mia
enciclica ho cercato di rilevare che l'approfondimento e il multiforme
arricchimento della coscienza della Chiesa, frutto del medesimo
Concilio, deve aprire più ampiamente il nostro intelletto ed il nostro
cuore a Cristo stesso. Oggi desidero dire che l'apertura verso Cristo,
che come Redentore del mondo rivela pienamente l'uomo all'uomo stesso,
non può compiersi altrimenti che attraverso un sempre più maturo
riferimento al Padre ed al suo amore.
2. Incarnazione della misericordia
Dio, che «abita una luce inaccessibile»,
parla nello stesso tempo all'uomo col linguaggio di tutto il cosmo:
«Infatti, dalla creazione del mondo in poi, le sue perfezioni invisibili
possono essere contemplate con l'intelletto nelle opere da lui compiute,
come la sua eterna potenza e divinità». Questa indiretta e imperfetta
conoscenza, opera dell'intelletto che cerca Dio per mezzo delle creature
attraverso il mondo visibile, non è ancora «visione del Padre». «Dio
nessuno l'ha mai visto», scrive san Giovanni per dar maggior rilievo
alla verità secondo cui «proprio il Figlio unigenito, che è nel seno del
Padre, lui lo ha rivelato». Questa «rivelazione» manifesta Dio
nell'insondabile mistero del suo essere --uno e trino-- circondato di
«luce inaccessibile». Mediante questa «rivelazione» di Cristo, tuttavia,
conosciamo Dio innanzitutto nel suo rapporto di amore verso l'uomo:
nella sua «filantropia». È proprio qui che «le sue perfezioni
invisibili» diventano in modo particolare «visibili», incomparabilmente
più visibili che attraverso tutte le altre «opere da lui compiute»: esse
diventano visibili in Cristo e per mezzo di Cristo, per il tramite delle
sue azioni e parole e, infine, mediante la sua morte in croce e la sua
risurrezione.
In tal modo, in Cristo e mediante Cristo,
diventa anche particolarmente visibile Dio nella sua misericordia, cioè
si mette in risalto quell'attributo della divinità che già l'Antico
Testamento, valendosi di diversi concetti e termini, ha definito
«misericordia». Cristo conferisce a tutta la tradizione
veterotestamentaria della misericordia divina un significato definitivo.
Non soltanto parla di essa e la spiega con l'uso di similitudini e di
parabole, ma soprattutto egli stesso la incarna e la personifca. Egli
stesso è, in un certo senso, la misericordia. Per chi la vede in lui --e
in lui la trova-- Dio diventa particolarmente «visibile» quale Padre
«ricco di misericordia».
La mentalità contemporanea, forse più di
quella dell'uomo del passato, sembra opporsi al Dio di misericordia e
tende altresì ad emarginare dalla vita e a distogliere dal cuore umano
l'idea stessa della misericordia. La parola e il concetto di
misericordia sembrano porre a disagio l'uomo, il quale, grazie
all'enorme sviluppo della scienza e della tecnica, non mai prima
conosciuto nella storia, è diventato padrone ed ha soggiogato e dominato
la terra. Tale dominio sulla terra, inteso talvolta unilateralmente e
superfìcialmente, sembra che non lasci spazio alla misericordia. A
questo proposito possiamo, tuttavia, rifarci con profitto all'immagine
«della condizione dell'uomo nel mondo contemporaneo» qual è delineata
all'inizio della Costituzione Gaudium et spes. Vi leggiamo, tra l'altro,
le seguenti frasi: «Stando cosi le cose, il mondo si presenta oggi
potente e debole, capace di operare il meglio e il peggio, mentre gli si
apre dinanzi la strada della libertà o della schiavitù, del progresso o
del regresso, della fraternità o dell'odio. Inoltre, l'uomo si rende
conto che dipende da lui orientare bene le forze da lui stesso suscitate
e che possono schiacciarlo o servirgli».
La situazione del mondo contemporaneo
manifesta non soltanto trasformazioni tali da far sperare in un futuro
migliore dell'uomo sulla terra, ma rivela pure molteplici minacce che
oltrepassano di molto quelle finora conosciute. Senza cessare di
denunciare tali minacce in diverse circostanze (come negli interventi
all'ONU, all'UNESCO, alla FAO ed altrove), la Chiesa deve esaminarle, al
tempo stesso, alla luce della verità ricevuta da Dio.
Rivelata in Cristo, la verità intorno a
Dio «Padre delle misericordie» ci consente di «vederlo» particolarmente
vicino all'uomo, soprattutto quando questi soffre, quando viene
minacciato nel nucleo stesso della sua esistenza e della sua dignità. Ed
è per questo che, nell'odierna situazione della Chiesa e del mondo,
molti uomini e molti ambienti guidati da un vivo senso di fede si
rivolgono, direi, quasi spontaneamente alla misericordia di Dio. Essi
sono spinti certamente a farlo da Cristo stesso, il quale mediante il
suo Spirito opera nell'intimo dei cuori umani. Rivelato da lui, infatti,
il mistero di Dio «Padre delle misericordie» diventa, nel contesto delle
odierne minacce contro l'uomo, quasi un singolare appello che
s'indirizza alla Chiesa.
Nella presente enciclica desidero
accogliere questo appello; desidero attingere all'eterno ed insieme, per
la sua semplicità e profondità, incomparabile linguaggio della
rivelazione e della fede, per esprimere proprio con esso ancora una
volta dinanzi a Dio ed agli uomini le grandi preoccupazioni del nostro
tempo.
Infatti, la rivelazione e la fede ci
insegnano non tanto a meditare in astratto il mistero di Dio come «Padre
delle misericordie», ma a ricorrere a questa stessa misericordia nel
nome di Cristo e in unione con lui. Cristo non ha forse detto che il
nostro Padre, il quale «vede nel segreto», attende, si direbbe,
continuamente che noi, richiamandoci a lui in ogni necessità, scrutiamo
sempre il suo mistero: il mistero del Padre e del suo amore? Desidero
quindi che queste considerazioni rendano più vicino a tutti tale mistero
e diventino, nello stesso tempo, un vibrante appello della Chiesa per la
misericordia di cui l'uomo e il mondo contemporaneo hanno tanto bisogno.
E ne hanno bisogno anche se sovente non lo sanno.
CAPITOLO
II
MESSAGGIO MESSIANICO
3. Quando Cristo iniziò a fare e ad
insegnare
Dinanzi ai suoi compaesani a Nazaret,
Cristo fa riferimento alle parole del profeta Isaia: «Lo Spirito del
Signore è sopra di me; per questo mi ha consacrato con l'unzione e mi ha
mandato per annunciare ai poveri un lieto messaggio, per proclamare ai
prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista, per rimettere in
libertà gli oppressi e predicare un anno di grazia del Signore». Queste
frasi, secondo Luca, sono la sua prima dichiarazione messianica, a cui
fanno seguito i fatti e le parole conosciute per mezzo del Vangelo.
Mediante quei fatti e quelle parole Cristo rende presente il Padre tra
gli uomini. È quanto mai signifìcativo che questi uomini siano
soprattutto i poveri, privi dei mezzi di sussistenza, coloro che sono
privi della libertà, i ciechi che non vedono la bellezza del creato,
coloro che vivono nell'afflizione del cuore, oppure soffrono a causa
dell'ingiustizia sociale, ed infine i peccatori. Soprattutto nei
riguardi di questi ultimi il Messia diviene un segno particolarmente
leggibile di Dio che è amore, diviene segno del Padre. In tale segno
visibile, al pari degli uomini di allora, anche gli uomini dei nostri
tempi possono vedere il Padre. È signifìcativo che, quando i messi
inviati da Giovanni Battista giunsero da Gesù per domandargli: «Sei tu
colui che viene, o dobbiamo aspettare un altro?», egli, rifacendosi alla
stessa testimonianza con cui aveva inaugurato l'insegnamento a Nazaret,
abbia risposto: «Andate e riferite a Giovanni ciò che avete visto e
udito: i ciechi riacquistano la vista, gli zoppi camminano, i lebbrosi
vengono sanati, i sordi odono, i morti risuscitano, ai poveri è
annunciata la buona novella», ed abbia poi concluso: «E beato è chiunque
non si sarà scandalizzato di me!».
Gesù, soprattutto con il suo stile di vita
e con le sue azioni, ha rivelato come nel mondo in cui viviamo è
presente l'amore, l'amore operante, l'amore che si rivolge all'uomo ed
abbraccia tutto ciò che forma la sua umanità. Tale amore si fa
particolarmente notare nel contatto con la sofferenza, l'ingiustizia, la
povertà, a contatto con tutta la «condizione umana» storica, che in vari
modi manifesta la limitatezza e la fragilità dell'uomo, sia fisica che
morale. Appunto il modo e l'ambito in cui si manifesta l'amore viene
denominato nel linguaggio biblico «misericordia».
Cristo quindi rivela Dio che è Padre, che
è «amore», come si esprimerà nella sua prima lettera san Giovanni;
rivela Dio «ricco di misericordia», come leggiamo in san Paolo. Tale
verità, più che tema di un insegnamento, è una realtà a noi resa
presente da Cristo. Il render presente il Padre come amore e
misericordia è, nella coscienza di Cristo stesso, la fondamentale
verifica della sua missione di Messia, lo confermano le parole da lui
pronunciate prima nella sinagoga di Nazaret, poi dinanzi ai suoi
discepoli ed agli inviati di Giovanni Battista.
In base ad un tal modo di manifestare la
presenza di Dio che è Padre, amore e misericordia, Gesù fa della
misericordia stessa uno dei principali temi della sua predicazione. Come
al solito, anche qui egli insegna innanzitutto «in parabole», perché
queste esprimono meglio l'essenza stessa delle cose. Basta ricordare la
parabola del figliol prodigo, oppure quella del buon samaritana, ma
anche --per contrasto-- la parabola del servo spietato. Sono molti i
passi dell'insegnamento di Cristo che manifestano l'amore-misericordia
sotto un aspetto sempre nuovo. È suffìciente avere davanti agli occhi il
buon pastore, che va in cerca della pecorella smarrita, oppure la donna
che spazza la casa in cerca della dramma perduta. L'evangelista che
tratta particolarmente questi temi nell'insegnamento di Cristo è Luca,
il cui Vangelo ha meritato di essere chiamato «il Vangelo della
misericordia».
Quando si parla della predicazione, si
apre un problema di capitale importanza in merito al significato dei
termini ed al contenuto del concetto, soprattutto al contenuto del
concetto di «misericordia» (in rapporto al concetto di «amore»). La
comprensione di quel contenuto è la chiave per intendere la realtà
stessa della misericordia. Ed è questo quel che per noi più importa.
Tuttavia, prima di dedicare un'ulteriore parte delle nostre
considerazioni a questo argomento, cioè di stabilire il significato dei
vocaboli e il contenuto proprio del concetto di «misericordia», è
necessario constatare che Cristo, nel rivelare l'amore -misericordia di
Dio, esigeva al tempo stesso dagli uomini che si facessero anche guidare
nella loro vita dall'amore e dalla misericordia. Questa esigenza fa
parte dell'essenza stessa del messaggio messianico, e costituisce il
midollo dell'ethos evangelico. Il Maestro lo esprime sia per mezzo del
comandamento da lui definito come «il più grande», sia in forma di
benedizione, quando nel Discorso della montagna proclama: «Beati i
misericordiosi, perché troveranno misericordia».
In tal modo, il messaggio messianico sulla
misericordia conserva una particolare dimensione divino-umana. Cristo
--quale compimento delle profezie messianiche-- divenendo l'incarnazione
dell'amore che si manifesta con particolare forza nei riguardi dei
sofferenti, degli infelici e dei peccatori, rende presente e in questo
modo rivela più pienamente il Padre, che è Dio «ricco di misericordia».
Contemporaneamente, divenendo per gli uomini modello dell'amore
misericordioso verso gli altri, Cristo proclama con i fatti ancor più
che con le parole quell'appello alla misericordia, che è una delle
componenti essenziali dell'«ethos del Vangelo». In questo caso non si
tratta solo di adempiere un comandamento o una esigenza di natura etica,
ma anche di soddisfare una condizione di capitale importanza, affinché
Dio si possa rivelare nella sua misericordia verso l'uomo: «I
misericordiosi... troveranno misericordia».
