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Concilio
Vaticano II - Costituzioni: LUMEN GENTIUM
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16 novembre 1964
COSTITUZIONE DOGMATICA
LUMEN
GENTIUM
SULLA CHIESA
CAPITOLO
I
IL MISTERO DELLA CHIESA
La Chiesa è sacramento in Cristo
1. Cristo è la luce delle genti: questo
santo Concilio, adunato nello Spirito Santo, desidera dunque ardentemente,
annunciando il Vangelo ad ogni creatura (cfr. Mc 16,15), illuminare tutti gli
uomini con la luce del Cristo che risplende sul volto della Chiesa. E siccome la
Chiesa è, in Cristo, in qualche modo il sacramento, ossia il segno e lo
strumento dell'intima unione con Dio e dell'unità di tutto il genere umano,
continuando il tema dei precedenti Concili, intende con maggiore chiarezza
illustrare ai suoi fedeli e al mondo intero la propria natura e la propria
missione universale. Le presenti condizioni del mondo rendono più urgente
questo dovere della Chiesa, affinché tutti gli uomini, oggi più strettamente
congiunti dai vari vincoli sociali, tecnici e culturali, possano anche
conseguire la piena unità in Cristo.
Disegno salvifico universale del Padre
2. L'eterno Padre, con liberissimo e arcano
disegno di sapienza e di bontà, creò l'universo; decise di elevare gli uomini
alla partecipazione della sua vita divina; dopo la loro caduta in Adamo non li
abbandonò, ma sempre prestò loro gli aiuti per salvarsi, in considerazione di
Cristo redentore, « il quale è l'immagine dell'invisibile Dio, generato prima
di ogni creatura » (Col 1,15). Tutti infatti quelli che ha scelto, il Padre
fino dall'eternità « li ha distinti e li ha predestinati a essere conformi
all'immagine del Figlio suo, affinché egli sia il primogenito tra molti
fratelli » (Rm 8,29). I credenti in Cristo, li ha voluti chiamare a formare la
santa Chiesa, la quale, già annunciata in figure sino dal principio del mondo,
mirabilmente preparata nella storia del popolo d'Israele e nell'antica Alleanza,
stabilita infine « negli ultimi tempi », è stata manifestata dall'effusione
dello Spirito e avrà glorioso compimento alla fine dei secoli. Allora, infatti,
come si legge nei santi Padri, tutti i giusti, a partire da Adamo, « dal giusto
Abele fino all'ultimo eletto », saranno riuniti presso il Padre nella Chiesa
universale.
Missione del Figlio
3. È venuto quindi il Figlio, mandato dal
Padre, il quale ci ha scelti in lui prima della fondazione del mondo e ci ha
predestinati ad essere adottati in figli, perché in lui volle accentrare tutte
le cose (cfr. Ef 1,4-5 e 10). Perciò Cristo, per adempiere la volontà del
Padre, ha inaugurato in terra il regno dei cieli e ci ha rivelato il mistero di
lui, e con la sua obbedienza ha operato la redenzione. La Chiesa, ossia il regno
di Cristo già presente in mistero, per la potenza di Dio cresce visibilmente
nel mondo. Questo inizio e questa crescita sono significati dal sangue e
dall'acqua, che uscirono dal costato aperto di Gesù crocifisso (cfr. Gv 19,34),
e sono preannunziati dalle parole del Signore circa la sua morte in croce: « Ed
io, quando sarò levato in alto da terra, tutti attirerò a me » (Gv 12,32).
Ogni volta che il sacrificio della croce, col quale Cristo, nostro agnello
pasquale, è stato immolato (cfr. 1 Cor 5,7), viene celebrato sull'altare, si
rinnova l'opera della nostra redenzione. E insieme, col sacramento del pane
eucaristico, viene rappresentata ed effettuata l'unità dei fedeli, che
costituiscono un solo corpo in Cristo (cfr. 1 Cor 10,17). Tutti gli uomini sono
chiamati a questa unione con Cristo, che è la luce del mondo; da lui veniamo,
per mezzo suo viviamo, a lui siamo diretti.
Lo Spirito santificatore della Chiesa
4. Compiuta l'opera che il Padre aveva
affidato al Figlio sulla terra (cfr. Gv 17,4), il giorno di Pentecoste fu
inviato lo Spirito Santo per santificare continuamente la Chiesa e affinché i
credenti avessero così attraverso Cristo accesso al Padre in un solo Spirito
(cfr. Ef 2,18). Questi è lo Spirito che dà la vita, una sorgente di acqua
zampillante fino alla vita eterna (cfr. Gv 4,14; 7,38-39); per mezzo suo il
Padre ridà la vita agli uomini, morti per il peccato, finché un giorno
risusciterà in Cristo i loro corpi mortali (cfr. Rm 8,10-11). Lo Spirito dimora
nella Chiesa e nei cuori dei fedeli come in un tempio (cfr. 1 Cor 3,16; 6,19) e
in essi prega e rende testimonianza della loro condizione di figli di Dio per
adozione (cfr. Gal 4,6; Rm 8,15-16 e 26). Egli introduce la Chiesa nella
pienezza della verità (cfr. Gv 16,13), la unifica nella comunione e nel
ministero, la provvede e dirige con diversi doni gerarchici e carismatici, la
abbellisce dei suoi frutti (cfr. Ef 4,11-12; 1 Cor 12,4; Gal 5,22). Con la forza
del Vangelo la fa ringiovanire, continuamente la rinnova e la conduce alla
perfetta unione col suo Sposo. Poiché lo Spirito e la sposa dicono al Signore
Gesù: « Vieni » (cfr. Ap 22,17).
Così la Chiesa universale si presenta come
« un popolo che deriva la sua unità dall'unità del Padre, del Figlio e dello
Spirito Santo ».
Il regno di Dio
5. Il mistero della santa Chiesa si manifesta
nella sua stessa fondazione. Il Signore Gesù, infatti, diede inizio ad essa
predicando la buona novella, cioè l'avvento del regno di Dio da secoli promesso
nella Scrittura: « Poiché il tempo è compiuto, e vicino è il regno di Dio »
(Mc 1,15; cfr. Mt 4,17). Questo regno si manifesta chiaramente agli uomini nelle
parole, nelle opere e nella presenza di Cristo. La parola del Signore è
paragonata appunto al seme che viene seminato nel campo (cfr. Mc 4,14): quelli
che lo ascoltano con fede e appartengono al piccolo gregge di Cristo (cfr. Lc
12,32), hanno accolto il regno stesso di Dio; poi il seme per virtù propria
germoglia e cresce fino al tempo del raccolto (cfr. Mc 4,26-29). Anche i
miracoli di Gesù provano che il regno è arrivato sulla terra: « Se con il
dito di Dio io scaccio i demoni, allora è già pervenuto tra voi il regno di
Dio » (Lc 11,20; cfr. Mt 12,28). Ma innanzi tutto il regno si manifesta nella
stessa persona di Cristo, figlio di Dio e figlio dell'uomo, il quale è venuto
« a servire, e a dare la sua vita in riscatto per i molti » (Mc 10,45). Quando
poi Gesù, dopo aver sofferto la morte in croce per gli uomini, risorse, apparve
quale Signore e messia e sacerdote in eterno (cfr. At 2,36; Eb 5,6; 7,17-21), ed
effuse sui suoi discepoli lo Spirito promesso dal Padre (cfr. At 2,33). La
Chiesa perciò, fornita dei doni del suo fondatore e osservando fedelmente i
suoi precetti di carità, umiltà e abnegazione, riceve la missione di
annunziare e instaurare in tutte le genti il regno di Cristo e di Dio, e di
questo regno costituisce in terra il germe e l'inizio. Intanto, mentre va
lentamente crescendo, anela al regno perfetto e con tutte le sue forze spera e
brama di unirsi col suo re nella gloria.
Le immagini della Chiesa
6. Come già nell'Antico Testamento la
rivelazione del regno viene spesso proposta in figure, così anche ora l'intima
natura della Chiesa ci si fa conoscere attraverso immagini varie, desunte sia
dalla vita pastorale o agricola, sia dalla costruzione di edifici o anche dalla
famiglia e dagli sponsali, e che si trovano già abbozzate nei libri dei
profeti.
La Chiesa infatti è un ovile, la cui porta
unica e necessaria è Cristo (cfr. Gv 10,1-10). È pure un gregge, di cui Dio
stesso ha preannunziato che ne sarebbe il pastore (cfr. Is 40,11; Ez 34,11 ss),
e le cui pecore, anche se governate da pastori umani, sono però incessantemente
condotte al pascolo e nutrite dallo stesso Cristo, il buon Pastore e principe
dei pastori (cfr. Gv 10,11; 1 Pt 5,4), il quale ha dato la vita per le pecore
(cfr. Gv 10,11-15).
La Chiesa è il podere o campo di Dio (cfr. 1
Cor 3,9). In quel campo cresce l'antico olivo, la cui santa radice sono stati i
patriarchi e nel quale è avvenuta e avverrà la riconciliazione dei Giudei e
delle Genti (cfr. Rm 11,13-26). Essa è stata piantata dal celeste agricoltore
come vigna scelta (Mt 21,33-43, par.; cfr. Is 5,1 ss). Cristo è la vera vite,
che dà vita e fecondità ai tralci, cioè a noi, che per mezzo della Chiesa
rimaniamo in lui, e senza di lui nulla possiamo fare (cfr. Gv 15,1-5).
Più spesso ancora la Chiesa è detta
edificio di Dio (cfr. 1 Cor 3,9). Il Signore stesso si paragonò alla pietra che
i costruttori hanno rigettata, ma che è divenuta la pietra angolare (Mt 21,42
par.). Sopra quel fondamento la Chiesa è costruita dagli apostoli (cfr. 1 Cor
3,11) e da esso riceve stabilità e coesione. Questo edificio viene chiamato in
varie maniere: casa di Dio (cfr. 1 Tm 3,15), nella quale cioè abita la sua
famiglia, la dimora di Dio nello Spirito (cfr. Ef 2,19-22), la dimora di Dio con
gli uomini (cfr. Ap 21,3), e soprattutto tempio santo, il quale, rappresentato
dai santuari di pietra, è l'oggetto della lode dei santi Padri ed è paragonato
a giusto titolo dalla liturgia alla città santa, la nuova Gerusalemme. In essa
infatti quali pietre viventi veniamo a formare su questa terra un tempio
spirituale (cfr. 1 Pt 2,5). E questa città santa Giovanni la contempla mentre,
nel momento in cui si rinnoverà il mondo, scende dal cielo, da presso Dio, «
acconciata come sposa adornatasi per il suo sposo » (Ap 21,1s).
La Chiesa, chiamata « Gerusalemme celeste »
e « madre nostra » (Gal 4,26; cfr. Ap 12,17), viene pure descritta come
l'immacolata sposa dell'Agnello immacolato (cfr. Ap 19,7; 21,2 e 9; 22,17),
sposa che Cristo « ha amato.. . e per essa ha dato se stesso, al fine di
santificarla » (Ef 5,26), che si è associata con patto indissolubile ed
incessantemente « nutre e cura » (Ef 5,29), che dopo averla purificata, volle
a sé congiunta e soggetta nell'amore e nella fedeltà (cfr. Ef 5,24), e che,
infine, ha riempito per sempre di grazie celesti, onde potessimo capire la carità
di Dio e di Cristo verso di noi, carità che sorpassa ogni conoscenza (cfr. Ef
3,19). Ma mentre la Chiesa compie su questa terra il suo pellegrinaggio lontana
dal Signore (cfr. 2 Cor 5,6), è come un esule, e cerca e pensa alle cose di
lassù, dove Cristo siede alla destra di Dio, dove la vita della Chiesa è
nascosta con Cristo in Dio, fino a che col suo sposo comparirà rivestita di
gloria (cfr. Col 3,1-4).