CAPITOLO III
L'ANTICO TESTAMENTO
4. Il concetto di «misericordia»
nell'Antico Testamento ha una sua lunga e ricca storia. Dobbiamo
risalire ad essa, affinché risplenda più pienamente la misericordia che
Cristo ha rivelato. Rivelandola sia con i fatti sia con l'insegnamento,
egli si rivolgeva a uomini, che non solo conoscevano il concetto di
misericordia, ma anche, come popolo di Dio dell'Antica Alleanza, avevano
tratto dalla loro plurisecolare storia una peculiare esperienza della
misericordia di Dio. Questa esperienza fu sociale e comunitaria, come
pure individuale e interiore.
Israele, infatti, fu il popolo
dell'alleanza con Dio, alleanza che molte volte infranse. Quando
prendeva coscienza della propria infedeltà--e lungo la storia d'Israele
non mancarono profeti e uomini che risvegliavano tale coscienza--,
faceva richiamo alla misericordia. In merito, i libri dell'Antico
Testamento ci riportano moltissime testimonianze. Tra i fatti ed i testi
di maggior rilievo si possono ricordare: L'inizio della storia dei
Giudici, la preghiera di Salomone all'inaugurazione del Tempio, una
parte dell'intervento profetico di Michea, le consolanti assicurazioni
offerte da Isaia, la supplica degli Ebrei esiliati, il rinnovamento
dell'alleanza dopo il ritorno dall'esilio.
È significativo che i profeti nella loro
predicazione colleghino la misericordia, alla quale fanno spesso
riferimento a causa dei peccati del popolo, con l'incisiva immagine
dell'amore da parte di Dio. Il Signore ama Israele con l'amore di una
particolare elezione, simile all'amore di uno sposo e perciò perdona le
sue colpe e perfino le infedeltà e i tradimenti. Se si trova di fronte
alla penitenza, all'autentica conversione, egli riporta di nuovo il suo
popolo alla grazia. Nella predicazione dei profeti la misericordia
significa una speciale potenza dell'amore, che prevale sul peccato e
sull'infedeltà del popolo eletto.
In questo ampio contesto «sociale», la
misericordia appare come elemento correlativo dell'esperienza interiore
delle singole persone, che versano in stato di colpa, o subiscono ogni
genere di sofferenza e sventura. Sia il male fisico che il male morale,
o peccato, fanno si che i figli e le figlie di Israele si rivolgano al
Signore con un appello alla sua misericordia. In tal modo si rivolge a
lui Davide nella coscienza della gravità della propria colpa e si
rivolge, dopo le sue ribellioni, pure Giobbe nella sua tremenda sventura
a lui si rivolge anche Ester, consapevole della minaccia mortale contro
il proprio popolo. E altri esempi troviamo ancora nei libri dell'Antico
Testamento.
All'origine di questo multiforme
convincimento comunitario e personale, qual è comprovato da tutto
l'Antico Testamento nel corso dei secoli, si colloca la fondamentale
esperienza del popolo eletto vissuta all'epoca dell'esodo: il Signore
osservò la miseria del suo popolo ridotto in schiavitù, udì il suo
grido, conobbe le sue angosce e decise di liberarlo. In questo atto di
salvezza compiuto dal Signore il profeta seppe individuare il suo amore
e la sua compassione. È proprio qui che si radica la sicurezza di tutto
il popolo e di ciascuno dei suoi membri nella misericordia divina, che
si può invocare in ogni circostanza drammatica. A ciò si aggiunge il
fatto che la miseria dell'uomo è anche il suo peccato. Il popolo
dell'antica Alleanza conobbe questa miseria fin dai tempi dell'esodo,
allorché innalzò il vitello d'oro. Su tale gesto di rottura
dell'Alleanza il Signore stesso trionfò, quando si dichiarò solennemente
a Mosè come «Dio di tenerezza e di grazia, lento all'ira e ricco di
misericordia e di fedeltà». È in questa rivelazione centrale che il
popolo eletto e ciascuno dei suoi componenti troveranno, dopo ogni
colpa, la forza e la ragione per rivolgersi al Signore, per ricordargli
ciò che egli aveva esattamente rivelato di se stesso e per implorarne il
perdono.
Cosi, nei fatti come nelle parole, il
Signore ha rivelato la sua misericordia fìn dai primordi del popolo che
si è scelto e, nel corso della sua storia, questo popolo si è
continuamente affidato, nelle disgrazie come nella presa di coscienza
del suo peccato, al Dio delle misericordie. Tutte le sfumature
dell'amore si manifestano nella misericordia del Signore verso i suoi:
egli è il loro padre poiché Israele è suo figlio primogenito egli è
anche lo sposo di colei a cui il profeta annuncia un nome nuovo:
ruhamah, «beneamata», perché a lei sarà usata misericordia. Anche
quando, esasperato dall'infedeltà del suo popolo, il Signore decide di
farla finita con esso, sono ancora la tenerezza ed il suo amore generoso
per il medesimo a fargli superare la collera. È facile allora
comprendere perché i salmisti, allorché desiderano cantare le più
sublimi lodi del Signore, intonano inni al Dio dell'amore, della
tenerezza, della misericordia e della fedeltà.
Da tutto ciò si deduce che la misericordia
non appartiene soltanto al concetto di Dio, ma è qualcosa che
caratterizza la vita di tutto il popolo di Israele e dei suoi singoli
figli e figlie: è il contenuto dell'intimità con il loro Signore, il
contenuto del loro dialogo con lui. Proprio sotto questo aspetto, la
misericordia viene presentata nei singoli libri dell'Antico Testamento
con una grande ricchezza di espressioni. Sarebbe forse difficile cercare
in questi libri una risposta puramente teorica alla domanda che cosa sia
la misericordia in se stessa. Nondimeno, già la terminologia, che in
essi è usata, può dirci moltissimo a tale proposito. L'Antico Testamento
proclama la misericordia del Signore mediante molti termini di
significato affine; essi sono differenziati nel loro contenuto
particolare, ma tendono, si potrebbe dire, da vari lati ad un unico
contenuto fondamentale, per esprimere la sua ricchezza trascendentale e,
al tempo stesso, per avvicinarla all'uomo sotto aspetti diversi.
L'Antico Testamento incoraggia gli uomini sventurati, soprattutto quelli
gravati dal peccato --come anche tutto Israele, che aveva aderito
all'alleanza con Dio-- a far appello alla misericordia, e concede loro
di contare su di essa: la ricorda nei tempi di caduta e di sfiducia. In
seguito, esso rende grazie e gloria per la misericordia, ogni volta che
si sia manifestata e compiuta sia nella vita del popolo, sia in quella
del singolo individuo.
In tal modo, la misericordia viene, in
certo senso, contrapposta alla giustizia divina e si rivela, in molti
casi, non solo più potente di essa, ma anche più profonda. Già l'Antico
Testamento insegna che, sebbene la giustizia sia autentica virtù
nell'uomo, e in Dio significhi la perfezione trascendente, tuttavia
l'amore è «più grande» di essa: è più grande nel senso che è primario e
fondamentale. L'amore, per cosi dire, condiziona la giustizia e, in
definitiva, la giustizia serve la carità. Il primato e la superiorità
dell'amore nei riguardi della giustizia (ciò è caratteristico di tutta
la rivelazione) si manifestano proprio attraverso la misericordia. Ciò
sembrò tanto chiaro ai salmisti ed ai profeti che il termine stesso di
giustizia fini per significare la salvezza realizzata dal Signore e la
sua misericordia. La misericordia differisce dalla giustizia, però non
contrasta con essa, se ammettiamo nella storia dell'uomo --come fa
appunto l'Antico Testamento-- la presenza di Dio, il quale già come
creatore si è legato con un particolare amore alla sua creatura.
L'amore, per natura, esclude l'odio e il desiderio del male nei riguardi
di colui al quale una volta ha dato in dono se stesso: Nihil odisti
eorum quae fecisti, «nulla tu disprezzi di quanto hai creato». Queste
parole indicano il fondamento profondo del rapporto tra la giustizia e
la misericordia in Dio, nelle sue relazioni con l'uomo e con il mondo.
Esse dicono che dobbiamo cercare le radici vivificanti e le ragioni
intime di questo rapporto risalendo al «principio», nel mistero stesso
della creazione. E già nel contesto dell'antica Alleanza esse
preannunciano la piena rivelazione di Dio, che «è amore».
Col mistero della creazione è connesso il
mistero della elezione, che ha in modo speciale plasmato la storia del
popolo il cui padre spirituale è Abramo in virtù della sua fede.
Tuttavia, per mezzo di questo popolo che cammina lungo la storia sia
dell'antica che della nuova Alleanza, quel mistero di elezione si
riferisce ad ogni uomo, a tutta la grande famiglia umana: «Ti ho amato
di amore eterno, per questo ti conservo ancora pietà». «Anche se i monti
vacillassero..., non si allontanerebbe da te il mio affetto, né
vacillerebbe la mia alleanza di pace». Questa verità, proclamata un
tempo ad Israele, porta in sé la prospettiva dell'intera storia
dell'uomo: prospettiva che è insieme temporale ed escatologica. Cristo
rivela il Padre nella stessa prospettiva e su un terreno già preparato,
come dimostrano ampie pagine degli scritti dell'Antico Testamento. Al
termine di tale rivelazione, alla vigilia della sua morte, egli dice
all'apostolo Filippo le memorabili parole: «Da tanto tempo sono con voi,
e tu non mi hai conosciuto...? Chi ha visto me, ha visto il Padre».
CAPITOLO
IV
LA PARABOLA DEL FIGLIOL PRODIGO
5. Analogia
Già alle soglie del Nuovo Testamento
risuona nel Vangelo di san Luca una singolare corrispondenza tra due
voci sulla misericordia divina, in cui echeggia intensamente tutta la
tradizione veterotestamentaria. Qui trovano espressione quei contenuti
semantici, legati alla terminologia differenziata dei libri antichi.
Ecco Maria che, entrata nella casa di Zaccaria, magnifica il Signore con
tutta l'anima «per la sua misericordia», di cui «di generazione in
generazione» divengono partecipi gli uomini che vivono nel timore di
Dio. Poco dopo, commemorando l'elezione di Israele, ella proclama la
misericordia, della quale «si ricorda» da sempre colui che l'ha scelta.
Successivamente, alla nascita di Giovanni Battista, nella stessa casa,
suo padre Zaccaria, benedicendo il Dio di Israele, glorifica la
misericordia che egli «ha concesso. . . ai nostri padri e si è ricordato
della sua santa alleanza».
Nell'insegnamento di Cristo stesso questa
immagine, ereditata dall'Antico Testamento, si semplifica ed insieme si
approfondisce. Ciò è forse più evidente nella parabola del figliol
prodigo, in cui l'essenza della misericordia divina, benché la parola
«misericordia» non vi ricorra, viene espressa tuttavia in modo
particolarmente limpido. A ciò contribuisce non tanto la terminologia,
come nei libri veterotestamentari, ma l'analogia che consente di
comprendere più pienamente il mistero stesso della misericordia, quale
dramma profondo che si svolge tra l'amore del padre e la prodigalità e
il peccato del figlio. Quel figlio, che riceve dal padre h porzione di
patrimonio che gli spetta e lascia la casa per sperperarla in un paese
lontano, «vivendo da dissoluto», è in certo senso l'uomo di tutti i
tempi, cominciando da colui che per primo perdette l'eredità della
grazia e della giustizia originaria. L'analogia è a questo punto molto
ampia. La parabola tocca indirettamente ogni rottura dell'alleanza
d'amore, ogni perdita della grazia, ogni peccato. In questa analogia è
messa meno in rilievo l'infedeltà di tutto il popolo di Israele rispetto
a quanto avveniva nella tradizione profetica, sebbene a quell'infedeltà
si possa anche estendere l'analogia del figliol prodigo. Quel figlio,
«quando ebbe speso tutto..., cominciò a trovarsi nel bisogno», tanto più
che venne una grande carestia «in quel paese» in cui si era recato dopo
aver lasciato la casa paterna. E in questa situazione «avrebbe voluto
saziarsi» con qualunque cosa, magari anche «con le carrube che
mangiavano i porci» da lui pascolati per conto di «uno degli abitanti di
quella regione». Ma perfino questo gli veniva rifiutato.
L'analogia si sposta chiaramente verso
l'interno dell'uomo. Il patrimonio che quel tale aveva ricevuto dal
padre era una risorsa di beni materiali, ma più importante di questi
beni era la sua dignità di figlio nella casa paterna. La situazione in
cui si venne a trovare al momento della perdita dei beni materiali
doveva renderlo cosciente della perdita di questa dignità. Egli non vi
aveva pensato prima, quando aveva chiesto al padre di dargli la parte
del patrimonio che gli spettava per andar via. E sembra che non ne sia
consapevole neppure adesso, quando dice a se stesso: «Quanti salariati
in casa di mio padre hanno pane in abbondanza, ed io qui muoio di
fame!». Egli misura se stesso con il metro dei beni che aveva perduto,
che non «possiede» più, mentre i salariati in casa di suo padre li
«posseggono». Queste parole esprimono soprattutto il suo atteggiamento
verso i beni materiali; nondimeno, sotto la superficie di esse, si cela
il dramma della dignità perduta, la coscienza della figliolanza
sciupata. È allora che egli prende la decisione: «Mi leverò e andrò da
mio padre e gli dirò: Padre, ho peccato contro il cielo e contro di te;
non sono degno di esser chiamato tuo figlio. Trattami come uno dei tuoi
garzoni». Parole, queste, che svelano più a fondo il problema
essenziale. Attraverso la complessa situazione materiale, in cui il
figliol prodigo era venuto a trovarsi a causa della sua leggerezza, a
causa del peccato, era maturato il senso della dignità perduta. Quando
egli decide di ritornare alla casa paterna, di chiedere al padre di
essere accolto --non già in virtù del diritto di figlio, ma in
condizione di mercenario--, sembra esteriormente agire a motivo della
fame e della miseria in cui è caduto; questo motivo è però permeato
dalla coscienza di una perdita più profonda: essere un garzone nella
casa del proprio padre è certamente una grande umiliazione e vergogna.
Nondimeno, il figliol prodigo è pronto ad affrontare tale umiliazione e
vergogna. Egli si rende conto che non ha più alcun diritto, se non
quello di essere mercenario nella casa del padre. La sua decisione è
presa in piena coscienza di ciò che ha meritato e di ciò a cui può
ancora aver diritto secondo le norme della giustizia. Proprio questo
ragionamento dimostra che, al centro della coscienza del figliol
prodigo, emerge il senso della dignità perduta, di quella dignità che
scaturisce dal rapporto del figlio col padre. Ed è con tale decisione
che egli si mette per strada.
Nella parabola del figliol prodigo non è
usato neanche una sola volta il termine «giustizia», cosi come, nel
testo originale, non è usato quello di «misericordia»; tuttavia, il
rapporto della giustizia con l 'amore che si manifesta come misericordia
viene con grande precisione inscritto nel contenuto della parabola
evangelica. Diviene più palese che l'amore si trasforma in misericordia
quando occorre oltrepassare la precisa norma della giustizia: precisa e
spesso troppo stretta. Il figliol prodigo, consumate le sostanze
ricevute dal padre, merita --dopo il ritorno-- di guadagnarsi da vivere
lavorando nella casa paterna come mercenario, ed eventualmente, a poco a
poco, di conseguire una certa provvista di beni materiali, forse però
mai più nella quantità in cui li aveva sperperati. Tale sarebbe
l'esigenza dell'ordine di giustizia, tanto più che quel figlio non
soltanto aveva dissipato la parte del patrimonio spettantegli, ma
inoltre aveva toccato sul vivo ed offeso il padre con la sua condotta.
Questa, infatti, che a suo giudizio l'aveva privato della dignità
filiale, non doveva essere indifferente al padre. Doveva farlo soffrire.
Doveva anche, in qualche modo, coinvolgerlo. Eppure si trattava, in fìn
dei conti, del proprio figlio, e tale rapporto non poteva essere né
alienato né distrutto da nessun comportamento. Il figliol prodigo ne è
consapevole, ed è appunto tale consapevolezza a mostrargli chiaramente
la dignità perduta ed a fargli valutare rettamente il posto che ancora
poteva spettargli nella casa del padre.
6. Particolare concentrazione sulla
dignità umana.
Questa precisa immagine dello stato d
'animo del figliol prodigo ci permette di comprendere con esattezza in
che cosa consista la misericordia divina. Non vi è alcun dubbio che in
quella semplice ma penetrante analogia, la figura del genitore ci svela
Dio come Padre. Il comportamento del padre della parabola e tutto il suo
modo di agire, che manifestano il suo atteggiamento interiore, ci
consentono di ritrovare i singoli fili della visione
vetero-testamentaria della misericordia in una sintesi totalmente nuova,
piena di semplicità e di profondità. Il padre del figliol prodigo è
fedele alla sua paternità, fedele a quell'amore che da sempre elargiva
al proprio figlio. Tale fedeltà si esprime nella parabola non soltanto
con la prontezza immediata nell'accoglierlo in casa, quando ritorna dopo
aver sperperato il patrimonio: essa si esprime ancor più pienamente con
quella gioia, con quella festosità cosi generosa nei confronti del
dissipatore dopo il ritorno, che è tale da suscitare l'opposizione e
l'invidia del fratello maggiore, il quale non si era mai allontanato dal
padre e non ne aveva abbandonato la casa.
La fedeltà a se stesso da parte del padre
--un tratto già noto dal termine vetero-testamentario «.hesed»-- viene
al tempo stesso espressa in modo particolarmente carico di affetto.
Leggiamo infatti che, quando il padre vide il figliol prodigo tornare a
casa, «commosso gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò».
Egli agisce certamente sotto l'influsso di un profondo affetto, e così
può essere spiegata anche la sua generosità verso il figlio, quella
generosità che tanto indigna il fratello maggiore. Tuttavia, le cause di
quella commozione vanno ricercate più in profondità. Ecco, il padre è
consapevole che è stato salvato un bene fondamentale: il bene
dell'umanità del suo figlio. Sebbene questi abbia sperperato il
patrimonio, è però salva la sua umanità. Anzi, essa è stata in qualche
modo ritrovata. Lo dicono le parole che il padre rivolge al figlio
maggiore: «Bisognava far festa e rallegrarsi, perché questo tuo fratello
era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato». Nello
stesso capitolo XV del Vangelo secondo Luca, leggiamo la parabola della
pecora ritrovata, e successivamente la parabola della dramma ritrovata.
Ogni volta vi è posta in rilievo la medesima gioia presente nel caso del
figliol prodigo. La fedeltà del padre a se stesso è totalmente
incentrata sull'umanità del figlio perduto, sulla sua dignità. Così si
spiega soprattutto la gioiosa commozione al momento del suo ritorno a
casa.
Proseguendo, si può dunque dire che
l'amore verso il figlio, L'amore che scaturisce dall'essenza stessa
della paternità, obbliga in un certo senso il padre ad aver
sollecitudine della dignità del figlio. Questa sollecitudine costituisce
la misura del suo amore, L'amore di cui scriverà poi san Paolo: «La
carità è paziente, è benigna la carità..., non cerca il suo interesse,
non si adira, non tiene conto del male ricevuto..., si compiace della
verità..., tutto spera, tutto sopporta» e «non avrà mai fine». La
misericordia --come l'ha presentata Cristo nella parabola del figliol
prodigo-- ha la forma interiore dell'amore che nel Nuovo Testamento è
chiamato «agápe». Tale amore è capace di chinarsi su ogni figlio
prodigo, su ogni miseria umana e, soprattutto, su ogni miseria morale,
sul peccato. Quando ciò avviene, colui che è oggetto della misericordia
non si sente umiliato, ma come ritrovato e «rivalutato». Il padre gli
manifesta innanzitutto la gioia che sia stato «ritrovato» e che sia
«tornato in vita». Tale gioia indica un bene inviolato: un figlio, anche
se prodigo, non cessa di esser figlio reale di suo padre; essa indica
inoltre un bene ritrovato, che nel caso del figliol prodigo fu il
ritorno alla verità su se stesso.
Ciò che si è verificato nel rapporto del
padre col figlio nella parabola di Cristo non si può valutare
«dall'esterno». I nostri pregiudizi sul tema della misericordia sono per
lo più Il risultato di una valutazione soltanto esteriore. Alle volte,
seguendo un tale modo di valutare, accade che avvertiamo nella
misericordia soprattutto un rapporto di diseguaglianza tra colui che la
offre e colui che la riceve. E, di conseguenza, siamo pronti a dedurre
che la misericordia diffama colui che la riceve, che offende la dignità
dell'uomo. La parabola del figliol prodigo dimostra che la realtà è
diversa: la relazione di misericordia si fonda sulla comune esperienza
di quel bene che è l'uomo, sulla comune esperienza della dignità che gli
è propria. Questa comune esperienza fa sì che il figliol prodigo cominci
a vedere se stesso e le sue azioni in tutta verità (tale visione nella
verità è un'autentica umiltà); e per il padre, proprio per questo
motivo, egli diviene un bene particolare: il padre vede con così limpida
chiarezza il bene che si è compiuto, grazie ad una misteriosa
irradiazione della verità e dell'amore, che sembra dimenticare tutto il
male che il figlio aveva commesso.
La parabola del figliol prodigo esprime in
modo semplice, ma profondo, la realtà della conversione. Questa è la più
concreta espressione dell'opera dell'amore e della presenza della
misericordia nel mondo umano. Il significato vero e proprio della
misericordia non consiste soltanto nello sguardo, fosse pure il più
penetrante e compassionevole, rivolto verso il male morale, fisico o
materiale: la misericordia si manifesta nel suo aspetto vero e proprio
quando rivaluta, promuove e trae il bene da tutte le forme di male
esistenti nel mondo e nell'uomo. Così intesa, essa costituisce il
contenuto fondamentale del messaggio messianico di Cristo e la forza
costitutiva della sua missione. Allo stesso modo intendevano e
praticavano la misericordia i suoi discepoli e seguaci. Essa non cessò
mai di rivelarsi, nei loro cuori e nelle loro azioni, come una verifica
particolarmente creatrice dell'amore che non si lascia «vincere dal
male», ma si vince «con il bene il male». Occorre che il volto genuino
della misericordia sia sempre nuovamente svelato. Nonostante molteplici
pregiudizi, essa appare particolarmente necessaria ai nostri tempi.
CAPITOLO
V
IL MISTERO PASQUALE
7. Misericordia rivelata nella croce e
nella resurrezione
Il messaggio messianico di Cristo e la sua
attività fra gli uomini terminano con la croce e la risurrezione.
Dobbiamo penetrare profondamente in questo evento finale che,
specialmente nel linguaggio conciliare, viene definito mistero pasquale,
se vogliamo esprimere sino in fondo la verità sulla misericordia, così
come essa è stata sino in fondo rivelata nella storia della nostra
salvezza. A questo punto delle nostre considerazioni, occorrerà
avvicinarci ancora di più al contenuto dell'enciclica Redemptor hominis.
Se infatti la realtà della redenzione, nella sua dimensione umana, svela
la grandezza inaudita dell'uomo, che meritò di avere un così grande
Redentore, al tempo stesso la dimensione divina della redenzione ci
consente, direi, nel modo più empirico e «storico», di svelare la
profondità di quell'amore che non indietreggia davanti allo
straordinario sacrificio del Figlio, per appagare la fedeltà del
Creatore e Padre nei riguardi degli uomini creati a sua immagine e fìn
dal «principio» scelti, in questo Figlio, per la grazia e per la gloria.
Gli eventi del Venerdì santo e, prima
ancora, la preghiera nel Getsemani introducono, in tutto il corso della
rivelazione dell'amore e della misericordia, nella missione messianica
di Cristo, un cambiamento fondamentale. Colui che «passò beneficando e
risanando» e «curando ogni malattia e infermità» sembra ora egli stesso
meritare la più grande misericordia e richiamarsi alla misericordia,
quando viene arrestato, oltraggiato, condannato, flagellato, coronato di
spine, quando viene inchiodato alla croce e spira fra tormenti
strazianti. È allora che merita particolarmente la misericordia dagli
uomini che ha beneficato, e non la riceve. Perfino coloro che gli sono
più vicini non sanno proteggerlo e strapparlo dalle mani degli
oppressori. In questa tappa finale della missione messianica si
adempiono in Cristo le parole dei profeti e soprattutto di Isaia,
pronunciate riguardo al Servo di Jahvè: «Per le sue piaghe noi siamo
stati guariti».