La Chiesa, corpo mistico di Cristo
7. Il Figlio di Dio, unendo a sé la natura
umana e vincendo la morte con la sua morte e resurrezione, ha redento l'uomo e
l'ha trasformato in una nuova creatura (cfr. Gal 6,15; 2 Cor 5,17). Comunicando
infatti il suo Spirito, costituisce misticamente come suo corpo i suoi fratelli,
che raccoglie da tutte le genti.
In quel corpo la vita di Cristo si diffonde
nei credenti che, attraverso i sacramenti si uniscono in modo arcano e reale a
lui sofferente e glorioso. Per mezzo del battesimo siamo resi conformi a Cristo:
« Infatti noi tutti « fummo battezzati in un solo Spirito per costituire un
solo corpo » (1 Cor 12,13). Con questo sacro rito viene rappresentata e
prodotta la nostra unione alla morte e resurrezione di Cristo: « Fummo dunque
sepolti con lui per l'immersione a figura della morte »; ma se, fummo innestati
a lui in una morte simile alla sua, lo saremo anche in una resurrezione simile
alla sua » (Rm 6,4-5). Partecipando realmente del corpo del Signore nella
frazione del pane eucaristico, siamo elevati alla comunione con lui e tra di
noi: « Perché c'è un solo pane, noi tutti non formiamo che un solo corpo,
partecipando noi tutti di uno stesso pane» (1 Cor 10,17). Così noi tutti
diventiamo membri di quel corpo (cfr. 1 Cor 12,27), «e siamo membri gli uni
degli altri» (Rm 12,5).
Ma come tutte le membra del corpo umano,
anche se numerose, non formano che un solo corpo così i fedeli in Cristo (cfr.
1 Cor 12,12). Anche nella struttura del corpo mistico di Cristo vige una
diversità di membri e di uffici. Uno è lo Spirito, il quale per l'utilità
della Chiesa distribuisce la varietà dei suoi doni con magnificenza
proporzionata alla sua ricchezza e alle necessità dei ministeri (cfr. 1 Cor
12,1-11). Fra questi doni eccelle quello degli apostoli, alla cui autorità lo
stesso Spirito sottomette anche i carismatici (cfr. 1 Cor 14). Lo Spirito,
unificando il corpo con la sua virtù e con l'interna connessione dei membri,
produce e stimola la carità tra i fedeli. E quindi se un membro soffre,
soffrono con esso tutte le altre membra; se un membro è onorato, ne gioiscono
con esso tutte le altre membra (cfr. 1 Cor 12,26).
Capo di questo corpo è Cristo. Egli è
l'immagine dell'invisibile Dio, e in lui tutto è stato creato. Egli è
anteriore a tutti, e tutte le cose sussistono in lui. È il capo del corpo, che
è la Chiesa. È il principio, il primo nato di tra i morti, affinché abbia il
primato in tutto (cfr. Col 1,15-18). Con la grandezza della sua potenza domina
sulle cose celesti e terrestri, e con la sua perfezione e azione sovrana riempie
delle ricchezze della sua gloria tutto il suo corpo (cfr. Ef 1,18-23).
Tutti i membri devono a lui conformarsi, fino
a che Cristo non sia in essi formato (cfr. Gal 4,19). Per ciò siamo collegati
ai misteri della sua vita, resi conformi a lui, morti e resuscitati con lui,
finché con lui regneremo (cfr. Fil 3,21; 2 Tm 2,11; Ef 2,6). Ancora
peregrinanti in terra, mentre seguiamo le sue orme nella tribolazione e nella
persecuzione, veniamo associati alle sue sofferenze, come il corpo al capo e
soffriamo con lui per essere con lui glorificati (cfr. Rm 8,17). Da lui « tutto
il corpo ben fornito e ben compaginato, per mezzo di giunture e di legamenti,
riceve l'aumento voluto da Dio » (Col 2,19). Nel suo corpo, che è la Chiesa,
egli continuamente dispensa i doni dei ministeri, con i quali, per virtù sua,
ci aiutiamo vicendevolmente a salvarci e, operando nella carità conforme a
verità, andiamo in ogni modo crescendo verso colui, che è il nostro capo (cfr.
Ef 5,11-16 gr.).
Perché poi ci rinnovassimo continuamente in
lui (cfr. Ef 4,23), ci ha resi partecipi del suo Spirito, il quale, unico e
identico nel capo e nelle membra, dà a tutto il corpo vita, unità e moto, così
che i santi Padri poterono paragonare la sua funzione con quella che il
principio vitale, cioè l'anima, esercita nel corpo umano. Cristo inoltre ama la
Chiesa come sua sposa, facendosi modello del marito che ama la moglie come il
proprio corpo (cfr. Ef 5,25-28); la Chiesa poi è soggetta al suo capo. E poiché
«in lui abita congiunta all'umanità la pienezza della divinità » (Col 2,9),
egli riempie dei suoi doni la Chiesa la quale è il suo corpo e la sua pienezza
(cfr. Ef 1,22-23), affinché essa sia protesa e pervenga alla pienezza totale di
Dio (cfr. Ef 3,19).
La Chiesa, realtà visibile e spirituale
8. Cristo, unico mediatore, ha costituito
sulla terra e incessantemente sostenta la sua Chiesa santa, comunità di fede,
di speranza e di carità, quale organismo visibile, attraverso il quale diffonde
per tutti la verità e la grazia. Ma la società costituita di organi gerarchici
e il corpo mistico di Cristo, l'assemblea visibile e la comunità spirituale, la
Chiesa terrestre e la Chiesa arricchita di beni celesti, non si devono
considerare come due cose diverse; esse formano piuttosto una sola complessa
realtà risultante di un duplice elemento, umano e divino. Per una analogia che
non è senza valore, quindi, è paragonata al mistero del Verbo incarnato.
Infatti, come la natura assunta serve al Verbo divino da vivo organo di
salvezza, a lui indissolubilmente unito, così in modo non dissimile l'organismo
sociale della Chiesa serve allo Spirito di Cristo che la vivifica, per la
crescita del corpo (cfr. Ef 4,16).
Questa è l'unica Chiesa di Cristo, che nel
Simbolo professiamo una, santa, cattolica e apostolica e che il Salvatore
nostro, dopo la sua resurrezione, diede da pascere a Pietro (cfr. Gv 21,17),
affidandone a lui e agli altri apostoli la diffusione e la guida (cfr. Mt
28,18ss), e costituì per sempre colonna e sostegno della verità (cfr. 1 Tm
3,15). Questa Chiesa, in questo mondo costituita e organizzata come società,
sussiste nella Chiesa cattolica, governata dal successore di Pietro e dai
vescovi in comunione con lui, ancorché al di fuori del suo organismo si trovino
parecchi elementi di santificazione e di verità, che, appartenendo propriamente
per dono di Dio alla Chiesa di Cristo, spingono verso l'unità cattolica. Come
Cristo ha compiuto la redenzione attraverso la povertà e le persecuzioni, così
pure la Chiesa e chiamata a prendere la stessa via per comunicare agli uomini i
frutti della salvezza. Gesù Cristo « che era di condizione divina... spogliò
se stesso, prendendo la condizione di schiavo » (Fil 2,6-7) e per noi « da
ricco che era si fece povero » (2 Cor 8,9): così anche la Chiesa, quantunque
per compiere la sua missione abbia bisogno di mezzi umani, non è costituita per
cercare la gloria terrena, bensì per diffondere, anche col suo esempio, l'umiltà
e l'abnegazione. Come Cristo infatti è stato inviato dal Padre « ad annunciare
la buona novella ai poveri, a guarire quei che hanno il cuore contrito » (Lc
4,18), « a cercare e salvare ciò che era perduto» (Lc 19,10), così pure la
Chiesa circonda d'affettuosa cura quanti sono afflitti dalla umana debolezza,
anzi riconosce nei poveri e nei sofferenti l'immagine del suo fondatore, povero
e sofferente, si fa premura di sollevarne la indigenza e in loro cerca di
servire il Cristo. Ma mentre Cristo, « santo, innocente, immacolato » (Eb
7,26), non conobbe il peccato (cfr. 2 Cor 5,21) e venne solo allo scopo di
espiare i peccati del popolo (cfr. Eb 2,17), la Chiesa, che comprende nel suo
seno peccatori ed è perciò santa e insieme sempre bisognosa di purificazione,
avanza continuamente per il cammino della penitenza e del rinnovamento. La
Chiesa « prosegue il suo pellegrinaggio fra le persecuzioni del mondo e le
consolazioni di Dio », annunziando la passione e la morte del Signore fino a
che egli venga (cfr. 1 Cor 11,26). Dalla virtù del Signore risuscitato trae la
forza per vincere con pazienza e amore le afflizioni e le difficoltà, che le
vengono sia dal di dentro che dal di fuori, e per svelare in mezzo al mondo, con
fedeltà, anche se non perfettamente, il mistero di lui, fino a che alla fine
dei tempi esso sarà manifestato nella pienezza della luce.
CAPITOLO II
IL POPOLO DI DIO
Nuova alleanza e nuovo popolo
9. In ogni tempo e in ogni nazione è accetto
a Dio chiunque lo teme e opera la giustizia (cfr. At 10,35). Tuttavia Dio volle
santificare e salvare gli uomini non individualmente e senza alcun legame tra
loro, ma volle costituire di loro un popolo, che lo riconoscesse secondo la
verità e lo servisse nella santità.
Scelse quindi per sé il popolo israelita,
stabilì con lui un'alleanza e lo formò lentamente, manifestando nella sua
storia se stesso e i suoi disegni e santificandolo per sé. Tutto questo però
avvenne in preparazione e figura di quella nuova e perfetta alleanza da farsi in
Cristo, e di quella più piena rivelazione che doveva essere attuata per mezzo
del Verbo stesso di Dio fattosi uomo. « Ecco venir giorni (parola del Signore)
nei quali io stringerò con Israele e con Giuda un patto nuovo... Porrò la mia
legge nei loro cuori e nelle loro menti l'imprimerò; essi mi avranno per Dio ed
io li avrò per il mio popolo... Tutti essi, piccoli e grandi, mi
riconosceranno, dice il Signore » (Ger 31,31-34). Cristo istituì questo nuovo
patto cioè la nuova alleanza nel suo sangue (cfr. 1 Cor 11,25), chiamando la
folla dai Giudei e dalle nazioni, perché si fondesse in unità non secondo la
carne, ma nello Spirito, e costituisse il nuovo popolo di Dio. Infatti i
credenti in Cristo, essendo stati rigenerati non di seme corruttibile, ma di uno
incorruttibile, che è la parola del Dio vivo (cfr. 1 Pt 1,23), non dalla carne
ma dall'acqua e dallo Spirito Santo (cfr. Gv 3,5-6), costituiscono « una stirpe
eletta, un sacerdozio regale, una nazione santa, un popolo tratto in salvo...
Quello che un tempo non era neppure popolo, ora invece è popolo di Dio » (1 Pt
2,9-10).
Questo popolo messianico ha per capo Cristo
« dato a morte per i nostri peccati e risuscitato per la nostra giustificazione
» (Rm 4,25), e che ora, dopo essersi acquistato un nome che è al di sopra di
ogni altro nome, regna glorioso in cielo. Ha per condizione la dignità e la
libertà dei figli di Dio, nel cuore dei quali dimora lo Spirito Santo come in
un tempio. Ha per legge il nuovo precetto di amare come lo stesso Cristo ci ha
amati (cfr. Gv 13,34). E finalmente, ha per fine il regno di Dio, incominciato
in terra dallo stesso Dio, e che deve essere ulteriormente dilatato, finché
alla fine dei secoli sia da lui portato a compimento, quando comparirà Cristo,
vita nostra (cfr. Col 3,4) e « anche le stesse creature saranno liberate dalla
schiavitù della corruzione per partecipare alla gloriosa libertà dei figli di
Dio » (Rm 8,21). Perciò il popolo messianico, pur non comprendendo
effettivamente l'universalità degli uomini e apparendo talora come un piccolo
gregge, costituisce tuttavia per tutta l'umanità il germe più forte di unità,
di speranza e di salvezza. Costituito da Cristo per una comunione di vita, di
carità e di verità, è pure da lui assunto ad essere strumento della
redenzione di tutti e, quale luce del mondo e sale della terra (cfr. Mt
5,13-16), è inviato a tutto il mondo.