Cristo, come uomo che soffre realmente e
in modo terribile nell'orto degli ulivi e sul Calvario, si rivolge al
Padre, a quel Padre il cui amore egli ha predicato agli uomini, la cui
misericordia ha testimoniato con tutto il suo agire. Ma non gli viene
risparmiata --proprio a lui-- la tremenda sofferenza della morte in
croce: «Colui che non aveva conosciuto peccato, Dio lo trattò da peccato
in nostro favore», scriverà san Paolo, riassumendo in poche parole tutta
la profondità del mistero della croce ed insieme la dimensione divina
della realtà della redenzione. Proprio questa redenzione è l'ultima e
definitiva rivelazione della santità di Dio, che è la pienezza assoluta
della perfezione: pienezza della giustizia e dell'amore, poiché la
giustizia si fonda sull'amore, da esso promana e ad esso tende. Nella
passione e morte di Cristo --nel fatto che il Padre non risparmiò il suo
Figlio, ma «lo trattò da peccato in nostro favore» -- si esprime la
giustizia assoluta, perché Cristo subisce la passione e la croce a causa
dei peccati dell'umanità. Ciò è addirittura una «sovrabbondanza» della
giustizia, perché i peccati dell'uomo vengono «compensati» dal
sacrificio dell'Uomo-Dio. Tuttavia, tale giustizia, che è propriamente
giustizia «su misura» di Dio, nasce tutta dall'amore: dall'amore del
Padre e del Figlio, e fruttifica tutta nell'amore. Proprio per questo la
giustizia divina rivelata nella croce di Cristo è «su misura» di Dio,
perché nasce dall'amore e nell'amore si compie, generando frutti di
salvezza. La dimensione divina della redenzione non si attua soltanto
nel far giustizia del peccato, ma nel restituire all'amore quella forza
creativa nell'uomo, grazie alla quale egli ha nuovamente accesso alla
pienezza di vita e di santità che proviene da Dio. In tal modo, la
redenzione porta in sé la rivelazione della misericordia nella sua
pienezza.
Il mistero pasquale è il vertice di questa
rivelazione ed attuazione della misericordia, che è capace di
giustificare l'uomo, di ristabilire la giustizia nel senso di
quell'ordine salvifico che Dio dal principio aveva voluto nell'uomo e,
mediante l'uomo, nel mondo. Cristo sofferente parla in modo particolare
all'uomo, e non soltanto al credente. Anche l'uomo non credente saprà
scoprire in lui l'eloquenza della solidarietà con la sorte umana, come
pure l'armoniosa pienezza di una disinteressata dedizione alla causa
dell'uomo, alla verità e all'amore. La dimensione divina del mistero
pasquale giunge, tuttavia, ancor più in profondità. La croce collocata
sul Calvario, su cui Cristo svolge il suo ultimo dialogo col Padre,
emerge dal nucleo stesso di quell'amore di cui l'uomo, creato ad
immagine e somiglianza di Dio, è stato ratificato secondo l'eterno
disegno divino. Dio, quale Cristo ha rivelato, non rimane soltanto in
stretto collegamento col mondo, come creatore e ultima fonte
dell'esistenza. Egli è anche Padre: con l'uomo, da lui chiamato
all'esistenza nel mondo visibile, è unito da un vincolo ancor più
profondo di quello creativo. È l'amore che non soltanto crea il bene, ma
fa partecipare alla vita stessa di Dio: Padre, Figlio e Spirito Santo.
Infatti, colui che ama desidera donare se stesso. La croce di Cristo sul
Calvario sorge sulla via di quel meraviglioso scambio, di quel mirabile
comunicarsi di Dio all'uomo, in cui è al tempo stesso contenuta la
chiamata rivolta all'uomo, affinché, donando se stesso a Dio e con sé
tutto il mondo visibile, partecipi alla vita divina, -e affinché come
figlio adottivo divenga partecipe della verità e dell'amore che è in Dio
e che proviene da Dio. Proprio sulla via dell'eterna elezione dell'uomo
alla dignità di figlio adottivo di Dio, sorge nella storia la croce di
Cristo, Figlio unigenito, che, come «luce da luce, Dio vero da Dio vero»
(Credo), è venuto a dare l'ultima testimonianza della mirabile alleanza
di Dio con l'umanità, di Dio con l'uomo --con ogni uomo. Questa
alleanza, antica come l'uomo --risale al mistero stesso della
creazione-- e ristabilita poi più volte con un unico popolo eletto, è
ugualmente l'alleanza nuova e definitiva, stabilita là, sul Calvario, e
non limitata ad un unico popolo, ad Israele, ma aperta a tutti e a
ciascuno.
Che cosa dunque ci dice la croce di
Cristo, che è, in un certo senso, l'ultima parola del suo messaggio e
della sua missione messianica? --Eppure, questa non è ancora l'ultima
parola del Dio dell'alleanza: essa sarà pronunciata in quell'alba,
quando prima le donne e poi gli apostoli, venuti al sepolcro di Cristo
crocifisso, vedranno la tomba vuota e sentiranno per la prima volta
l'annuncio: «È risorto». Essi lo ripeteranno agli altri e saranno
testimoni del Cristo risorto. Tuttavia, anche in questa glorificazione
del Figlio di Dio continua ad esser presente la croce, la quale--
attraverso tutta la testimonianza messianica dell'Uomo-Figlio, che su di
essa ha subito la morte--parla e non cessa mai di parlare di Dio-Padre,
che è assolutamente fedele al suo eterno amore verso l'uomo, poiché «ha
tanto amato il mondo --quindi l'uomo nel mondo-- da dare il suo Figlio
unigenito, perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita
eterna». Credere nel Figlio crocifisso significa «vedere il Padre»,
significa credere che l'amore è presente nel mondo e che questo amore è
più potente di ogni genere di male in cui l'uomo, L'umanità, il mondo
sono coinvolti. Credere in tale amore significa credere nella
misericordia. Questa infatti è la dimensione indispensabile dell'amore,
è come il suo secondo nome e, al tempo stesso, è il modo specifico della
sua rivelazione ed attuazione nei confronti della realtà del male che è
nel mondo, che tocca e assedia l'uomo, che si insinua anche nel suo
cuore e può farlo «perire nella Geenna».
8. Amore più potente della morte, più
potente del peccato
La croce di Cristo sul Calvario è anche
testimonianza della forza del male verso lo stesso Figlio di Dio, verso
colui che, unico fra tutti i figli degli uomini, era per sua natura
assolutamente innocente e libero dal peccato, e la cui venuta nel mondo
fu esente dalla disobbedienza di Adamo e dall'eredità del peccato
originale. Ed ecco, proprio in lui, in Cristo, viene fatta giustizia del
peccato a prezzo del suo sacrificio, della sua obbedienza «fino alla
morte». Colui che era senza peccato, «Dio lo trattò da peccato in nostro
favore». Viene anche fatta giustizia della morte che, dagli inizi della
storia dell'uomo, si era alleata col peccato. Questo far giustizia della
morte avviene a prezzo della morte di colui che era senza peccato e che
unico poteva --mediante la propria morte-- infliggere morte alla morte.
In tal modo la croce di Cristo, sulla quale il Figlio consostanziale al
Padre rende piena giustizia a Dio, è anche una rivelazione radicale
della misericordia, ossia dell'amore che va contro a ciò che costituisce
la radice stessa del male nella storia dell'uomo: contro al peccato e
alla morte. La croce è il più profondo chinarsi della Divinità sull'uomo
e su ciò che l'uomo --specialmente nei momenti difficili e dolorosi--
chiama il suo infelice destino. La croce è come un tocco dell'eterno
amore sulle ferite più dolorose dell'esistenza terrena dell'uomo, è il
compimento sino alla fine del programma messianico, che Cristo formulò
una volta nella sinagoga di Nazaret e ripeté poi dinanzi agli inviati di
Giovanni Battista. Secondo le parole scritte già nella profezia di
Isaia, tale programma consisteva nella rivelazione dell'amore
misericordioso verso i poveri, i sofferenti e i prigionieri, verso i non
vedenti, gli oppressi e i peccatori. Nel mistero pasquale viene
oltrepassato il limite del molteplice male di cui l'uomo diventa
partecipe nell'esistenza terrena: la croce di Cristo infatti ci fa
comprendere le più profonde radici del male che affondano nel peccato e
nella morte, e cosi diventa un segno escatologico. Soltanto nel
compimento escatologico e nel definitivo rinnovamento del mondo, l'amore
in tutti gli eletti vincerà le sorgenti più profonde del male, portando
quale frutto pienamente maturo il Regno della vita e della santità e
dell'immortalità gloriosa. Il fondamento di tale compimento escatologico
è già racchiuso nella croce di Cristo e nella sua morte. Il fatto che
Cristo «è risuscitato il terzo giorno» costituisce il segno finale della
missione messianica, segno che corona l'intera rivelazione dell'amore
misericordioso nel mondo soggetto al male. Ciò costituisce al tempo
stesso il segno che preannuncia «un nuovo cielo e una nuova terra»,
quando Dio «tergerà ogni lacrima dai loro occhi; non ci sarà più la
morte, né lutto, né lamento, né affanno, perché le cose di prima sono
passate».
Nel compimento escatologico la
misericordia si rivelerà come amore, mentre nella temporaneità, nella
storia umana, che è insieme storia di peccato e di morte, l'amore deve
rivelarsi soprattutto come misericordia ed anche attuarsi come tale. Il
programma messianico di Cristo --programma di misericordia-- diviene il
programma del suo popolo, il programma della Chiesa. Al centro di questo
sta sempre la croce, poiché in essa la rivelazione dell'amore
misericordioso raggiunge il suo culmine. Fino a che «le cose di prima»
non passeranno, la croce rimarrà quel «luogo» al quale potrebbero
riferirsi ancora altre parole dell'Apocalisse di Giovanni: «Ecco, sto
alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta,
io verrò da lui, cenerò con lui ed egli con me. In modo particolare, Dio
rivela anche la sua misericordia quando sollecita l'uomo alla
«misericordia» verso il suo proprio Figlio, verso il crocifisso. Cristo,
appunto come crocifisso, è il Verbo che non passa, è colui che sta alla
porta e bussa al cuore di ogni uomo, senza coartarne la libertà, ma
cercando di trarre da questa stessa libertà l'amore, che è non soltanto
atto di solidarietà con il sofferente Figlio dell'uomo, ma anche in
certo modo «misericordia» manifestata da ognuno di noi al Figlio
dell'eterno Padre. In tutto questo programma messianico di Cristo, in
tutta la rivelazione della misericordia mediante la croce, potrebbe
forse essere maggiormente rispettata ed elevata la dignità dell'uomo,
dato che egli, trovando misericordia, è anche, in un certo senso, colui
che contemporaneamente «manifesta la misericordia»?
In definitiva, Cristo non prende forse
tale posizione nei riguardi dell'uomo quando dice: «Ogni volta che avete
fatto queste cose a uno solo di questi..., l'avete fatto a me»? Le
parole del discorso della montagna: «Beati i misericordiosi, perché
troveranno misericordia», non costituiscono in un certo senso una
sintesi di tutta la Buona Novella, di tutto il «mirabile scambio»
(admirabile commercium) ivi racchiuso, che è una legge semplice, forte
ed insieme «dolce» dell'economia stessa della salvezza? Queste parole
del discorso della montagna, facendo vedere nel punto di partenza le
possibilità del «cuore umano» («essere misericordiosi»), non rivelano
forse secondo la medesima prospettiva il profondo mistero di Dio: quella
inscrutabile unità del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, in cui
l'amore, contenendo la giustizia, dà l'avvio alla misericordia, che a
sua volta rivela la perfezione della giustizia?
Il mistero pasquale è Cristo al vertice
della rivelazione dell'inscrutabile mistero di Dio. Proprio allora si
adempiono sino in fondo le parole pronunciate nel cenacolo: «Chi ha
visto me, ha visto il Padre». Infatti Cristo, che il Padre «non ha
risparmiato» in favore dell'uomo -e che nella sua passione e nel
supplizio della croce non ha trovato misericordia umana, nella sua
risurrezione ha rivelato la pienezza di quell'amore che il Padre nutre
verso di lui e, in lui, verso tutti gli uomini. «Non è un Dio dei morti,
ma dei viventi». Nella sua risurrezione Cristo ha rivelato il Dio
dell'amore misericordioso, proprio perché ha accettato la croce come via
alla risurrezione. Ed è per questo che--quando ricordiamo la croce di
Cristo, la sua passione e morte--la nostra fede e la nostra speranza
s'incentrano sul Risorto: su quel Cristo che «la sera di quello stesso
giorno, il primo dopo il sabato... si fermò in mezzo a loro» nel
cenacolo «dove si trovavano i discepoli, ...alitò su di loro e disse:
Ricevete lo Spirito Santo; a chi rimetterete i peccati, saranno rimessi,
e a chi non li rimetterete, resteranno non rimessi». Ecco il Figlio di
Dio, che nella sua risurrezione ha sperimentato in modo radicale su di
sé la misericordia, cioè l'amore del Padre che è più potente della
morte. Ed è anche lo stesso Cristo, Figlio di Dio, che al termine--e in
certo senso già oltre il termine--della sua missione messianica, rivela
se stesso come fonte inesauribile della misericordia, del medesimo amore
che, nella prospettiva ulteriore della storia della salvezza nella
Chiesa, deve perennemente confermarsi più potente del peccato. Il Cristo
pasquale è l'incarnazione definitiva della misericordia, il suo segno
vivente: storicosalvifìco ed insieme escatologico. Nel medesimo spirito,
la liturgia del tempo pasquale pone sulle nostre labbra le parole del
Salmo: Canterò in eterno le misericordie del Signore.
9. La Madre della misericordia
In queste parole pasquali della Chiesa
risuonano, nella pienezza del loro contenuto profetico, quelle già
pronunciate da Maria durante la visita fatta a Elisabetta, moglie di
Zaccaria: «Di generazione in generazione la sua misericordia». Esse, già
dal momento dell'incarnazione, aprono una nuova prospettiva della storia
della salvezza. Dopo la risurrezione di Cristo questa prospettiva è
nuova sul piano storico e, al tempo stesso, lo è sul piano escatologico.
Da allora si susseguono sempre nuove generazioni di uomini nell'immensa
famiglia umana, in dimensioni sempre crescenti; si susseguono anche
nuove generazioni del Popolo di Dio, segnate dallo stigma della croce e
della risurrezione, e «sigillate» con il segno del mistero pasquale di
Cristo, rivelazione assoluta di quella misericordia che Maria proclamò
sulla soglia di casa della sua parente: «M generazione in generazione la
sua misericordia».
Maria è anche colei che, in modo
particolare ed eccezionale --come nessun altro--, ha sperimentato la
misericordia e al tempo stesso, sempre in modo eccezionale, ha reso
possibile col sacrificio del cuore la propria partecipazione alla
rivelazione della misericordia divina. Tale sacrificio è strettamente
legato alla croce del Figlio, ai piedi della quale ella doveva trovarsi
sul Calvario. Questo suo sacrificio è una singolare partecipazione al
rivelarsi della misericordia, cioè alla fedeltà assoluta di Dio al
proprio amore, all'alleanza che egli ha voluto fin dall'eternità ed ha
concluso nel tempo con l'uomo, con il popolo, con l'umanità; è la
partecipazione a quella rivelazione che si è definitivamente compiuta
attraverso la croce. Nessuno ha sperimentato, al pari della Madre del
Crocifisso, il mistero della croce, lo sconvolgente incontro della
trascendente giustizia divina con l'amore: quel «bacio» dato dalla
misericordia alla giustizia. Nessuno al pari di lei, Maria, ha accolto
col cuore quel mistero: quella dimensione veramente divina della
redenzione che ebbe attuazione sul Calvario mediante la morte del
Figlio, insieme al sacrificio del suo cuore di madre, insieme al suo
definitivo «fiat».
Maria quindi è colei che conosce più a
fondo il mistero della misericordia divina. Ne sa il prezzo, e sa quanto
esso sia grande. In questo senso la chiamano anche Madre della
misericordia: Madonna della misericordia o Madre della divina
misericordia; in ciascuno di questi titoli c'è un profondo significato
teologico, perché essi esprimono la particolare preparazione della sua
anima, di tutta la sua personalità, nel saper vedere, attraverso i
complessi avvenimenti di Israele prima, e di ogni uomo e dell'umanità
intera poi, quella misericordia di cui «di generazione in generazione»
si diviene partecipi secondo l'eterno disegno della SS. Trinità.
I suddetti titoli che attribuiamo alla
Madre di Dio parlano però soprattutto di lei come della Madre del
Crocifisso e del Risorto; come di colei che, avendo sperimentato la
misericordia in modo eccezionale, «merita» in egual modo tale
misericordia lungo l'intera sua vita terrena e, particolarmente, ai
piedi della croce del Figlio; ed infìne, come di colei che, attraverso
la partecipazione nascosta e al tempo stesso incomparabile alla missione
messianica del suo Figlio, è stata chiamata in modo speciale ad
avvicinare agli uomini quell'amore che egli era venuto a rivelare: amore
che trova la più concreta espressione nei riguardi di coloro che
soffrono, dei poveri, di coloro che son privi della propria libertà, dei
non vedenti, degli oppressi e dei peccatori, cosi come ne parlò Cristo
secondo la profezia di Isaia, prima nella sinagoga di Nazaret e poi in
risposta alla richiesta degli inviati di Giovanni Battista.
Appunto a questo amore «misericordioso»,
che viene manifestato soprattutto a contatto con il male morale e
fisico, partecipava in modo singolare ed eccezionale il cuore di colei
che fu Madre del Crocifisso e del Risorto, partecipava Maria. Ed in lei
e per mezzo di lei, esso non cessa di rivelarsi nella storia della
Chiesa e dell'umanità. Tale rivelazione è specialmente fruttuosa, perché
si fonda, nella Madre di Dio, sul singolare tatto del suo cuore materno,
sulla sua particolare sensibilità, sulla sua particolare idoneità a
raggiungere tutti coloro che accettano più facilmente l'amore
misericordioso da parte di una madre. Questo è uno dei grandi e
vivificanti misteri del cristianesimo, tanto strettamente connesso con
il mistero dell'incarnazione.
«Questa maternità di Maria nell'economia
della grazia --come si esprime il Concilio Vaticano II-- perdura senza
soste dal momento del consenso fedelmente prestato nell'annunciazione e
mantenuto senza esitazioni sotto la croce, fino al perpetuo coronamento
di tutti gli eletti. Difatti, assunta in cielo non ha deposto questa
funzione di salvezza, ma con la sua molteplice intercessione continua a
ottenerci le grazie della salute eterna. Con la sua materna carità si
prende cura dei fratelli del Figlio suo ancora peregrinanti e posti in
mezzo a pericoli e affanni, fino a che non siano condotti nella patria
beata».
CAPITOLO
VI
MISERICORDIA ..... DI GENERAZIONE IN
GENERAZIONE
10. Immagine della nostra generazione
Abbiamo ogni diritto di credere che anche
la nostra generazione è stata compresa nelle parole della Madre di Dio,
quando glorificava quella misericordia di cui «di generazione in
generazione» sono partecipi coloro che si lasciano guidare dal timore di
Dio. Le parole del Magnificat mariano hanno un contenuto profetico che
riguarda non soltanto il passato di Israele, ma anche l'intero avvenire
del Popolo di Dio sulla terra. Siamo infatti, noi tutti che viviamo al
presente sulla terra, la generazione che è consapevole
dell'approssimarsi del terzo Millennio e che sente profondamente la
svolta che si sta verifìcando nella storia.
La presente generazione avverte di essere
privilegiata, perché il progresso le offre molte possibilità, appena
qualche decennio fa insospettate. L'attività creatrice dell'uomo, la sua
intelligenza e il suo lavoro, hanno causato profondi cambiamenti sia nel
campo della scienza e della tecnica, come nella vita sociale e
culturale. L'uomo ha esteso il suo potere sulla natura ed ha acquistato
una conoscenza più approfondita delle leggi del proprio comportamento
sociale. Egli ha visto crollare o restringersi gli ostacoli e le
distanze che separano uomini e nazioni, grazie ad un accresciuto senso
universalistico, ad una più chiara coscienza dell'unità del genere umano
e all'accettazione della reciproca dipendenza in un'autentica
solidarietà, e grazie infìne al desiderio--e alla possibilità--di venire
a contatto con i propri fratelli e sorelle al di là delle divisioni
artificialmente create dalla geografia o dalle frontiere nazionali o
razziali. I giovani d'oggi soprattutto sanno che il progresso della
scienza e della tecnica può procurare non solo nuovi beni materiali, ma
anche una più vasta partecipazione alla reciproca conoscenza. Ad
esempio, lo sviluppo dell'informatica moltiplicherà le capacità
creatrici dell'uomo e gli permetterà di accedere alle ricchezze
intellettuali e culturali degli altri popoli. Le nuove tecniche di
comunicazione favoriranno una maggiore partecipazione agli avvenimenti e
un crescente scambio di idee. Le acquisizioni della scienza biologica,
psicologica o sociale aiuteranno l'uomo a penetrare meglio nelle
ricchezze del proprio essere. E se è vero che un tale progresso resta
ancora troppo spesso privilegio dei paesi industrializzati, non si può
negare tuttavia che la prospettiva di farne beneficiare tutti i popoli e
tutti i paesi non sarà più a lungo un'utopia, quando vi sia una reale
volontà politica a questo fine.
Ma a fianco di tutto questo --o piuttosto
entro a tutto questo-- esistono nello stesso tempo difficoltà, che si
dimostrano anzi in aumento. Esistono inquietudini e impotenze, che
costringono ad una risposta radicale che l'uomo sente di dover dare. Il
quadro del mondo contemporaneo presenta anche ombre e squilibri non
sempre superficiali. La Costituzione pastorale Gaudium et spes del
Concilio Vaticano II non è certamente l'unico documento che tratta della
vita della generazione contemporanea, ma è un documento di importanza
particolare. «In verità gli squilibri, di cui soffre il mondo
contemporaneo --leggiamo in essa-- si collegano con quel più profondo
squilibrio, che è radicato nel cuore dell'uomo. È proprio all'interno
dell'uomo che molti elementi si contrastano a vicenda. Da una parte
infatti, come creatura, egli sperimenta in mille modi i suoi limiti;
d'altra parte, si accorge di essere senza confini nelle sue aspirazioni
e chiamato ad una vita superiore. Sollecitato da molte attrattive, è
costretto sempre a sceglierne qualcuna ed a rinunciare alle altre.
Inoltre, debole e peccatore, non di rado fa quello che non vorrebbe e
non fa quello che vorrebbe. Per cui soffre in se stesso una divisione,
dalla quale provengono anche tante e così gravi discordie nella
società». Verso la fine dell'esposizione introduttiva leggiamo: «...di
fronte alla presente evoluzione del mondo, diventano sempre più numerosi
quelli che si pongono o sentono con nuova acutezza gli interrogativi
capitali: che cos'è l'uomo? Qual è il significato del dolore, del male,
della morte che, malgrado ogni progresso, continuano a sussistere? Che
cosa valgono queste conquiste raggiunte a così caro prezzo?». Nell'arco
di ormai quindici anni dalla conclusione del Concilio Vaticano II, quel
quadro di tensioni e di minacce proprie della nostra epoca è forse
divenuto meno inquietante? Sembra di no. Al contrario, le tensioni e le
minacce, che nel documento conciliare sembravano soltanto delinearsi e
non manifestare sino in fondo tutto il pericolo che celavano in sé,
nello spazio di questi anni si sono maggiormente rivelate, hanno
confermato in modo diverso quel pericolo e non permettono di nutrire le
illusioni di un tempo.
11. Fonti di inquietudine
Pertanto, nel nostro mondo aumenta il
senso di minaccia. Aumenta quel timore esistenziale collegato
soprattutto --come ho già accennato nell'enciclica Redemptor hominis--
con la prospettiva di un conflitto che, in considerazione degli odierni
arsenali atomici, potrebbe significare la parziale autodistruzione
dell'umanità. Tuttavia, la minaccia non concerne soltanto ciò che gli
uomini possono fare agli uomini, servendosi dei mezzi della tecnica
militare; essa riguarda anche molti altri pericoli che sono il prodotto
di una civiltà materialistica, la quale--nonostante dichiarazioni
«umanistiche»--accetta il primato delle cose sulla persona. L'uomo
contemporaneo ha dunque paura che, con l'uso dei mezzi inventati da
questo tipo di civiltà, i singoli individui ed anche gli ambienti, le
comunità, le società, le nazioni, possano rimanere vittima del sopruso
di altri individui, ambienti, società. La storia del nostro secolo ne
offre esempi in abbondanza. Malgrado tutte le dichiarazioni sui diritti
dell'uomo nella sua dimensione integrale, cioè nella sua esistenza
corporea e spirituale, non possiamo dire che questi esempi appartengano
soltanto al passato.