Come già l'Israele secondo la carne
peregrinante nel deserto viene chiamato Chiesa di Dio (Dt 23,1 ss.), così il
nuovo Israele dell'era presente, che cammina alla ricerca della città futura e
permanente (cfr. Eb 13,14), si chiama pure Chiesa di Cristo (cfr. Mt 16,18); è
il Cristo infatti che l'ha acquistata col suo sangue (cfr. At 20,28), riempita
del suo Spirito e fornita di mezzi adatti per l'unione visibile e sociale. Dio
ha convocato tutti coloro che guardano con fede a Gesù, autore della salvezza e
principio di unità e di pace, e ne ha costituito la Chiesa, perché sia agli
occhi di tutti e di ciascuno, il sacramento visibile di questa unità salvifica.
Dovendosi essa estendere a tutta la terra, entra nella storia degli uomini,
benché allo stesso tempo trascenda i tempi e i confini dei popoli, e nel suo
cammino attraverso le tentazioni e le tribolazioni è sostenuta dalla forza
della grazia di Dio che le è stata promessa dal Signore, affinché per la umana
debolezza non venga meno alla perfetta fedeltà ma permanga degna sposa del suo
Signore, e non cessi, con l'aiuto dello Spirito Santo, di rinnovare se stessa,
finché attraverso la croce giunga alla luce che non conosce tramonto.
Il sacerdozio comune dei fedeli
10. Cristo Signore, pontefice assunto di
mezzo agli uomini (cfr. Eb 5,1-5), fece del nuovo popolo « un regno e sacerdoti
per il Dio e il Padre suo » (Ap 1,6; cfr. 5,9-10). Infatti per la rigenerazione
e l'unzione dello Spirito Santo i battezzati vengono consacrati per formare un
tempio spirituale e un sacerdozio santo, per offrire, mediante tutte le attività
del cristiano, spirituali sacrifici, e far conoscere i prodigi di colui, che
dalle tenebre li chiamò all'ammirabile sua luce (cfr. 1 Pt 2,4-10). Tutti
quindi i discepoli di Cristo, perseverando nella preghiera e lodando insieme Dio
(cfr. At 2,42-47), offrano se stessi come vittima viva, santa, gradevole a Dio
(cfr. Rm 12,1), rendano dovunque testimonianza di Cristo e, a chi la richieda,
rendano ragione della speranza che è in essi di una vita eterna (cfr. 1 Pt
3,15) Il sacerdozio comune dei fedeli e il sacerdozio ministeriale o gerarchico,
quantunque differiscano essenzialmente e non solo di grado, sono tuttavia
ordinati l'uno all'altro, poiché l'uno e l'altro, ognuno a suo proprio modo,
partecipano dell'unico sacerdozio di Cristo. Il sacerdote ministeriale, con la
potestà sacra di cui è investito, forma e regge il popolo sacerdotale, compie
il sacrificio eucaristico nel ruolo di Cristo e lo offre a Dio a nome di tutto
il popolo; i fedeli, in virtù del loro regale sacerdozio, concorrono
all'offerta dell'eucaristia, ed esercitano il loro sacerdozio col ricevere i
sacramenti, con la preghiera e il ringraziamento, con la testimonianza di una
vita santa, con l'abnegazione e la carità operosa.
Il sacerdozio comune esercitato nei sacramenti
11. Il carattere sacro e organico della
comunità sacerdotale viene attuato per mezzo dei sacramenti e delle virtù. I
fedeli, incorporati nella Chiesa col battesimo, sono destinati al culto della
religione cristiana dal carattere sacramentale; rigenerati quali figli di Dio,
sono tenuti a professare pubblicamente la fede ricevuta da Dio mediante la
Chiesa. Col sacramento della confermazione vengono vincolati più perfettamente
alla Chiesa, sono arricchiti di una speciale forza dallo Spirito Santo e in
questo modo sono più strettamente obbligati a diffondere e a difendere la fede
con la parola e con l'opera, come veri testimoni di Cristo. Partecipando al
sacrificio eucaristico, fonte e apice di tutta la vita cristiana, offrono a Dio
la vittima divina e se stessi con essa così tutti, sia con l'offerta che con la
santa comunione, compiono la propria parte nell'azione liturgica, non però in
maniera indifferenziata, bensì ciascuno a modo suo. Cibandosi poi del corpo di
Cristo nella santa comunione, mostrano concretamente la unità del popolo di
Dio, che da questo augustissimo sacramento è adeguatamente espressa e
mirabilmente effettuata.
Quelli che si accostano al sacramento della
penitenza, ricevono dalla misericordia di Dio il perdono delle offese fatte a
lui; allo stesso tempo si riconciliano con la Chiesa, alla quale hanno inflitto
una ferita col peccato e che coopera alla loro conversione con la carità,
l'esempio e la preghiera. Con la sacra unzione degli infermi e la preghiera dei
sacerdoti, tutta la Chiesa raccomanda gli ammalati al Signore sofferente e
glorificato, perché alleggerisca le loro pene e li salvi (cfr. Gc 5,14-16),
anzi li esorta a unirsi spontaneamente alla passione e morte di Cristo (cfr. Rm
8,17; Col 1,24), per contribuire così al bene del popolo di Dio. Inoltre,
quelli tra i fedeli che vengono insigniti dell'ordine sacro sono posti in nome
di Cristo a pascere la Chiesa colla parola e la grazia di Dio. E infine i
coniugi cristiani, in virtù del sacramento del matrimonio, col quale
significano e partecipano il mistero di unità e di fecondo amore che intercorre
tra Cristo e la Chiesa (cfr. Ef 5,32), si aiutano a vicenda per raggiungere la
santità nella vita coniugale; accettando ed educando la prole essi hanno così,
nel loro stato di vita e nella loro funzione, il proprio dono in mezzo al popolo
di Dio (cfr. 1 Cor 7,7). Da questa missione, infatti, procede la famiglia, nella
quale nascono i nuovi cittadini della società umana, i quali per la grazia
dello Spirito Santo diventano col battesimo figli di Dio e perpetuano attraverso
i secoli il suo popolo. In questa che si potrebbe chiamare Chiesa domestica, i
genitori devono essere per i loro figli i primi maestri della fede e secondare
la vocazione propria di ognuno, quella sacra in modo speciale.
Muniti di salutari mezzi di una tale
abbondanza e d'una tale grandezza, tutti i fedeli d'ogni stato e condizione sono
chiamati dal Signore, ognuno per la sua via, a una santità, la cui perfezione
è quella stessa del Padre celeste.
Il senso della fede e i carismi nel popolo di Dio
12. Il popolo santo di Dio partecipa pure
dell'ufficio profetico di Cristo col diffondere dovunque la viva testimonianza
di lui, soprattutto per mezzo di una vita di fede e di carità, e coll'offrire a
Dio un sacrificio di lode, cioè frutto di labbra acclamanti al nome suo (cfr.
Eb 13,15). La totalità dei fedeli, avendo l'unzione che viene dal Santo, (cfr.
1 Gv 2,20 e 27), non può sbagliarsi nel credere, e manifesta questa sua
proprietà mediante il senso soprannaturale della fede di tutto il popolo,
quando « dai vescovi fino agli ultimi fedeli laici » mostra l'universale suo
consenso in cose di fede e di morale. E invero, per quel senso della fede, che
è suscitato e sorretto dallo Spirito di verità, e sotto la guida del sacro
magistero, il quale permette, se gli si obbedisce fedelmente, di ricevere non più
una parola umana, ma veramente la parola di Dio (cfr. 1 Ts 2,13), il popolo di
Dio aderisce indefettibilmente alla fede trasmessa ai santi una volta per tutte
(cfr. Gdc 3), con retto giudizio penetra in essa più a fondo e più pienamente
l'applica nella vita.
Inoltre lo Spirito Santo non si limita a
santificare e a guidare il popolo di Dio per mezzo dei sacramenti e dei
ministeri, e ad adornarlo di virtù, ma « distribuendo a ciascuno i propri doni
come piace a lui » (1 Cor 12,11), dispensa pure tra i fedeli di ogni ordine
grazie speciali, con le quali li rende adatti e pronti ad assumersi vari
incarichi e uffici utili al rinnovamento e alla maggiore espansione della Chiesa
secondo quelle parole: « A ciascuno la manifestazione dello Spirito è data
perché torni a comune vantaggio » (1 Cor 12,7). E questi carismi, dai più
straordinari a quelli più semplici e più largamente diffusi, siccome sono
soprattutto adatti alle necessità della Chiesa e destinati a rispondervi, vanno
accolti con gratitudine e consolazione. Non bisogna però chiedere
imprudentemente i doni straordinari, né sperare da essi con presunzione i
frutti del lavoro apostolico. Il giudizio sulla loro genuinità e sul loro uso
ordinato appartiene a coloro che detengono l'autorità nella Chiesa; ad essi
spetta soprattutto di non estinguere lo Spirito, ma di esaminare tutto e
ritenere ciò che è buono (cfr. 1 Ts 5,12 e 19-21).
L'unico popolo di Dio è universale
13. Tutti gli uomini sono chiamati a formare
il popolo di Dio. Perciò questo popolo, pur restando uno e unico, si deve
estendere a tutto il mondo e a tutti i secoli, affinché si adempia l'intenzione
della volontà di Dio, il quale in principio creò la natura umana una e volle
infine radunare insieme i suoi figli dispersi (cfr. Gv 11,52). A questo scopo
Dio mandò il Figlio suo, al quale conferì il dominio di tutte le cose (cfr. Eb
1,2), perché fosse maestro, re e sacerdote di tutti, capo del nuovo e
universale popolo dei figli di Dio. Per questo infine Dio mandò lo Spirito del
Figlio suo, Signore e vivificatore, il quale per tutta la Chiesa e per tutti e
singoli i credenti è principio di associazione e di unità, nell'insegnamento
degli apostoli e nella comunione fraterna, nella frazione del pane e nelle
preghiere (cfr. At 2,42).
In tutte quindi le nazioni della terra è
radicato un solo popolo di Dio, poiché di mezzo a tutte le stirpi egli prende i
cittadini del suo regno non terreno ma celeste. E infatti tutti i fedeli sparsi
per il mondo sono in comunione con gli altri nello Spirito Santo, e così « chi
sta in Roma sa che gli Indi sono sue membra ». Siccome dunque il regno di
Cristo non è di questo mondo (cfr. Gv 18,36), la Chiesa, cioè il popolo di
Dio, introducendo questo regno nulla sottrae al bene temporale di qualsiasi
popolo, ma al contrario favorisce e accoglie tutte le ricchezze, le risorse e le
forme di vita dei popoli in ciò che esse hanno di buono e accogliendole le
purifica, le consolida ed eleva. Essa si ricorda infatti di dover far opera di
raccolta con quel Re, al quale sono state date in eredità le genti (cfr. Sal
2,8), e nella cui città queste portano i loro doni e offerte (cfr. Sal 71
(72),10; Is 60,4-7). Questo carattere di universalità, che adorna e distingue
il popolo di Dio è dono dello stesso Signore, e con esso la Chiesa cattolica
efficacemente e senza soste tende a ricapitolare tutta l'umanità, con tutti i
suoi beni, in Cristo capo, nell'unità dello Spirito di lui.
In virtù di questa cattolicità, le singole
parti portano i propri doni alle altre parti e a tutta la Chiesa, in modo che il
tutto e le singole parti si accrescono per uno scambio mutuo universale e per
uno sforzo comune verso la pienezza nell'unità. Ne consegue che il popolo di
Dio non solo si raccoglie da diversi popoli, ma nel suo stesso interno si
compone di funzioni diverse. Poiché fra i suoi membri c'è diversità sia per
ufficio, essendo alcuni impegnati nel sacro ministero per il bene dei loro
fratelli, sia per la condizione e modo di vita, dato che molti nello stato
religioso, tendendo alla santità per una via più stretta, sono un esempio
stimolante per i loro fratelli. Così pure esistono legittimamente in seno alla
comunione della Chiesa, le Chiese particolari, con proprie tradizioni, rimanendo
però integro il primato della cattedra di Pietro, la quale presiede alla
comunione universale di carità, tutela le varietà legittime e insieme veglia
affinché ciò che è particolare, non solo non pregiudichi l'unità, ma
piuttosto la serva. E infine ne derivano, tra le diverse parti della Chiesa,
vincoli di intima comunione circa i tesori spirituali, gli operai apostolici e
le risorse materiali. I membri del popolo di Dio sono chiamati infatti a
condividere i beni e anche alle singole Chiese si applicano le parole
dell'Apostolo: « Da bravi amministratori della multiforme grazia di Dio, ognuno
di voi metta a servizio degli altri il dono che ha ricevuto» (1 Pt 4,10).
Tutti gli uomini sono quindi chiamati a
questa cattolica unità del popolo di Dio, che prefigura e promuove la pace
universale; a questa unità in vario modo appartengono o sono ordinati sia i
fedeli cattolici, sia gli altri credenti in Cristo, sia infine tutti gli uomini
senza eccezione, che la grazia di Dio chiama alla salvezza.
I fedeli cattolici
14. Il santo Concilio si rivolge quindi prima
di tutto ai fedeli cattolici. Esso, basandosi sulla sacra Scrittura e sulla
tradizione, insegna che questa Chiesa peregrinante è necessaria alla salvezza.
Solo il Cristo, infatti, presente in mezzo a noi nel suo corpo che è la Chiesa,
è il mediatore e la via della salvezza; ora egli stesso, inculcando
espressamente la necessità della fede e del battesimo (cfr. Gv 3,5), ha nello
stesso tempo confermato la necessità della Chiesa, nella quale gli uomini
entrano per il battesimo come per una porta. Perciò non possono salvarsi quegli
uomini, i quali, pur non ignorando che la Chiesa cattolica è stata fondata da
Dio per mezzo di Gesù Cristo come necessaria, non vorranno entrare in essa o in
essa perseverare. Sono pienamente incorporati nella società della Chiesa quelli
che, avendo lo Spirito di Cristo, accettano integralmente la sua organizzazione
e tutti i mezzi di salvezza in essa istituiti, e che inoltre, grazie ai legami
costituiti dalla professione di fede, dai sacramenti, dal governo ecclesiastico
e dalla comunione, sono uniti, nell'assemblea visibile della Chiesa, con il
Cristo che la dirige mediante il sommo Pontefice e i vescovi. Non si salva, però,
anche se incorporato alla Chiesa, colui che, non perseverando nella carità,
rimane sì in seno alla Chiesa col «corpo», ma non col «cuore». Si ricordino
bene tutti i figli della Chiesa che la loro privilegiata condizione non va
ascritta ai loro meriti, ma ad una speciale grazia di Cristo; per cui, se non vi
corrispondono col pensiero, con le parole e con le opere, non solo non si
salveranno, ma anzi saranno più severamente giudicati.
I catecumeni che per impulso dello Spirito
Santo desiderano ed espressamente vogliono essere incorporati alla Chiesa,
vengono ad essa congiunti da questo stesso desiderio, e la madre Chiesa li
avvolge come già suoi con il proprio amore e con le proprie cure.
I cristiani non cattolici e la Chiesa
15. La Chiesa sa di essere per più ragioni
congiunta con coloro che, essendo battezzati, sono insigniti del nome cristiano,
ma non professano integralmente la fede o non conservano l'unità di comunione
sotto il successore di Pietro. Ci sono infatti molti che hanno in onore la sacra
Scrittura come norma di fede e di vita, manifestano un sincero zelo religioso,
credono amorosamente in Dio Padre onnipotente e in Cristo, figlio di Dio e
salvatore, sono segnati dal battesimo, col quale vengono congiunti con Cristo,
anzi riconoscono e accettano nelle proprie Chiese o comunità ecclesiali anche
altri sacramenti. Molti fra loro hanno anche l'episcopato, celebrano la sacra
eucaristia e coltivano la devozione alla vergine Madre di Dio. A questo si
aggiunge la comunione di preghiere e di altri benefici spirituali; anzi, una
certa vera unione nello Spirito Santo, poiché anche in loro egli opera con la
sua virtù santificante per mezzo di doni e grazie e ha dato ad alcuni la forza
di giungere fino allo spargimento del sangue. Così lo Spirito suscita in tutti
i discepoli di Cristo desiderio e attività, affinché tutti, nel modo da Cristo
stabilito, pacificamente si uniscano in un solo gregge sotto un solo Pastore. E
per ottenere questo la madre Chiesa non cessa di pregare, sperare e operare,
esortando i figli a purificarsi e rinnovarsi perché l'immagine di Cristo
risplenda più chiara sul volto della Chiesa.
I non cristiani e la Chiesa
16. Infine, quanto a quelli che non hanno
ancora ricevuto il Vangelo, anch'essi in vari modi sono ordinati al popolo di
Dio. In primo luogo quel popolo al quale furono-dati i testamenti e le promesse
e dal quale Cristo è nato secondo la carne (cfr. Rm 9,4-5), popolo molto amato
in ragione della elezione, a causa dei padri, perché i doni e la chiamata di
Dio sono irrevocabili (cfr. Rm 11,28-29). Ma il disegno di salvezza abbraccia
anche coloro che riconoscono il Creatore, e tra questi in particolare i
musulmani, i quali, professando di avere la fede di Abramo, adorano con noi un
Dio unico, misericordioso che giudicherà gli uomini nel giorno finale. Dio non
e neppure lontano dagli altri che cercano il Dio ignoto nelle ombre e sotto le
immagini, poiché egli dà a tutti la vita e il respiro e ogni cosa (cfr At
1,7,25-26), e come Salvatore vuole che tutti gli uomini si salvino (cfr. 1 Tm
2,4). Infatti, quelli che senza colpa ignorano il Vangelo di Cristo e la sua
Chiesa ma che tuttavia cercano sinceramente Dio e coll'aiuto della grazia si
sforzano di compiere con le opere la volontà di lui, conosciuta attraverso il
dettame della coscienza, possono conseguire la salvezza eterna. Né la divina
Provvidenza nega gli aiuti necessari alla salvezza a coloro che non sono ancora
arrivati alla chiara cognizione e riconoscimento di Dio, ma si sforzano, non
senza la grazia divina, di condurre una vita retta. Poiché tutto ciò che di
buono e di vero si trova in loro è ritenuto dalla Chiesa come una preparazione
ad accogliere il Vangelo e come dato da colui che illumina ogni uomo, affinché
abbia finalmente la vita. Ma molto spesso gli uomini, ingannati dal maligno,
hanno errato nei loro ragionamenti e hanno scambiato la verità divina con la
menzogna, servendo la creatura piuttosto che il Creatore (cfr. Rm 1,21 e 25),
oppure, vivendo e morendo senza Dio in questo mondo, sono esposti alla
disperazione finale. Perciò la Chiesa per promuovere la gloria di Dio e la
salute di tutti costoro, memore del comando del Signore che dice: « Predicate
il Vangelo ad ogni creatura» (Mc 16,15), mette ogni cura nell'incoraggiare e
sostenere le missioni.
Carattere missionario della Chiesa
17. Come infatti il Figlio è stato mandato
dal Padre, così ha mandato egli stesso gli apostoli (cfr. Gv 20,21) dicendo: «Andate
dunque e ammaestrate tutte le genti, battezzandole nel nome del Padre e del
Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro ad osservare tutto quanto vi ho
comandato. Ed ecco, io sono con voi tutti i giorni, sino alla fine del mondo »
(Mt 28,18-20). E questo solenne comando di Cristo di annunziare la verità
salvifica, la Chiesa l'ha ricevuto dagli apostoli per proseguirne l'adempimento
sino all'ultimo confine della terra (cfr. At 1,8). Essa fa quindi sue le parole
dell'apostolo: « Guai... a me se non predicassi! » (l Cor 9,16) e continua a
mandare araldi del Vangelo, fino a che le nuove Chiese siano pienamente
costituite e continuino a loro volta l'opera di evangelizzazione. È spinta
infatti dallo Spirito Santo a cooperare perché sia compiuto il piano di Dio, il
quale ha costituito Cristo principio della salvezza per il mondo intero.
Predicando il Vangelo, la Chiesa dispone coloro che l'ascoltano a credere e a
professare la fede, li dispone al battesimo, li toglie dalla schiavitù
dell'errore e li incorpora a Cristo per crescere in lui mediante la carità
finché sia raggiunta la pienezza. Procura poi che quanto di buono si trova
seminato nel cuore e nella mente degli uomini o nei riti e culture proprie dei
popoli, non solo non vada perduto, ma sia purificato, elevato e perfezionato a
gloria di Dio, confusione del demonio e felicità dell'uomo. Ad ogni discepolo
di Cristo incombe il dovere di disseminare, per quanto gli è possibile, la
fede. Ma se ognuno può conferire il battesimo ai credenti, è tuttavia ufficio
del sacerdote di completare l'edificazione del corpo col sacrificio eucaristico,
adempiendo le parole dette da Dio per mezzo del profeta: « Da dove sorge il
sole fin dove tramonta, grande è il mio Nome tra le genti e in ogni luogo si
offre al mio Nome un sacrificio e un'offerta pura ». Così la Chiesa unisce
preghiera e lavoro, affinché il mondo intero in tutto il suo essere sia
trasformato in popolo di Dio, corpo mistico di Cristo e tempio dello Spirito
Santo, e in Cristo, centro di tutte le cose, sia reso ogni onore e gloria al
Creatore e Padre dell'universo.
CAPITOLO III
COSTITUZIONE GERARCHICA DELLA CHIESA
E IN PARTICOLARE DELL'EPISCOPATO
Proemio
18. Cristo Signore, per pascere e sempre più
accrescere il popolo di Dio, ha stabilito nella sua Chiesa vari ministeri, che
tendono al bene di tutto il corpo. I ministri infatti che sono rivestiti di
sacra potestà, servono i loro fratelli, perché tutti coloro che appartengono
al popolo di Dio, e perciò hanno una vera dignità cristiana, tendano
liberamente e ordinatamente allo stesso fine e arrivino alla salvezza. Questo
santo Sinodo, sull'esempio del Concilio Vaticano primo, insegna e dichiara che
Gesù Cristo, pastore eterno, ha edificato la santa Chiesa e ha mandato gli
apostoli, come egli stesso era stato mandato dal Padre (cfr. Gv 20,21), e ha
voluto che i loro successori, cioè i vescovi, fossero nella sua Chiesa pastori
fino alla fine dei secoli. Affinché poi lo stesso episcopato fosse uno e
indiviso, prepose agli altri apostoli il beato Pietro e in lui stabilì il
principio e il fondamento perpetuo e visibile dell'unità di fede e di
comunione. Questa dottrina della istituzione, della perpetuità, del valore e
della natura del sacro primato del romano Pontefice e del suo infallibile
magistero, il santo Concilio la propone di nuovo a tutti i fedeli come oggetto
certo di fede. Di più proseguendo nel disegno incominciato, ha stabilito di
enunciare ed esplicitare la dottrina sui vescovi, successori degli apostoli, i
quali col successore di Pietro, vicario di Cristo e capo visibile di tutta la
Chiesa, reggono la casa del Dio vivente.