L'uomo ha giustamente paura di restar
vittima di una oppressione che lo privi della libertà interiore, della
possibilità di esternare la verità di cui è convinto, della fede che
professa, della facoltà di obbedire alla voce della coscienza che gli
indica la retta via da seguire. I mezzi tecnici a disposizione della
civiltà odierna celano, infatti, non soltanto la possibilità di
un'autodistruzione per via di un conflitto militare, ma anche la
possibilità di un soggiogamento «pacifico» degli individui, degli àmbiti
di vita, di società intere e di nazioni, che per qualsiasi motivo
possono riuscire scomodi per coloro i quali dispongono dei relativi
mezzi e sono pronti a servirsene senza scrupolo. Si pensi anche alla
tortura, tuttora esistente nel mondo, esercitata sistematicamente
dall'autorità come strumento di dominio o di sopraffazione politica, e
impunemente praticata dai subalterni. Cosi dunque, accanto alla
coscienza della minaccia biologica, cresce la coscienza di un'altra
minaccia che ancor più distrugge ciò che è essenzialmente umano, ciò che
è intimamente collegato con la dignità della persona, con il suo diritto
alla verità e alla libertà.
E tutto ciò si svolge sullo sfondo del
gigantesco rimorso costituito dal fatto che, accanto agli uomini ed alle
società agiate e sazie, viventi nell'abbondanza, soggette al consumismo
e al godimento, non mancano nella stessa famiglia umana né gli individui
né i gruppi sociali che soffrono la fame. Non mancano i bambini che
muoiono di fame sotto gli occhi delle loro madri. Non mancano in varie
parti del mondo, in vari sistemi socioeconomici, intere aree di miseria,
di deficienza e di sottosviluppo. Tale fatto è universalmente noto. Lo
stato di diseguaglianza tra uomini e popoli non soltanto perdura, ma
aumenta. Avviene tuttora che accanto a coloro che sono agiati e vivono
nell'abbondanza, esistono quelli che vivono nell'indigenza, soffrono la
miseria e spesso addirittura muoiono di fame; e il loro numero raggiunge
decine e centinaia di milioni. È per questo che l'inquietudine morale è
destinata a divenire ancor più profonda. Evidentemente, un fondamentale
difetto o piuttosto un complesso di difetti, anzi un meccanismo
difettoso sta alla base dell'economia contemporanea e della civiltà
materialistica, la quale non consente alla famiglia umana di staccarsi,
direi, da situazioni cosi radicalmente ingiuste.
Questa immagine del mondo d'oggi, in cui
esiste tanto male sia fisico che morale, tale da farne un mondo
aggrovigliato in contraddizioni e tensioni e, in pari tempo, pieno di
minacce dirette contro la libertà umana, la coscienza e la religione,
spiega l'inquietudine a cui va soggetto l'uomo contemporaneo. Tale
inquietudine è avvertita non soltanto da coloro che sono svantaggiati od
oppressi, ma anche da coloro che fruiscono dei privilegi della
ricchezza, del progresso, del potere. E sebbene non manchino anche
quelli che cercano di scorgere le cause di tale inquietudine, oppure di
reagire con i mezzi provvisori offerti loro dalla tecnica, dalla
ricchezza o dal potere, tuttavia nel più profondo dell'animo umano
quell'inquietudine supera tutti i mezzi provvisori. Essa riguarda --come
hanno giustamente rilevato le analisi del Concilio Vaticano II-- i
problemi fondamentali di tutta l'esistenza umana. Questa inquietudine è
legata con il senso stesso dell'esistenza dell'uomo nel mondo, ed è
inquietudine per l'avvenire dell'uomo e di tutta l'umanità; essa esige
risoluzioni decisive, che sembrano ormai imporsi al genere umano.
12. Basta la giustizia?
Non è difficile constatare che nel mondo
contemporaneo il senso della giustizia si è risvegliato su vasta scala;
e senza dubbio esso pone maggiormente in rilievo ciò che contrasta con
la giustizia sia nei rapporti tra gli uomini, i gruppi sociali o le
«classi», sia tra i singoli popoli e stati e, infine, tra interi sistemi
politici ed anche tra interi cosiddetti mondi. Questa profonda e
multiforme corrente, alla cui base la coscienza umana contemporanea ha
posto la giustizia, attesta il carattere etico delle tensioni e delle
lotte che pervadono il mondo.
La Chiesa condivide con gli uomini del
nostro tempo questo profondo e ardente desiderio di una vita giusta
sotto ogni aspetto, e non omette neppure di sottoporre alla riflessione
i vari aspetti di quella giustizia, quale la vita degli uomini e delle
società esige. Ne è conferma il campo della dottrina sociale cattolica,
ampiamente sviluppata nell'arco dell'ultimo secolo. Sulle orme di tale
insegnamento procedono sia l'educazione e la formazione delle coscienze
umane nello spirito della giustizia, sia anche le singole iniziative,
specie nell'ambito dell'apostolato dei laici, che appunto in tale
spirito si vanno sviluppando.
Tuttavia, sarebbe difficile non avvedersi
che molto spesso i programmi che prendono avvio dall'idea di giustizia e
che debbono servire alla sua attuazione nella convivenza degli uomini,
dei gruppi e delle società umane, in pratica subiscono deformazioni.
Benché essi continuino a richiamarsi alla medesima idea di giustizia,
tuttavia l'esperienza dimostra che sulla giustizia hanno preso il
sopravvento altre forze negative, quali il rancore, l'odio e perfino la
crudeltà. In tal caso, la brama di annientare il nemico, di limitare la
sua libertà, o addirittura di imporgli una dipendenza totale, diventa il
motivo fondamentale dell'azione; e ciò contrasta con l'essenza della
giustizia che, per sua natura, tende a stabilire l'eguaglianza e
l'equiparazione tra le parti in conflitto. Questa specie di abuso
dell'idea di giustizia e la pratica alterazione di essa attestano quanto
l'azione umana possa allontanarsi dalla giustizia stessa, pur se venga
intrapresa nel suo nome. Non invano Cristo contestava ai suoi
ascoltatori, fedeli alla dottrina dell'Antico Testamento,
l'atteggiamento che si manifestava nelle parole: «Occhio per occhio e
dente per dente». Questa era la forma di alterazione della giustizia in
quel tempo; e le forme di oggi continuano a modellarsi su di essa. È
ovvio infatti che in nome di una presunta giustizia (ad esempio storica
o di classe) talvolta si annienta il prossimo, lo si uccide, si priva
della libertà, si spoglia degli elementari diritti umani. L'esperienza
del passato e del nostro tempo dimostra che la giustizia da sola non
basta e che, anzi, può condurre alla negazione e all'annientamento di se
stessa, se non si consente a quella forza più profonda, che è l'amore,
di plasmare la vita umana nelle sue varie dimensioni. È stata appunto
l'esperienza storica che, fra l'altro, ha portato a formulare
l'asserzione: sommo diritto, somma ingiustizia (summum ius, summa
iniuria). Tale affermazione non svaluta la giustizia e non attenua il
significato dell'ordine che su di essa si instaura; ma indica solamente,
sotto altro aspetto, la necessità di attingere alle forze dello spirito,
ancor più profonde, che condizionano l'ordine stesso della giustizia.
Avendo davanti agli occhi l'immagine della
generazione a cui apparteniamo, la Chiesa condivide l'inquietudine di
tanti uomini contemporanei. D'altronde, deve anche preoccupare il
declino di molti valori fondamentali che costituiscono un bene
incontestabile non soltanto della morale cristiana, ma semplicemente
della morale umana, della cultura morale, quali il rispetto per la vita
umana sin dal momento del concepimento, il rispetto per il matrimonio
nella sua unità indissolubile, il rispetto per la stabilità della
famiglia. Il permissivismo morale colpisce soprattutto questo ambito più
sensibile della vita e della convivenza umana. Di pari passo con ciò
vanno la crisi della verità nei rapporti interumani, la mancanza di
responsabilità nel parlare, il rapporto puramente utilitario dell'uomo
con l'uomo, il venir meno del senso dell'autentico bene comune e la
facilità con cui questo viene alienato. Infìne, c'è la desacralizzazione
che si trasforma spesso in «disumanizzazione»: l'uomo e la società, per
i quali niente è «sacro», decadono moralmente--nonostante ogni
apparenza.
CAPITOLO
VII
LA MISERICORDIA DI DIO
NELLA MISSIONE DELLA CHIESA
In relazione a tale immagine della nostra
generazione, che non può non suscitare una profonda inquietudine,
tornano in mente le parole che, a motivo dell'incarnazione del Figlio di
Dio, risonarono nel Magnificat di Maria e che cantano la
«misericordia... di generazione in generazione». Conservando sempre nel
cuore l'eloquenza di queste ispirate parole, ed applicandole alle
esperienze e alle sofferenze proprie della grande famiglia umana,
occorre che la Chiesa del nostro tempo prenda più profonda e particolare
coscienza della necessità di render testimonianza alla misericordia di
Dio in tutta la sua missione, sulle orme della tradizione dell'antica e
della nuova Alleanza e, soprattutto, dello stesso Gesù Cristo e dei suoi
apostoli. La Chiesa deve rendere testimonianza alla misericordia di Dio
rivelata in Cristo, nell'intera sua missione di Messia, professandola in
primo luogo come verità salvifica di fede e necessaria ad una vita
coerente con la fede, poi cercando di introdurla e di incarnarla nella
vita sia dei suoi fedeli sia, per quanto possibile, in quella di tutti
gli uomini di buona volontà. Infine la Chiesa --professando la
misericordia e rimanendole sempre fedele-- ha il diritto e il dovere di
richiamarsi alla misericordia di Dio, implorandola di fronte a tutti i
fenomeni del male fisico e morale, dinanzi a tutte le minacce che
gravano sull'intero orizzonte della vita dell'umanità contemporanea.
13. La Chiesa professa la misericordia di
Dio e la proclama.
La Chiesa deve professare e proclamare la
misericordia divina in tutta la verità, quale ci è tramandata dalla
rivelazione. Abbiamo cercato, nelle pagine precedenti del presente
documento, di delineare almeno il profilo di questa verità che trova
cosi ricca espressione in tutta la Sacra Scrittura e nella sacra
tradizione. Nella vita quotidiana della Chiesa la verità circa la
misericordia di Dio, espressa nella Bibbia, risuona quale eco perenne
attraverso numerose letture della sacra liturgia. La percepisce
l'autentico senso della fede del Popolo di Dio, come attestano varie
espressioni della pietà personale e comunitaria. Sarebbe certamente
difficile elencarle e riassumerle tutte, poiché la maggior parte di esse
è vivamente iscritta nell'intimo dei cuori e delle coscienze umane. Se
alcuni teologi affermano che la misericordia è il più grande fra gli
attributi e le perfezioni di Dio, la Bibbia, la tradizione e tutta la
vita di fede del Popolo di Dio ne forniscono peculiari testimonianze.
Non si tratta qui della perfezione dell'inscrutabile essenza di Dio nel
mistero della divinità stessa, ma della perfezione e dell'attributo per
cui l'uomo, nell'intima verità della sua esistenza, s'incontra
particolarmente da vicino e particolarmente spesso con il Dio vivo.
Conformemente alle parole che Cristo rivolse a Filippo, «la visione del
Padre» --visione di Dio mediante la fede-- trova appunto nell'incontro
con la sua misericordia un singolare momento di interiore semplicità e
verità, simile a quella che riscontriamo nella parabola del figliol
prodigo.
«Chi ha visto me, ha visto il Padre». La
Chiesa professa la misericordia di Dio, la Chiesa ne vive nella sua
ampia esperienza di fede ed anche nel suo insegnamento, contemplando
costantemente Cristo, concentrandosi in lui, sulla sua vita e sul suo
Vangelo, sulla sua croce e risurrezione, sull'intero suo mistero. Tutto
ciò che forma la «visione» di Cristo nella viva fede e nell'insegnamento
della Chiesa ci avvicina alla «visione del Padre» nella santità della
sua misericordia. La Chiesa sembra professare in modo particolare la
misericordia di Dio e venerarla rivolgendosi al Cuore di Cristo.
Infatti, proprio l'accostarci a Cristo nel mistero del suo Cuore ci
consente di soffermarci su questo punto --in un certo senso centrale e,
nello stesso tempo, più accessibile sul piano umano-- della rivelazione
dell'amore misericordioso del Padre, che ha costituito il contenuto
centrale della missione messianica del Figlio dell'Uomo.
La Chiesa vive una vita autentica, quando
professa e proclama la misericordia --il più stupendo attributo del
Creatore e del Redentore-- e quando accosta gli uomini alle fonti della
misericordia del Salvatore di cui essa è depositaria e dispensatrice.
Gran significato ha in questo ambito la costante meditazione della
parola di Dio e, soprattutto, la partecipazione cosciente e matura
all'Eucaristia e al sacramento della penitenza o riconciliazione.