L'istituzione dei dodici
19. Il Signore Gesù, dopo aver pregato il
Padre, chiamò a sé quelli che egli volle, e ne costituì dodici perché
stessero con lui e per mandarli a predicare il regno di Dio (cfr. Mc 3,13-19; Mt
10,1-42); ne fece i suoi apostoli (cfr. Lc 6,13) dando loro la forma di
collegio, cioè di un gruppo stabile, del quale mise a capo Pietro, scelto di
mezzo a loro (cfr. Gv 21 15-17). Li mandò prima ai figli d'Israele e poi a
tutte le genti (cfr. Rm 1,16) affinché, partecipi del suo potere, rendessero
tutti i popoli suoi discepoli, li santificassero e governassero (cfr. Mt
28,16-20; Mc 16,15; Lc 24,45-48), diffondendo così la Chiesa e, sotto la guida
del Signore, ne fossero i ministri e i pastori, tutti i giorni sino alla fine
del mondo (cfr. Mt 28,20). In questa missione furono pienamente confermati il
giorno di Pentecoste (cfr. At 2,1-36) secondo la promessa del Signore: «
Riceverete una forza, quella dello Spirito Santo che discenderà su di voi, e mi
sarete testimoni a Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samaria, e sino alle
estremità della terra » (At 1,8). Gli apostoli, quindi, predicando dovunque il
Vangelo (cfr. Mc 16,20), accolto dagli uditori grazie all'azione dello Spirito
Santo, radunano la Chiesa universale che il Signore ha fondato su di essi e
edificato sul beato Pietro, loro capo, con Gesù Cristo stesso come pietra
maestra angolare (cfr. Ap 21,14; Mt 16,18; Ef 2,20).
I vescovi, successori degli apostoli
20. La missione divina affidata da Cristo
agli apostoli durerà fino alla fine dei secoli (cfr. Mt 28,20), poiché il
Vangelo che essi devono predicare è per la Chiesa il principio di tutta la sua
vita in ogni tempo. Per questo gli apostoli, in questa società gerarchicamente
ordinata, ebbero cura di istituire dei successori.
Infatti, non solo ebbero vari collaboratori
nel ministero ma perché la missione loro affidata venisse continuata dopo la
loro morte, affidarono, quasi per testamento, ai loro immediati cooperatori
l'ufficio di completare e consolidare l'opera da essi incominciata raccomandando
loro di attendere a tutto il gregge nel quale lo Spirito Santo li aveva posti a
pascere la Chiesa di Dio (cfr. At 20,28). Perciò si scelsero di questi uomini e
in seguito diedero disposizione che dopo la loro morte altri uomini
subentrassero al loro posto Fra i vari ministeri che fin dai primi tempi si
esercitano nella Chiesa, secondo la testimonianza della tradizione, tiene il
primo posto l'ufficio di quelli che costituiti nell'episcopato, per successione
che decorre ininterrotta fin dalle origini sono i sacramenti attraverso i quali
si trasmette il seme apostolico. Così, come attesta S. Ireneo, per mezzo di
coloro che gli apostoli costituirono vescovi e dei loro successori fino a noi,
la tradizione apostolica in tutto il mondo è manifestata e custodita .
I vescovi dunque hanno ricevuto il ministero
della comunità per esercitarlo con i loro collaboratori, sacerdoti e diaconi.
Presiedono in luogo di Dio al gregge di cui sono pastori quali maestri di
dottrina, sacerdoti del sacro culto, ministri del governo della Chiesa. Come
quindi è permanente l'ufficio dal Signore concesso singolarmente a Pietro, il
primo degli apostoli, e da trasmettersi ai suoi successori, cosi è permanente
l'ufficio degli apostoli di pascere la Chiesa, da esercitarsi in perpetuo dal
sacro ordine dei vescovi. Perciò il sacro Concilio insegna che i vescovi per
divina istituzione sono succeduti al posto degli apostoli quali pastori della
Chiesa, e che chi li ascolta, ascolta Cristo, chi li disprezza, disprezza Cristo
e colui che ha mandato Cristo (cfr. Lc 10,16).
Sacramentalità dell'episcopato
21. Nella persona quindi dei vescovi,
assistiti dai sacerdoti, è presente in mezzo ai credenti il Signore Gesù
Cristo, pontefice sommo. Pur sedendo infatti alla destra di Dio Padre, egli non
cessa di essere presente alla comunità dei suoi pontefici in primo luogo, per
mezzo dell'eccelso loro ministero, predica la parola di Dio a tutte le genti e
continuamente amministra ai credenti i sacramenti della fede; per mezzo del loro
ufficio paterno (cfr. 1 Cor 4,15) integra nuove membra al suo corpo con la
rigenerazione soprannaturale; e infine, con la loro sapienza e prudenza, dirige
e ordina il popolo del Nuovo Testamento nella sua peregrinazione verso l'eterna
beatitudine. Questi pastori, scelti a pascere il gregge del Signore, sono
ministri di Cristo e dispensatori dei misteri di Dio (cfr. 1 Cor 4,1). Ad essi
è stata affidata la testimonianza al Vangelo della grazia di Dio (cfr. Rm
15,16; At 20,24) e il glorioso ministero dello Spirito e della giustizia (cfr. 2
Cor 3,8-9).
Per compiere cosi grandi uffici, gli apostoli
sono stati arricchiti da Cristo con una effusione speciale dello Spirito Santo
disceso su loro (cfr. At 1,8; 2,4; Gv 20,22-23), ed essi stessi con la
imposizione delle mani diedero questo dono spirituale ai loro collaboratori
(cfr. 1 Tm 4,14; 2 Tm 1,6-7), dono che è stato trasmesso fino a noi nella
consacrazione episcopale. Il santo Concilio insegna quindi che con la
consacrazione episcopale viene conferita la pienezza del sacramento dell'ordine,
quella cioè che dalla consuetudine liturgica della Chiesa e dalla voce dei
santi Padri viene chiamata sommo sacerdozio, realtà totale del sacro ministero.
La consacrazione episcopale conferisce pure, con l'ufficio di santificare, gli
uffici di insegnare e governare; questi però, per loro natura, non possono
essere esercitati se non nella comunione gerarchica col capo e con le membra del
collegio. Dalla tradizione infatti, quale risulta specialmente dai riti
liturgici e dall'uso della Chiesa sia d'Oriente che d'Occidente, consta
chiaramente che dall'imposizione delle mani e dalle parole della consacrazione
è conferita la grazia dello Spirito Santo ed è impresso il sacro carattere in
maniera tale che i vescovi, in modo eminente e visibile, tengono il posto dello
stesso Cristo maestro, pastore e pontefice, e agiscono in sua vece. È proprio
dei vescovi assumere col sacramento dell'ordine nuovi eletti nel corpo
episcopale.
Il collegio dei vescovi e il suo capo
22. Come san Pietro e gli altri apostoli
costituiscono, per volontà del Signore, un unico collegio apostolico,
similmente il romano Pontefice, successore di Pietro, e i vescovi, successori
degli apostoli, sono uniti tra loro. Già l'antichissima disciplina, in virtù
della quale i vescovi di tutto il mondo vivevano in comunione tra loro e col
vescovo di Roma nel vincolo dell'unità, della carità e della pace e parimenti
la convocazione dei Concili per decidere in comune di tutte le questioni più
importanti mediante una decisione che l'opinione dell'insieme permetteva di
equilibrare significano il carattere e la natura collegiale dell'ordine
episcopale, che risulta manifestamente confermata dal fatto dei Concili
ecumenici tenuti lungo i secoli. La stessa è pure suggerita dall'antico uso di
convocare più vescovi per partecipare all elevazione del nuovo eletto al
ministero del sommo sacerdozio. Uno è costituito membro del corpo episcopale in
virtù della consacrazione sacramentale e mediante la comunione gerarchica col
capo del collegio e con le sue membra.
Il collegio o corpo episcopale non ha però
autorità, se non lo si concepisce unito al Pontefice romano, successore di
Pietro, quale suo capo, e senza pregiudizio per la sua potestà di primato su
tutti, sia pastori che fedeli. Infatti il romano Pontefice, in forza tutta la
Chiesa, ha su questa una potestà piena, suprema e universale, che può sempre
esercitare liberamente. D'altra parte, l'ordine dei vescovi, il quale succede al
collegio degli apostoli nel magistero e nel governo pastorale, anzi, nel quale
si perpetua il corpo apostolico, è anch'esso insieme col suo capo il romano
Pontefice, e mai senza questo capo, il soggetto di una suprema e piena potestà
su tutta la Chiesa sebbene tale potestà non possa essere esercitata se non col
consenso del romano Pontefice. Il Signore ha posto solo Simone come pietra e
clavigero della Chiesa (cfr. Mt 16,18-19), e lo ha costituito pastore di tutto
il suo gregge (cfr. Gv 21,15 ss); ma l'ufficio di legare e di sciogliere, che è
stato dato a Pietro (cfr. Mt 16,19), è noto essere stato pure concesso al
collegio degli apostoli, congiunto col suo capo (cfr. Mt 18,18; 28,16-20).
Questo collegio, in quanto composto da molti, esprime la varietà e
l'universalità del popolo di Dio; in quanto poi è raccolto sotto un solo capo,
significa l'unità del gregge di Cristo. In esso i vescovi, rispettando
fedelmente il primato e la preminenza del loro capo, esercitano la propria
potestà per il bene dei loro fedeli, anzi di tutta la Chiesa, mente lo Spirito
Santo costantemente consolida la sua struttura organica e la sua concordia. La
suprema potestà che questo collegio possiede su tutta la Chiesa, è esercitata
in modo solenne nel Concilio ecumenico. Mai può esserci Concilio ecumenico, che
come tale non sia confermato o almeno accettato dal successore di Pietro; ed è
prerogativa del romano Pontefice convocare questi Concili, presiederli e
confermarli. La stessa potestà collegiale insieme col papa può essere
esercitata dai vescovi sparsi per il mondo, purché il capo del collegio li
chiami ad agire collegialmente, o almeno approvi o liberamente accetti l'azione
congiunta dei vescovi dispersi, così da risultare un vero atto collegiale.
Le relazioni all'interno del collegio episcopale
23. L'unità collegiale appare anche nelle
mutue relazioni dei singoli vescovi con Chiese particolari e con la Chiesa
universale. Il romano Pontefice, quale successore di Pietro, è il perpetuo e
visibile principio e fondamento dell'unità sia dei vescovi sia della massa dei
fedeli. I singoli vescovi, invece, sono il visibile principio e fondamento di
unità nelle loro Chiese particolari queste sono formate ad immagine della
Chiesa universale, ed è in esse e a partire da esse che esiste la Chiesa
cattolica una e unica. Perciò i singoli vescovi rappresentano la propria
Chiesa, e tutti insieme col Papa rappresentano la Chiesa universale in un
vincolo di pace, di amore e di unità. I singoli vescovi, che sono preposti a
Chiese particolari, esercitano il loro pastorale governo sopra la porzione del
popolo di Dio che è stata loro affidata, non sopra le altre Chiese né sopra la
Chiesa universale. Ma in quanto membri del collegio episcopale e legittimi
successori degli apostoli, per istituzione e precetto di Cristo sono tenuti ad
avere per tutta la Chiesa una sollecitudine che, sebbene non sia esercitata con
atti di giurisdizione, contribuisce sommamente al bene della Chiesa universale.
Tutti i vescovi, infatti, devono promuovere e difendere l'unità della fede e la
disciplina comune all'insieme della Chiesa, formare i fedeli all'amore per tutto
il corpo mistico di Cristo, specialmente delle membra povere, sofferenti e di
quelle che sono perseguitate a causa della giustizia (cfr. Mt 5,10), e infine
promuovere ogni attività comune alla Chiesa, specialmente nel procurare che la
fede cresca e sorga per tutti gli uomini la luce della piena verità. Del resto
è certo che, reggendo bene la propria Chiesa come una porzione della Chiesa
universale, contribuiscono essi stessi efficacemente al bene di tutto il corpo
mistico, che è pure il corpo delle Chiese.
La cura di annunziare il Vangelo in ogni
parte della terra appartiene al corpo dei pastori, ai quali tutti, in comune,
Cristo diede il mandato, imponendo un comune dovere, come già papa Celestino
ricordava ai Padri del Concilio Efesino. Quindi i singoli vescovi, per quanto lo
permette l'esercizio del particolare loro dovere, sono tenuti a collaborare tra
di loro e col successore di Pietro, al quale in modo speciale fu affidato
l'altissimo ufficio di propagare il nome cristiano. Con tutte le forze devono
fornire alle missioni non solo gli operai della messe, ma anche aiuti spirituali
e materiali, sia da sé direttamente, sia suscitando la fervida cooperazione dei
fedeli. I vescovi, infine, in universale comunione di carità, offrano
volentieri il loro fraterno aiuto alle altre Chiese, specialmente alle più
vicine e più povere, seguendo in questo il venerando esempio dell'antica
Chiesa.
Per divina Provvidenza è avvenuto che varie
Chiese, in vari luoghi stabilite dagli apostoli e dai loro successori, durante i
secoli si sono costituite in vari raggruppamenti, organicamente congiunti, i
quali, salva restando l'unità della fede e l'unica costituzione divina della
Chiesa universale, godono di una propria disciplina, di un proprio uso
liturgico, di un proprio patrimonio teologico e spirituale. Alcune fra esse,
soprattutto le antiche Chiese patriarcali, quasi matrici della fede, ne hanno
generate altre a modo di figlie, colle quali restano fino ai nostri tempi legate
da un più stretto vincolo di carità nella vita sacramentale e nel mutuo
rispetto dei diritti e dei doveri. Questa varietà di Chiese locali tendenti
all'unità dimostra con maggiore evidenza la cattolicità della Chiesa indivisa.
In modo simile le Conferenze episcopali possono oggi portare un molteplice e
fecondo contributo acciocché il senso di collegialità si realizzi
concretamente.
Il ministero episcopale
24. I vescovi, quali successori degli
apostoli, ricevono dal Signore, cui è data ogni potestà in cielo e in terra,
la missione d'insegnare a tutte le genti e di predicare il Vangelo ad ogni
creatura, affinché tutti gli uomini, per mezzo della fede, del battesimo e
dell'osservanza dei comandamenti, ottengano la salvezza (cfr. Mt 28,18-20; Mc
16,15-16; At 26,17 ss). Per compiere questa missione, Cristo Signore promise
agli apostoli lo Spirito Santo e il giorno di Pentecoste lo mandò dal cielo,
perché con la sua forza essi gli fossero testimoni fino alla estremità della
terra, davanti alle nazioni e ai popoli e ai re (cfr. At 1,8; 2,1 ss; 9,15).
L'ufficio poi che il Signore affidò ai pastori del suo popolo, è un vero
servizio, che nella sacra Scrittura è chiamato significativamente « diaconia
», cioè ministero (cfr. At 1,17 e 25; 21,19; Rm 11,13; 1 Tm 1,12).
La missione canonica dei vescovi può essere
data per mezzo delle legittime consuetudini, non revocate dalla suprema e
universale potestà della Chiesa, o per mezzo delle leggi fatte dalla stessa
autorità o da essa riconosciute, oppure direttamente dallo stesso successore di
Pietro; se questi rifiuta o nega la comunione apostolica, i vescovi non possono
essere assunti all'ufficio.
La funzione d'insegnamento dei vescovi
25. Tra i principali doveri dei vescovi
eccelle la predicazione del Vangelo. I vescovi, infatti, sono gli araldi della
fede che portano a Cristo nuovi discepoli; sono dottori autentici, cioè
rivestiti dell'autorità di Cristo, che predicano al popolo loro affidato la
fede da credere e da applicare nella pratica della vita, la illustrano alla luce
dello Spirito Santo, traendo fuori dal tesoro della Rivelazione cose nuove e
vecchie (cfr. Mt 13,52), la fanno fruttificare e vegliano per tenere lontano dal
loro gregge gli errori che lo minacciano (cfr. 2 Tm 4,1-4) . I vescovi che
insegnano in comunione col romano Pontefice devono essere da tutti ascoltati con
venerazione quali testimoni della divina e cattolica verità; e i fedeli devono
accettare il giudizio dal loro vescovo dato a nome di Cristo in cose di fede e
morale, e dargli l'assenso religioso del loro spirito. Ma questo assenso
religioso della volontà e della intelligenza lo si deve in modo particolare
prestare al magistero autentico del romano Pontefice, anche quando non parla «
ex cathedra ». Ciò implica che il suo supremo magistero sia accettato con
riverenza, e che con sincerità si aderisca alle sue affermazioni in conformità
al pensiero e in conformità alla volontà di lui manifestatasi che si possono
dedurre in particolare dal carattere dei documenti, o dall'insistenza nel
proporre una certa dottrina, o dalla maniera di esprimersi.
Quantunque i vescovi, presi a uno a uno, non
godano della prerogativa dell'infallibilità, quando tuttavia, anche dispersi
per il mondo, ma conservando il vincolo della comunione tra di loro e col
successore di Pietro, si accordano per insegnare autenticamente che una dottrina
concernente la fede e i costumi si impone in maniera assoluta, allora esprimono
infallibilmente la dottrina di Cristo. La cosa è ancora più manifesta quando,
radunati in Concilio ecumenico, sono per tutta la Chiesa dottori e giudici della
fede e della morale; allora bisogna aderire alle loro definizioni con l'ossequio
della fede.
Questa infallibilità, della quale il divino
Redentore volle provveduta la sua Chiesa nel definire la dottrina della fede e
della morale, si estende tanto, quanto il deposito della divina Rivelazione, che
deve essere gelosamente custodito e fedelmente esposto. Di questa infallibilità
il romano Pontefice, capo del collegio dei vescovi, fruisce in virtù del suo
ufficio, quando, quale supremo pastore e dottore di tutti i fedeli che conferma
nella fede i suoi fratelli (cfr. Lc 22,32), sancisce con atto definitivo una
dottrina riguardante la fede e la morale. Perciò le sue definizioni giustamente
sono dette irreformabili per se stesse e non in virtù del consenso della
Chiesa, essendo esse pronunziate con l'assistenza dello Spirito Santo a lui
promessa nella persona di san Pietro, per cui non hanno bisogno di una
approvazione di altri, né ammettono appello alcuno ad altro giudizio. In
effetti allora il romano Pontefice pronunzia sentenza non come persona privata,
ma espone o difende la dottrina della fede cattolica quale supremo maestro della
Chiesa universale, singolarmente insignito del carisma dell'infallibilità della
Chiesa stessa. L'infallibilità promessa alla Chiesa risiede pure nel corpo
episcopale quando esercita il supremo magistero col successore di Pietro. A
queste definizioni non può mai mancare l'assenso della Chiesa, data l'azione
dello stesso Spirito Santo che conserva e fa progredire nell'unità della fede
tutto il gregge di Cristo.
Quando poi il romano Pontefice o il corpo dei
vescovi con lui esprimono una sentenza, la emettono secondo la stessa
Rivelazione, cui tutti devono attenersi e conformarsi, Rivelazione che è
integralmente trasmessa per scritto o per tradizione dalla legittima successione
dei vescovi e specialmente a cura dello stesso Pontefice romano, e viene nella
Chiesa gelosamente conservata e fedelmente esposta sotto la luce dello Spirito
di verità. Perché poi sia debitamente indagata ed enunziata in modo adatto, il
romano Pontefice e i vescovi nella coscienza del loro ufficio e della gravità
della cosa, prestano la loro vigile opera usando i mezzi convenienti però non
ricevono alcuna nuova rivelazione pubblica come appartenente al deposito divino
della fede.
La funzione di santificazione
26. Il vescovo, insignito della pienezza del
sacramento dell'ordine, è « l'economo della grazia del supremo sacerdozio»
specialmente nell'eucaristia, che offre egli stesso o fa offrire e della quale
la Chiesa continuamente vive e cresce. Questa Chiesa di Cristo è veramente
presente nelle legittime comunità locali di fedeli, le quali, unite ai loro
pastori, sono anch'esse chiamate Chiese nel Nuovo Testamento. Esse infatti sono,
ciascuna nel proprio territorio, il popolo nuovo chiamato da Dio nello Spirito
Santo e in una grande fiducia (cfr. 1 Ts 1,5). In esse con la predicazione del
Vangelo di Cristo vengono radunati i fedeli e si celebra il mistero della Cena
del Signore, « affinché per mezzo della carne e del sangue del Signore siano
strettamente uniti tutti i fratelli della comunità». In ogni comunità che
partecipa all'altare, sotto la sacra presidenza del vescovo viene offerto il
simbolo di quella carità e « unità del corpo mistico, senza la quale non può
esserci salvezza». In queste comunità, sebbene spesso piccole e povere e
disperse, è presente Cristo, per virtù del quale si costituisce la Chiesa una,
santa, cattolica e apostolica. Infatti « la partecipazione del corpo e del
sangue di Cristo altro non fa, se non che ci mutiamo in ciò che riceviamo ».
Ogni legittima celebrazione dell'eucaristia
è diretta dal vescovo, al quale è demandato il compito di prestare e regolare
il culto della religione cristiana alla divina Maestà, secondo i precetti del
Signore e le leggi della Chiesa, dal suo particolare giudizio ulteriormente
determinante per la propria diocesi. In questo modo i vescovi, con la preghiera
e il lavoro per il popolo, in varie forme effondono abbondantemente la pienezza
della santità di Cristo. Col ministero della parola comunicano la forza di Dio
per la salvezza dei credenti (cfr. Rm 1,16), e con i sacramenti, dei quali con
la loro autorità organizzano la regolare e fruttuosa distribuzione santificano
i fedeli. Regolano l'amministrazione del battesimo, col quale è concesso
partecipare al regale sacerdozio di Cristo. Sono i ministri originari della
confermazione, dispensatori degli ordini sacri e moderatori della disciplina
penitenziale, e con sollecitudine esortano e istruiscono le loro popolazioni,
affinché nella liturgia e specialmente nel santo sacrificio della messa
compiano la loro parte con fede e devozione. Devono, infine, coll'esempio della
loro vita aiutare quelli a cui presiedono, serbando i loro costumi immuni da
ogni male, e per quanto possono, con l'aiuto di Dio mutandoli in bene, onde
possano, insieme col gregge loro affidato, giungere alla vita eterna.
La funzione di governo
27. I vescovi reggono le Chiese particolari a
loro affidate come vicari e legati di Cristo, col consiglio, la persuasione,
l'esempio, ma anche con l'autorità e la sacra potestà, della quale però non
si servono se non per edificare il proprio gregge nella verità e nella santità,
ricordandosi che chi è più grande si deve fare come il più piccolo, e chi è
il capo, come chi serve (cfr. Lc 22,26-27). Questa potestà, che personalmente
esercitano in nome di Cristo, è propria, ordinaria e immediata, quantunque il
suo esercizio sia in ultima istanza sottoposto alla suprema autorità della
Chiesa e, entro certi limiti, in vista dell'utilità della Chiesa o dei fedeli,
possa essere ristretto. In virtù di questa potestà i vescovi hanno il sacro
diritto e davanti al Signore il dovere di dare leggi ai loro sudditi, di
giudicare e di regolare tutto quanto appartiene al culto e all'apostolato.