L'Eucaristia ci avvicina sempre a quell'amore che è più potente della
morte: «Ogni volta --infatti-- che mangiamo di questo pane e beviamo di
questo calice», non soltanto annunciamo la morte del Redentore, ma ne
proclamiamo anche la risurrezione, «nell'attesa della sua venuta» nella
gloria. Lo stesso rito eucaristico, celebrato in memoria di colui che
nella sua missione messianica ci ha rivelato il Padre, per mezzo della
parola e della croce, attesta quell'inesauribile amore in virtù del
quale egli desidera sempre unirsi ed immedesimarsi con noi, andando
incontro a tutti i cuori umani. È il sacramento della penitenza o
riconciliazione che appiana la strada ad ognuno, perfino quando è
gravato di grandi colpe. In questo sacramento ogni uomo può sperimentare
in modo singolare la misericordia, cioè quell'amore che è più potente
del peccato. Se ne è parlato già nell'enciclica Redemptor hominis;
converrà, tuttavia, tornare ancora una volta su questo tema
fondamentale.
Appunto perché esiste il peccato nel
mondo, che «Dio ha tanto amato... da dare il suo Figlio unigenito», Dio
che «è amore» non può rivelarsi altrimenti se non come misericordia.
Questa corrisponde non soltanto alla più profonda verità di quell'amore
che è Dio, ma anche a tutta l'interiore verità dell'uomo e del mondo che
è la sua patria temporanea. La misericordia in se stessa, come
perfezione di Dio infinito, è anche infinita. Infinita quindi ed
inesauribile è la prontezza del Padre nell'accogliere i figli prodighi
che tornano alla sua casa. Sono infinite la prontezza e la forza di
perdono che scaturiscono continuamente dal mirabile valore del
sacrificio del Figlio. Nessun peccato umano prevale su questa forza e
nemmeno la limita. Da parte dell'uomo può limitarla soltanto la mancanza
di buona volontà, la mancanza di prontezza nella conversione e nella
penitenza, cioè il perdurare nell'ostinazione, contrastando la grazia e
la verità, specie di fronte alla testimonianza della croce e della
risurrezione di Cristo.
Pertanto, la Chiesa professa e proclama la
conversione. La conversione a Dio consiste sempre nello scoprire la sua
misericordia, cioè quell'amore che è paziente e benigno a misura del
Creatore e Padre: l'amore, a cui «Dio, Padre del Signore nostro Gesù
Cristo», è fedele fino alle estreme conseguenze nella storia
dell'alleanza con l'uomo: fino alla croce, alla morte e risurrezione del
Figlio. La conversione a Dio è sempre frutto del «ritrovamento» di
questo Padre che è ricco di misericordia. L'autentica conoscenza del Dio
della misericordia, dell'amore benigno è una costante ed inesauribile
fonte di conversione, non soltanto come momentaneo atto interiore, ma
anche come stabile disposizione, come stato d'animo. Coloro che in tal
modo arrivano a conoscere Dio, che in tal modo lo «vedono», non possono
vivere altrimenti che convertendosi continuamente a lui. Vivono, dunque,
in stato di conversione; ed è questo stato che traccia la più profonda
componente del pellegrinaggio di ogni uomo sulla terra in stato di
viandante. È evidente che la Chiesa professa la misericordia di Dio,
rivelata in Cristo crocifisso e risorto, non soltanto con la parola del
suo insegnamento, ma soprattutto con la più profonda pulsazione della
vita di tutto il Popolo di Dio. Mediante questa testimonianza di vita la
Chiesa compie la missione propria del Popolo di Dio, missione che è
partecipazione e, in un certo senso, continuazione di quella messianica
di Cristo stesso.
La Chiesa contemporanea è profondamente
consapevole che soltanto sulla base della misericordia di Dio potrà dare
attuazione ai compiti che scaturiscono dalla dottrina del Concilio
Vaticano II e, in primo luogo, al compito ecumenico che tende ad unire
quanti confessano Cristo. Avviando molteplici sforzi in tale direzione,
la Chiesa confessa con umiltà che solo quell'amore, che è più potente
della debolezza delle divisioni umane, può realizzare definitivamente
quella unità che Cristo implorava dal Padre e che lo Spirito non cessa
di chiedere per noi «con gemiti inesprimibili».
14. La Chiesa cerca di attuare la
misericordia
Gesù Cristo ha insegnato che l'uomo non
soltanto riceve e sperimenta la misericordia di Dio, ma che è pure
chiamato a «usar misericordia» verso gli altri: «Beati i misericordiosi,
perché troveranno misericordia». La Chiesa vede in queste parole un
appello all'azione e si sforza di praticare la misericordia. Se tutte le
beatitudini del Discorso della montagna indicano la via della
conversione e del cambiamento della vita, quella che riguarda i
misericordiosi è a tale proposito particolarmente eloquente. L'uomo
giunge all'amore misericordioso di Dio, alla sua misericordia, in quanto
egli stesso interiormente si trasforma nello spirito di tale amore verso
il prossimo.
Questo processo autenticamente evangelico
non è soltanto una svolta spirituale realizzata una volta per sempre, ma
è tutto uno stile di vita, una caratteristica essenziale e continua
della vocazione cristiana. Esso consiste nella costante scoperta e nella
perseverante attuazione dell'amore come forza unificante ed insieme
elevante, nonostante tutte le difficoltà di natura psicologica e
sociale; si tratta infatti di un amore misericordioso che per sua
essenza è amore creatore. L'amore misericordioso, nei rapporti reciproci
tra gli uomini, non è mai un atto o un processo unilaterale. Perfino nei
casi in cui tutto sembrerebbe indicare che soltanto una parte sia quella
che dona ed offre, e l'altra quella che soltanto riceve e prende (ad
esempio, nel caso del medico che cura, del maestro che insegna, dei
genitori che mantengono ed educano i figli, del benefattore che soccorre
i bisognosi), in verità tuttavia anche colui che dona viene sempre
beneficato. In ogni caso, anche questi può facilmente ritrovarsi nella
posizione di colui che riceve, che ottiene un beneficio, che prova
l'amore misericordioso, che si trova ad essere oggetto di misericordia.
Cristo crocifisso, in questo senso, è per
noi il modello, l'ispirazione e l'incitamento più alto. Basandoci su
questo sconvolgente modello, possiamo con tutta umiltà manifestare
misericordia agli altri, sapendo che egli l'accoglie come dimostrata a
se stesso. Sulla base di questo modello, dobbiamo anche purificare
continuamente tutte le nostre azioni e tutte le nostre intenzioni in cui
la misericordia viene intesa e praticata in modo unilaterale, come bene
fatto agli altri. Solo allora, in effetti, essa è realmente un atto di
amore misericordioso: quando, attuandola, siamo profondamente convinti
che, al tempo stesso, noi la sperimentiamo da parte di coloro che la
accettano da noi. Se manca questa bilateralità, questa reciprocità, le
nostre azioni non sono ancora autentici atti di misericordia, né in noi
si è ancora compiuta pienamente la conversione, la cui strada ci è stata
manifestata da Cristo con la parola e con l'esempio fino alla croce, né
partecipiamo ancora completamente alla magnifica fonte dell'amore
misericordioso che ci è stata da lui rivelata.
Cosi, dunque, la via che Cristo ci ha
manifestato nel discorso della montagna con la beatitudine dei
misericordiosi, è molto più ricca di ciò che a volte possiamo avvertire
nei comuni giudizi umani sul tema della misericordia. Tali giudizi
ritengono la misericordia come un atto o processo unilaterale, che
presuppone e mantiene le distanze tra colui che usa misericordia e colui
che ne viene gratifìcato, tra chi fa il bene e chi lo riceve. Di qui
deriva la pretesa di liberare i rapporti interumani e sociali dalla
misericordia e di basarli solamente sulla giustizia. Tuttavia, tali
giudizi sulla misericordia non avvertono quel fondamentale legame tra la
misericordia e la giustizia del quale parla tutta la tradizione biblica
e soprattutto la missione messianica di Gesù Cristo. L'autentica
misericordia è, per così dire, la fonte più profonda della giustizia. Se
quest'ultima è di per sé idonea ad «arbitrare» tra gli uomini nella
reciproca ripartizione dei beni oggettivi secondo l'equa misura, l'amore
invece, e soltanto l'amore (anche quell'amore benigno, che chiamiamo
«misericordia»), è capace di restituire l'uomo a se stesso.
La misericordia autenticamente cristiana è
pure, in certo senso, la più perfetta incarnazione dell'«eguaglianza»
tra gli uomini, e quindi anche l'incarnazione più perfetta della
giustizia, in quanto anche questa, nel suo ambito, mira allo stesso
risultato. L'eguaglianza introdotta mediante la giustizia si limita però
ambito dei beni oggettivi ed estrinseci, mentre l'amore e la
misericordia fanno si che gli uomini s'incontrino tra loro in quel
valore che è l'uomo stesso, con la dignità che gli è propria. In pari
tempo, l'«eguaglianza» degli uomini mediante l'amore «paziente e
benigno» non cancella le differenze: colui che dona diventa più generoso
quando si sente contemporaneamente gratificato da colui che accoglie il
suo dono; viceversa, colui che sa ricevere il dono con la consapevolezza
che anch'egli, accogliendolo, fa del bene, serve da parte sua alla
grande causa della dignità della persona, e ciò contribuisce a unire gli
uomini fra di loro in modo più profondo.
Cosi dunque, la misericordia diviene
elemento indispensabile per plasmare i mutui rapporti tra gli uomini,
nello spirito del più profondo rispetto di ciò che è umano e della
reciproca fratellanza. È impossibile ottenere questo vincolo tra gli
uomini se si vogliono regolare i mutui rapporti unicamente con la misura
della giustizia. Questa, in ogni sfera dei rapporti interumani, deve
subire, per così dire, una notevole «correzione» da parte di quell'amore
il quale --come proclama san Paolo-- «è paziente» e «benigno» o, in
altre parole, porta in sé i caratteri dell'amore misericordioso tanto
essenziali per il Vangelo e per il cristianesimo. Ricordiamo, inoltre,
che l'amore misericordioso indica anche quella cordiale tenerezza e
sensibilità di cui tanto eloquentemente ci parla la parabola del figliol
prodigo, o anche quelle della pecorella e della dramma smarrita.
Pertanto, l'amore misericordioso è sommamente indispensabile tra coloro
che sono più vicini: tra i coniugi, tra i genitori e i figli, tra gli
amici; esso è indispensabile nell'educazione e nella pastorale.
Il suo raggio d'azione, però, non trova
qui il suo termine. Se Paolo VI indicava a più riprese la «civiltà
dell'amore»' come fine a cui debbono tendere tutti gli sforzi in campo
sociale e culturale, come pure in campo economico e politico, occorre
aggiungere che questo fine non sarà mai conseguito, se nelle nostre
concezioni ed attuazioni, relative alle ampie e complesse sfere della
convivenza umana, ci arresteremo al criterio dell'«occhio per occhio,
dente per dente» e non tenderemo invece a trasformarlo essenzialmente,
completandolo con un altro spirito. Di certo, in tale direzione ci
conduce anche il Concilio Vaticano II quando, parlando ripetutamente
della necessità di rendere il mondo più umano,' individua la missione
della Chiesa nel mondo contemporaneo appunto nella realizzazione di tale
compito. Il mondo degli uomini può diventare sempre più umano solo se
introdurremo nel multiforme ambito dei rapporti interumani e sociali,
insieme alla giustizia, quell'«amore misericordioso» che costituisce il
messaggio messianico del Vangelo.
Il mondo degli uomini potrà diventare
«sempre più umano», solo quando in tutti i rapporti reciproci, che
plasmano il suo volto morale, introdurremo il momento del perdono, cosi
essenziale per il Vangelo. Il perdono attesta che nel mondo è presente
l'amore più potente del peccato. Il perdono è, inoltre, la fondamentale
condizione della riconciliazione, non soltanto nel rapporto di Dio con
l'uomo, ma anche nelle reciproche relazioni tra gli uomini. Un mondo da
cui si eliminasse il perdono sarebbe soltanto un mondo di giustizia
fredda e irrispettosa, nel nome della quale ognuno rivendicherebbe i
propri diritti nei confronti dell'altro; cosi gli egoismi di vario
genere sonnecchianti nell'uomo potrebbero trasformare la vita e la
convivenza umana in un sistema di oppressione dei più deboli da parte
dei più forti, oppure in un'arena di permanente lotta degli uni contro
gli altri.