Ad essi è pienamente affidato l'ufficio
pastorale ossia l'abituale e quotidiana cura del loro gregge; né devono essere
considerati vicari dei romani Pontefici, perché sono rivestiti di autorità
propria e con tutta verità sono detti « sovrintendenti delle popolazioni »
che governano. La loro potestà quindi non è annullata dalla potestà suprema e
universale, ma anzi è da essa affermata, corroborata e rivendicata, poiché è
lo Spirito Santo che conserva invariata la forma di governo da Cristo Signore
stabilita nella sua Chiesa.
Il vescovo, mandato dal padre di famiglia a
governare la sua famiglia, tenga innanzi agli occhi l'esempio del buon Pastore,
che è venuto non per essere servito ma per servire (cfr. Mt 20,28; Mc 10,45) e
dare la sua vita per le pecore (cfr. Gv 10,11). Preso di mezzo agli uomini e
soggetto a debolezza, può benignamente compatire gli ignoranti o gli sviati
(cfr. Eb 5,1-2). Non rifugga dall'ascoltare quelli che dipendono da lui,
curandoli come veri figli suoi ed esortandoli a cooperare alacremente con lui.
Dovendo render conto a Dio delle loro anime (cfr. Eb 13,17), abbia cura di loro
con la preghiera, la predicazione e ogni opera di carità; la sua sollecitudine
si estenda anche a quelli che non fanno ancor parte dell'unico gregge e li
consideri come affidatigli dal Signore. Essendo egli, come l'apostolo Paolo,
debitore a tutti, sia pronto ad annunziare il Vangelo a tutti (cfr. Rrn 1,14-15)
e ad esortare i suoi fedeli all'attività apostolica e missionaria. I fedeli poi
devono aderire al vescovo come la Chiesa a Gesù Cristo e come Gesù Cristo al
Padre, affinché tutte le cose siano concordi e unite 61 e siano feconde per la
gloria di Dio (cfr. 2 Cor 4,15).
I sacerdoti e i loro rapporti con Cristo, con i vescovi,
con i confratelli e con il popolo cristiano
28. Cristo, santificato e mandato nel mondo
dal Padre (cfr. Gv 10,36), per mezzo degli apostoli ha reso partecipi della sua
consacrazione e della sua missione i loro successori, cioè i vescovi a loro
volta i vescovi hanno legittimamente affidato a vari membri della Chiesa, in
vario grado, l'ufficio del loro ministero. Così il ministero ecclesiastico di
istituzione divina viene esercitato in diversi ordini, da quelli che già
anticamente sono chiamati vescovi, presbiteri, diaconi. I presbiteri, pur non
possedendo l'apice del sacerdozio e dipendendo dai vescovi nell'esercizio della
loro potestà, sono tuttavia a loro congiunti nella dignità sacerdotale e in
virtù del sacramento dell'ordine ad immagine di Cristo, sommo ed eterno
sacerdote (cfr. Eb 5,1-10; 7,24; 9,11-28), sono consacrati per predicare il
Vangelo, essere i pastori fedeli e celebrare il culto divino, quali veri
sacerdoti del Nuovo Testamento. Partecipi, nel loro grado di ministero,
dell'ufficio dell'unico mediatore, che è il Cristo (cfr. 1 Tm 2,5) annunziano a
tutti la parola di Dio. Esercitano il loro sacro ministero soprattutto nel culto
eucaristico o sinassi, dove, agendo in persona di Cristo e proclamando il suo
mistero, uniscono le preghiere dei fedeli al sacrificio del loro capo e nel
sacrificio della messa rendono presente e applicano fino alla venuta del Signore
(cfr. 1 Cor 11,26), l'unico sacrificio del Nuovo Testamento, quello cioè di
Cristo, il quale una volta per tutte offrì se stesso al Padre quale vittima
immacolata (cfr. Eb 9,11-28). Esercitano inoltre il ministero della
riconciliazione e del conforto a favore dei fedeli penitenti o ammalati e
portano a Dio Padre le necessità e le preghiere dei fedeli (cfr. Eb 5,1-4).
Esercitando, secondo la loro parte di autorità, l'ufficio di Cristo, pastore e
capo, raccolgono la famiglia di Dio, quale insieme di fratelli animati da un
solo spirito, per mezzo di Cristo nello Spirito li portano al Padre e in mezzo
al loro gregge lo adorano in spirito e verità (cfr. Gv 4,24). Si affaticano
inoltre nella predicazione e nell'insegnamento (cfr. 1 Tm 5,17), credendo ciò
che hanno letto e meditato nella legge del Signore, insegnando ciò che credono,
vivendo ciò che insegnano.
I sacerdoti, saggi collaboratori dell'ordine
episcopale e suo aiuto e strumento, chiamati a servire il popolo di Dio,
costituiscono col loro vescovo un solo presbiterio sebbene destinato a uffici
diversi. Nelle singole comunità locali di fedeli rendono in certo modo presente
il vescovo, cui sono uniti con cuore confidente e generoso, ne assumono secondo
il loro grado, gli uffici e la sollecitudine e li esercitano con dedizione
quotidiana. Essi, sotto l'autorità del vescovo, santificano e governano la
porzione di gregge del Signore loro affidata, nella loro sede rendono visibile
la Chiesa universale e portano un grande contributo all'edificazione di tutto il
corpo mistico di Cristo (cfr. Ef 4,12). Sempre intenti al bene dei figli di Dio,
devono mettere il loro zelo nel contribuire al lavoro pastorale di tutta la
diocesi, anzi di tutta la Chiesa. In ragione di questa loro partecipazione nel
sacerdozio e nel lavoro apostolico del vescovo, i sacerdoti riconoscano in lui
il loro padre e gli obbediscano con rispettoso amore. Il vescovo, poi, consideri
i sacerdoti, i suoi cooperatori, come figli e amici così come il Cristo chiama
i suoi discepoli non servi, ma amici (cfr. Gv 15,15). Per ragione quindi
dell'ordine e del ministero, tutti i sacerdoti sia diocesani che religiosi, sono
associati al corpo episcopale e, secondo la loro vocazione e grazia, servono al
bene di tutta la Chiesa.
In virtù della comunità di ordinazione e
missione tutti i sacerdoti sono fra loro legati da un'intima fraternità, che
deve spontaneamente e volentieri manifestarsi nel mutuo aiuto, spirituale e
materiale, pastorale e personale, nelle riunioni e nella comunione di vita, di
lavoro e di carità.
Abbiano poi cura, come padri in Cristo, dei
fedeli che hanno spiritualmente generato col battesimo e l'insegnamento (cfr. 1
Cor 4,15; 1 Pt 1,23). Divenuti spontaneamente modelli del gregge (cfr. 1 Pt 5,3)
presiedano e servano la loro comunità locale, in modo che questa possa
degnamente esser chiamata col nome di cui è insignito l'unico popolo di Dio
nella sua totalità, cioè Chiesa di Dio (cfr. 1 Cor 1,2; 2 Cor 1,1). Si
ricordino che devono, con la loro quotidiana condotta e con la loro
sollecitudine, presentare ai fedeli e infedeli, cattolici e non cattolici,
l'immagine di un ministero veramente sacerdotale e pastorale, e rendere a tutti
la testimonianza della verità e della vita; e come buoni pastori ricercare
anche quelli (cfr. Lc 15,4-7) che, sebbene battezzati nella Chiesa cattolica,
hanno abbandonato la pratica dei sacramenti o persino la fede.
Siccome oggigiorno l'umanità va sempre più
organizzandosi in una unità civile, economica e sociale, tanto più bisogna che
i sacerdoti, consociando il loro zelo e il loro lavoro sotto la guida dei
vescovi e del sommo Pontefice, eliminino ogni causa di dispersione, affinché
tutto il genere umano sia ricondotto all'unità della famiglia di Dio.
I diaconi
29. In un grado inferiore della gerarchia
stanno i diaconi, ai quali sono imposte le mani « non per il sacerdozio, ma per
il servizio ». Infatti, sostenuti dalla grazia sacramentale, nella « diaconia
» della liturgia, della predicazione e della carità servono il popolo di Dio,
in comunione col vescovo e con il suo presbiterio. È ufficio del diacono,
secondo le disposizioni della competente autorità, amministrare solennemente il
battesimo, conservare e distribuire l'eucaristia, assistere e benedire il
matrimonio in nome della Chiesa, portare il viatico ai moribondi, leggere la
sacra Scrittura ai fedeli, istruire ed esortare il popolo, presiedere al culto e
alla preghiera dei fedeli, amministrare i sacramentali, presiedere al rito
funebre e alla sepoltura. Essendo dedicati agli uffici di carità e di
assistenza, i diaconi si ricordino del monito di S. Policarpo: « Essere
misericordiosi, attivi, camminare secondo la verità del Signore, il quale si è
fatto servo di tutti ».
E siccome questi uffici, sommamente necessari
alla vita della Chiesa, nella disciplina oggi vigente della Chiesa latina in
molte regioni difficilmente possono essere esercitati, il diaconato potrà in
futuro essere ristabilito come proprio e permanente grado della gerarchia.
Spetterà poi alla competenza dei raggruppamenti territoriali dei vescovi, nelle
loro diverse forme, di decidere, con l'approvazione dello stesso sommo
Pontefice, se e dove sia opportuno che tali diaconi siano istituiti per la cura
delle anime. Col consenso del romano Pontefice questo diaconato potrà essere
conferito a uomini di età matura anche viventi nel matrimonio, e così pure a
dei giovani idonei, per i quali però deve rimanere ferma la legge del celibato.
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CAPITOLO IV
I LAICI
I laici nella Chiesa
30. Il santo Concilio, dopo aver illustrati
gli uffici della gerarchia, con piacere rivolge il pensiero allo stato di quei
fedeli che si chiamano laici. Sebbene quanto fu detto del popolo di Dio sia
ugualmente diretto ai laici, ai religiosi e al clero, ai laici tuttavia, sia
uomini che donne, per la loro condizione e missione, appartengono in particolare
alcune cose, i fondamenti delle quali, a motivo delle speciali circostanze del
nostro tempo, devono essere più accuratamente ponderati. I sacri pastori,
infatti, sanno benissimo quanto i laici contribuiscano al bene di tutta la
Chiesa. Sanno di non essere stati istituiti da Cristo per assumersi da soli
tutto il peso della missione salvifica della Chiesa verso il mondo, ma che il
loro eccelso ufficio consiste nel comprendere la loro missione di pastori nei
confronti dei fedeli e nel riconoscere i ministeri e i carismi propri a questi,
in maniera tale che tutti concordemente cooperino, nella loro misura, al bene
comune. Bisogna infatti che tutti « mediante la pratica di una carità sincera,
cresciamo in ogni modo verso colui che è il capo, Cristo; da lui tutto il
corpo, ben connesso e solidamente collegato, attraverso tutte le giunture di
comunicazione, secondo l'attività proporzionata a ciascun membro, opera il suo
accrescimento e si va edificando nella carità» (Ef 4,15-16).
Natura e missione dei laici
31. Col nome di laici si intende qui
l'insieme dei cristiani ad esclusione dei membri dell'ordine sacro e dello stato
religioso sancito nella Chiesa, i fedeli cioè, che, dopo essere stati
incorporati a Cristo col battesimo e costituiti popolo di Dio e, nella loro
misura, resi partecipi dell'ufficio sacerdotale, profetico e regale di Cristo,
per la loro parte compiono, nella Chiesa e nel mondo, la missione propria di
tutto il popolo cristiano.