Perciò, la Chiesa deve considerare come
uno dei suoi principali doveri --in ogni tappa della storia, e
specialmente nell'età contemporanea-- quello di proclamare e di
introdurre nella vita il mistero della misericordia, rivelato in sommo
grado in Gesù Cristo. Questo mistero, non soltanto per la Chiesa stessa
come comunità dei credenti, ma anche in certo senso per tutti gli
uomini, è fonte di una vita diversa da quella che l'uomo, esposto alle
forze prepotenti della triplice concupiscenza operanti in lui, è in
grado di costruire. È appunto in nome di questo mistero che Cristo ci
insegna a perdonare sempre. Quante volte ripetiamo le parole della
preghiera ch'egli stesso ci ha insegnato, chiedendo: «Rimetti a noi i
nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori», cioè a coloro
che sono colpevoli di qualcosa nei nostri riguardi!. È davvero difficile
esprimere il profondo valore dell'atteggiamento che tali parole
tracciano e inculcano. Quante cose queste parole dicono ad ogni uomo sul
suo simile ed anche su di lui stesso! La coscienza di essere debitori
gli uni degli altri va di pari passo con la chiamata alla solidarietà
fraterna, che san Paolo ha espresso nel conciso invito a sopportarsi «a
vicenda con amore». Quale lezione di umiltà è qui racchiusa nei riguardi
dell'uomo, in pari tempo del prossimo e di se stessi! Quale scuola di
buona volontà per la convivenza di ogni giorno, nelle varie condizioni
della nostra esistenza! Se disattendessimo questa lezione, che cosa
rimarrebbe di qualsiasi programma «umanistico» della vita e
dell'educazione?
Cristo sottolinea con tanta insistenza la
necessità di perdonare gli altri che a Pietro, il quale gli aveva
chiesto quante volte avrebbe dovuto perdonare il prossimo, indicò la
cifra simbolica di «settanta volte sette», volendo dire con questo che
avrebbe dovuto saper perdonare a ciascuno ed ogni volta. È ovvio che una
cosi generosa esigenza di perdonare non annulla le oggettive esigenze
della giustizia. La giustizia propriamente intesa costituisce per cosi
dire lo scopo del perdono. In nessun passo del messaggio evangelico il
perdono, e neanche la misericordia come sua fonte, significano
indulgenza verso il male, verso lo scandalo, verso il torto o
l'oltraggio arrecato. In ogni caso, la riparazione del male e dello
scandalo, il risarcimento del torto, la soddisfazione dell'oltraggio
sono condizione del perdono.
Cosi dunque, la fondamentale struttura
della giustizia penetra sempre nel campo della misericordia. Questa però
ha la forza di conferire alla giustizia un contenuto nuovo, che si
esprime nel modo più semplice e pieno nel perdono. Esso infatti
manifesta che, oltre al processo di «compensazione» e di «tregua», che è
specifico della giustizia, è necessario l'amore, perché l'uomo si
affermi come tale. L'adempimento delle condizioni della giustizia è
indispensabile, soprattutto affinché l'amore possa rivelare il proprio
volto. Nell'analizzare la parabola del figliol prodigo, abbiamo già
richiamato l'attenzione sul fatto che colui che perdona e colui che
viene perdonato si incontrano in un punto essenziale, che è la dignità
ossia l'essenziale valore dell'uomo, che non può andar perduto e la cui
affermazione o il cui ritrovamento è fonte della più grande gioia. La
Chiesa ritiene giustamente come proprio dovere, come scopo della propria
missione, quello di custodire l'autenticità del perdono, tanto nella
vita e nel comportamento quanto nell'educazione e nella pastorale. Essa
la protegge non altrimenti che custodendo la sua fonte, cioè il mistero
della misericordia di Dio stesso, rivelato in Gesù Cristo.
Alla base della missione della Chiesa, in
tutte le sfere di cui parlano numerose indicazioni del più recente
Concilio e la plurisecolare esperienza dell'apostolato, non vi è altro
che l'attingere alle fonti del Salvatore: è questo che traccia
molteplici orientamenti alla missione della Chiesa nella vita dei
singoli cristiani, delle singole comunità ed anche dell'intero Popolo di
Dio. Questo «attingere alle fonti del Salvatore» non può essere
realizzato in altro modo se non nello spirito di quella povertà a cui ci
ha chiamato il Signore con la parola e con l'esempio: «Gratuitamente
avete ricevuto, gratuitamente date». Così, in tutte le vie della vita e
del ministero della Chiesa --attraverso la povertà evangelica dei
ministri e dispensatori e dell'intero popolo, che rende testimonianza
«alle grandi opere» del suo Signore-- si è manifestato ancor meglio il
Dio «ricco di misericordia».
CAPITOLO
VIII
PREGHIERA DELLA CHIESA DEI NOSTRI TEMPI
15. La Chiesa fa appello alla misericordia
divina.
La Chiesa proclama la verità della
misericordia di Dio rivelata in Cristo crocifisso e risorto, e la
professa in vari modi. Inoltre, essa cerca di attuare la misericordia
verso gli uomini attraverso gli uomini, vedendo in ciò un'indispensabile
condizione della sollecitudine per un mondo migliore e «più umano», oggi
e domani. Tuttavia, in nessun momento e in nessun periodo storico
--specialmente in un'epoca cosi critica come la nostra-- la Chiesa può
dimenticare la preghiera che è grido alla misericordia di Dio dinanzi
alle molteplici forme di male che gravano sull'umanità e la minacciano.
Proprio questo è il fondamentale diritto-dovere della Chiesa, in Cristo
Gesù: è il diritto dovere della Chiesa verso Dio e verso gli uomini.
Quanto più la coscienza umana, soccombendo alla secolarizzazione, perde
il senso del significato stesso della parola «misericordia», quanto più,
allontanandosi da Dio, si distanzia dal mistero della misericordia,
tanto più la Chiesa ha il diritto e il dovere di far appello al Dio
della misericordia «con forti grida». Queste «forti grida» debbono
essere proprie della Chiesa dei nostri tempi, rivolte a Dio per
implorare la sua misericordia, la cui certa manifestazione essa professa
e proclama come avvenuta in Gesù crocifisso e risorto, cioè nel mistero
pasquale. È questo mistero che porta in sé la più completa rivelazione
della misericordia, cioè di quell'amore che è più potente della morte,
più potente del peccato e di ogni male, dell'amore che solleva l'uomo
dalle abissali cadute e lo libera dalle più grandi minacce.
L'uomo contemporaneo sente queste minacce.
Ciò che a tale riguardo è stato detto sopra è soltanto un semplice
abbozzo. L'uomo contemporaneo si interroga spesso, con profonda ansia,
circa la soluzione delle terribili tensioni che si sono accumulate sul
mondo e si intrecciano in mezzo agli uomini. E se talvolta non ha il
coraggio di pronunciare la parola «misericordia», oppure nella sua
coscienza, priva di contenuto religioso, non ne trova l'equivalente,
tanto più bisogna che la Chiesa pronunci questa parola, non soltanto in
nome proprio, ma anche in nome di tutti gli uomini contemporanei.
È dunque necessario che tutto quanto ho
detto ne presente documento sulla misericordia si trasformi in
un'ardente preghiera: si trasformi di continuo in un grido che implori
la misericordia secondo le necessità dell'uomo nel mondo contemporaneo.
Questo grido sia denso di tutta quella verità sulla misericordia che ha
trovato cosi ricca espressione nella Sacra Scrittura e nella tradizione,
come anche nell'autentica vita di fede di tante generazioni del Popolo
di Dio. Con tale grido ci richiamiamo, come gli scrittori sacri, al Dio
che non può disprezzare nulla di ciò che ha creato, al Dio che è fedele
a se stesso, alla sua paternità e al suo amore. E come i profeti,
facciamo appello a quell'amore che ha caratteristiche materne e, a
somiglianza di una madre, segue ciascuno dei suoi figli, ogni pecorella
smarrita, anche se ci fossero milioni di tali smarrimenti, anche se nel
mondo l'iniquità prevalesse sull'onestà, anche se l'umanità
contemporanea meritasse per i suoi peccati un nuovo «diluvio», come un
tempo lo meritò la generazione di Noè. Facciamo ricorso a quell'amore
paterno che ci è stato rivelato da Cristo nella sua missione messianica,
e che raggiunse il culmine nella sua croce, nella sua morte e
risurrezione! Facciamo ricorso a Dio mediante Cristo, memori delle
parole del Magnificat di Maria che proclamano la misericordia «di
generazione in generazione»! Imploriamo la misericordia divina per la
generazione contemporanea! La Chiesa che sul modello di Maria cerca di
essere anche madre degli uomini in Dio, esprima in questa preghiera la
sua materna sollecitudine ed insieme il fiducioso amore, da cui appunto
nasce la più ardente necessità della preghiera.
Eleviamo le nostre suppliche, guidati
dalla fede, dalla speranza, dalla carità che Cristo ha innestato nei
nostri cuori. Questo atteggiamento è parimenti amore verso Dio, che
l'uomo contemporaneo a volte ha molto allontanato da sé, reso estraneo a
se stesso, proclamando in vari modi che gli è «superfluo». Questo è
quindi amore verso Dio, la cui offesa ripulsa da parte dell'uomo
contemporaneo sentiamo profondamente, pronti a gridare con Cristo in
croce: «Padre, perdonali, perché non sanno quello che fanno». Questo è,
al tempo stesso, amore verso gli uomini, verso tutti gli uomini senza
eccezione e divisione alcuna: senza differenza di razza, di cultura, di
lingua, di concezione del mondo, senza distinzione tra amici e nemici.
Questo è amore verso gli uomini--e desidera ogni vero bene per ciascuno
di essi e per ogni comunità umana, per ogni famiglia, ogni nazione, ogni
gruppo sociale, per i giovani, gli adulti, i genitori, gli anziani, gli
ammalati--verso tutti senza eccezione. Questo è amore, ossia premurosa
sollecitudine per garantire a ciascuno ogni autentico bene ed
allontanare e scongiurare qualsiasi male.
E se taluno dei contemporanei non
condivide la fede e la speranza che mi inducono, quale servo di Cristo e
ministro dei misteri di Dio , a implorare in questa ora della storia la
misericordia di Dio per l'umanità, egli cerchi almeno di comprendere il
motivo di questa premura. Essa è dettata dall'amore verso l'uomo, verso
tutto ciò che è umano e che, secondo l'intuizione di gran parte dei
contemporanei, è minacciato da un pericolo immenso. Il mistero di Cristo
che, svelandoci la grande vocazione dell'uomo, mi ha spinto a ribadire
nell'enciclica Redemptor hominis la sua incomparabile dignità, mi
obbliga, al tempo stesso, a proclamare la misericordia quale amore
misericordioso di Dio, rivelato nello stesso mistero di Cristo. Esso mi
obbliga anche a richiamarmi a tale misericordia e ad implorarla in
questa difficile, critica fase della storia della Chiesa e del mondo,
mentre ci avviamo al termine del secondo Millennio.
Nel nome di Gesù Cristo crocifisso e
risorto, nello spirito della sua missione messianica che continua nella
storia dell'umanità, eleviamo la nostra voce e supplichiamo perché, in
questa tappa della storia, si riveli ancora una volta quell'amore che è
nel Padre, e per opera del Figlio e dello Spirito Santo si dimostri
presente nel mondo contemporaneo e più potente del male: più potente del
peccato e della morte. Supplichiamo per intercessione di Colei che non
cessa di proclamare «la misericordia di generazione in generazione», ed
anche di coloro per i quali si sono compiutamente realizzate le parole
del discorso della montagna: «Beati i misericordiosi, perché troveranno
misericordia».
Nel continuare il grande compito di
attuare il Concilio Vaticano II, in cui giustamente possiamo vedere una
nuova fase dell'autorealizzazione della Chiesa -- su misura dell'epoca
in cui ci tocca di vivere--, la Chiesa stessa deve essere costantemente
guidata dalla piena coscienza che in quest'opera non le è lecito, a
nessun patto, di ripiegarsi su se stessa. La ragione del suo essere è
infatti quella di rivelare Dio, cioè quel Padre che ci consente di
essere «visto» nel Cristo. Per quanto forte possa essere la resistenza
della storia umana, per quanto marcata l'eterogeneità della civiltà
contemporanea, per quanto grande la negazione di Dio nel mondo umano,
tuttavia tanto più grande deve essere la vicinanza a quel mistero che,
nascosto da secoli in Dio, è poi stato realmente partecipato nel tempo
all'uomo mediante Gesù Cristo. Con la mia apostolica benedizione.
Dato a Roma, presso San Pietro, il 30
novembre, Domenica I d'Avvento, dell'anno 1980, terzo di Pontificato. |