Il carattere secolare è proprio e peculiare
dei laici. Infatti, i membri dell'ordine sacro, sebbene talora possano essere
impegnati nelle cose del secolo, anche esercitando una professione secolare,
tuttavia per la loro speciale vocazione sono destinati principalmente e
propriamente al sacro ministero, mentre i religiosi col loro stato testimoniano
in modo splendido ed esimio che il mondo non può essere trasfigurato e offerto
a Dio senza lo spirito delle beatitudini. Per loro vocazione è proprio dei
laici cercare il regno di Dio trattando le cose temporali e ordinandole secondo
Dio. Vivono nel secolo, cioè implicati in tutti i diversi doveri e lavori del
mondo e nelle ordinarie condizioni della vita familiare e sociale, di cui la
loro esistenza è come intessuta. Ivi sono da Dio chiamati a contribuire, quasi
dall'interno a modo di fermento, alla santificazione del mondo esercitando il
proprio ufficio sotto la guida dello spirito evangelico, e in questo modo a
manifestare Cristo agli altri principalmente con la testimonianza della loro
stessa vita e col fulgore della loro fede, della loro speranza e carità. A loro
quindi particolarmente spetta di illuminare e ordinare tutte le cose temporali,
alle quali sono strettamente legati, in modo che siano fatte e crescano
costantemente secondo il Cristo e siano di lode al Creatore e Redentore.
Dignità dei laici nel popolo di Dio
32. La santa Chiesa è, per divina
istituzione, organizzata e diretta con mirabile varietà. «A quel modo,
infatti, che in uno- stesso corpo abbiamo molte membra, e le membra non hanno
tutte le stessa funzione, così tutti insieme formiamo un solo corpo in Cristo,
e individualmente siano membri gli uni degli altri » (Rm 12,4-5).
Non c'è quindi che un popolo di Dio scelto
da lui: « un solo Signore, una sola fede, un solo battesimo » (Ef 4,5); comune
è la dignità dei membri per la loro rigenerazione in Cristo, comune la grazia
di adozione filiale, comune la vocazione alla perfezione; non c'è che una sola
salvezza, una sola speranza e una carità senza divisioni. Nessuna ineguaglianza
quindi in Cristo e nella Chiesa per riguardo alla stirpe o nazione, alla
condizione sociale o al sesso, poiché « non c'è né Giudeo né Gentile, non
c'è né schiavo né libero, non c'è né uomo né donna: tutti voi siete uno in
Cristo Gesù» (Gal 3,28 gr.; cfr. Col 3,11).
Se quindi nella Chiesa non tutti camminano
per la stessa via, tutti però sono chiamati alla santità e hanno ricevuto a
titolo uguale la fede che introduce nella giustizia di Dio (cfr. 2 Pt 1,1).
Quantunque alcuni per volontà di Cristo siano costituiti dottori, dispensatori
dei misteri e pastori per gli altri, tuttavia vige fra tutti una vera
uguaglianza riguardo alla dignità e all'azione comune a tutti i fedeli
nell'edificare il corpo di Cristo. La distinzione infatti posta dal Signore tra
i sacri ministri e il resto del popolo di Dio comporta in sé unione, essendo i
pastori e gli altri fedeli legati tra di loro da una comunità di rapporto: che
i pastori della Chiesa sull'esempio di Cristo sono a servizio gli uni degli
altri e a servizio degli altri fedeli, e questi a loro volta prestano
volenterosi la loro collaborazione ai pastori e ai maestri. Così, nella
diversità stessa, tutti danno testimonianza della mirabile unità nel corpo di
Cristo: poiché la stessa diversità di grazie, di ministeri e di operazioni
raccoglie in un tutto i figli di Dio, dato che « tutte queste cose opera... un
unico e medesimo Spirito» (1 Cor 12,11).
I laici quindi, come per benevolenza divina
hanno per fratello Cristo, il quale, pur essendo Signore di tutte le cose, non
è venuto per essere servito, ma per servire (cfr. Mt 20,28), così anche hanno
per fratelli coloro che, posti nel sacro ministero, insegnando e santificando e
reggendo per autorità di Cristo, svolgono presso la famiglia di Dio l'ufficio
di pastori, in modo che sia da tutti adempito il nuovo precetto della carità. A
questo proposito dice molto bene sant'Agostino: « Se mi spaventa l'essere per
voi, mi rassicura l'essere con voi. Perché per voi sono vescovo, con voi sono
cristiano. Quello è nome di ufficio, questo di grazia; quello è nome di
pericolo, questo di salvezza ».
L'apostolato dei laici
33. I laici, radunati nel popolo di Dio e
costituiti nell'unico corpo di Cristo sotto un solo capo, sono chiamati chiunque
essi siano, a contribuire come membra vive, con tutte le forze ricevute dalla
bontà del Creatore e dalla grazia del Redentore, all'incremento della Chiesa e
alla sua santificazione permanente.
L'apostolato dei laici è quindi
partecipazione alla missione salvifica stessa della Chiesa; a questo apostolato
sono tutti destinati dal Signore stesso per mezzo del battesimo e della
confermazione. Dai sacramenti poi, e specialmente dalla sacra eucaristia, viene
comunicata e alimentata quella carità verso Dio e gli uomini che è l'anima di
tutto l'apostolato. Ma i laici sono soprattutto chiamati a rendere presente e
operosa la Chiesa in quei luoghi e in quelle circostanze, in cui essa non può
diventare sale della terra se non per loro mezzo. Così ogni laico, in virtù
dei doni che gli sono stati fatti, è testimonio e insieme vivo strumento della
stessa missione della Chiesa « secondo la misura del dono del Cristo » (Ef
4,7).
Oltre a questo apostolato, che spetta a tutti
i fedeli senza eccezione, i laici possono anche essere chiamati in diversi modi
a collaborare più immediatamente con l'apostolato della gerarchia a somiglianza
di quegli uomini e donne che aiutavano l'apostolo Paolo nell'evangelizzazione,
faticando molto per il Signore (cfr. Fil 4,3; Rm 16,3 ss). Hanno inoltre la
capacità per essere assunti dalla gerarchia ad esercitare, per un fine
spirituale, alcuni uffici ecclesiastici.
Grava quindi su tutti i laici il glorioso
peso di lavorare, perché il disegno divino di salvezza raggiunga ogni giorno più
tutti gli uomini di tutti i tempi e di tutta la terra. Sia perciò loro aperta
qualunque via affinché, secondo le loro forze e le necessità dei tempi,
anch'essi attivamente partecipino all'opera salvifica della Chiesa.
Partecipazione dei laici al sacerdozio comune
34. Il sommo ed eterno sacerdote Gesù
Cristo, volendo continuare la sua testimonianza e il suo ministero anche
attraverso i laici, li vivifica col suo Spirito e incessantemente li spinge ad
ogni opera buona e perfetta.
A coloro infatti che intimamente congiunge
alla sua vita e alla sua missione, concede anche di aver parte al suo ufficio
sacerdotale per esercitare un culto spirituale, in vista della glorificazione di
Dio e della salvezza degli uomini. Perciò i laici, essendo dedicati a Cristo e
consacrati dallo Spirito Santo, sono in modo mirabile chiamati e istruiti per
produrre frutti dello Spirito sempre più abbondanti. Tutte infatti le loro
attività, preghiere e iniziative apostoliche, la vita coniugale e familiare, il
lavoro giornaliero, il sollievo spirituale e corporale, se sono compiute nello
Spirito, e anche le molestie della vita, se sono sopportate con pazienza,
diventano offerte spirituali gradite a Dio attraverso Gesù Cristo (cfr. 1 Pt
2,5); nella celebrazione dell'eucaristia sono in tutta pietà presentate al
Padre insieme all'oblazione del Corpo del Signore. Così anche i laici, in
quanto adoratori dovunque santamente operanti, consacrano a Dio il mondo stesso.
Partecipazione dei laici alla funzione profetica del
Cristo
35. Cristo, il grande profeta, il quale con
la testimonianza della sua vita e con la potenza della sua parola ha proclamato
il regno del Padre, adempie il suo ufficio profetico fino alla piena
manifestazione della gloria, non solo per mezzo della gerarchia, che insegna in
nome e con la potestà di lui, ma anche per mezzo dei laici, che perciò
costituisce suoi testimoni provvedendoli del senso della fede e della grazia
della parola (cfr. At 2,17-18; Ap 19,10), perché la forza del Vangelo risplenda
nella vita quotidiana, familiare e sociale. Essi si mostrano figli della
promessa quando, forti nella fede e nella speranza, mettono a profitto il tempo
presente (cfr. Ef 5,16; Col 4,5) e con pazienza aspettano la gloria futura (cfr.
Rm 8,25). E questa speranza non devono nasconderla nel segreto del loro cuore,
ma con una continua conversione e lotta «contro i dominatori di questo mondo
tenebroso e contro gli spiriti maligni» (Ef 6,12), devono esprimerla anche
attraverso le strutture della vita secolare.
Come i sacramenti della nuova legge, alimento
della vita e dell'apostolato dei fedeli, prefigurano un cielo nuovo e una nuova
terra (cfr. Ap 21,1), così i laici diventano araldi efficaci della fede in ciò
che si spera (cfr. Eb 11,1), se senza incertezze congiungono a una vita di fede
la professione di questa stessa fede. Questa evangelizzazione o annunzio di
Cristo fatto con la testimonianza della vita e con la parola acquista una certa
nota specifica e una particolare efficacia dal fatto che viene compiuta nelle
comuni condizioni del secolo.
In questo ordine di funzioni appare di grande
valore quello stato di vita che è santificato da uno speciale sacramento: la
vita matrimoniale e familiare. L'esercizio e scuola per eccellenza di apostolato
dei laici si ha là dove la religione cristiana permea tutta l'organizzazione
della vita e ogni giorno più la trasforma. Là i coniugi hanno la propria
vocazione: essere l'uno all'altro e ai figli testimoni della fede e dell'amore
di Cristo. La famiglia cristiana proclama ad alta voce allo stesso tempo le virtù
presenti del regno di Dio e la speranza della vita beata. Così, col suo esempio
e con la sua testimonianza, accusa il mondo di peccato e illumina quelli che
cercano la verità.
I laici quindi, anche quando sono occupati in
cure temporali, possono e devono esercitare una preziosa azione per
l'evangelizzazione del mondo. Alcuni di loro, in mancanza di sacri ministri o
essendo questi impediti in regime di persecuzione, suppliscono alcuni uffici
sacri secondo le proprie possibilità; altri, più numerosi, spendono tutte le
loro forze nel lavoro apostolico: bisogna tuttavia che tutti cooperino all
estensione e al progresso del regno di Cristo nel mondo. Perciò i laici si
applichino con diligenza all approfondimento della verità rivelata e domandino
insistentemente a Dio il dono della sapienza.
Partecipazione dei laici al servizio regale
36. Cristo, fattosi obbediente fino alla
morte e perciò esaltato dal Padre (cfr. Fil 2,8-9), è entrato nella gloria del
suo regno; a lui sono sottomesse tutte le cose, fino a che egli sottometta al
Padre se stesso e tutte le creature, affinché Dio sia tutto in tutti (cfr. 1
Cor 15,27-28). Questa potestà egli l'ha comunicata ai discepoli, perché
anch'essi siano costituiti nella libertà regale e con l'abnegazione di sé e la
vita santa vincano in se stessi il regno del peccato anzi, servendo il Cristo
anche negli altri, con umiltà e pazienza conducano i loro fratelli al Re,
servire i1 quale è regnare. Il Signore infatti desidera estendere il suo regno
anche per mezzo dei fedeli laici: i1 suo regno che è regno « di verità e di
vita, regno di santità e di grazia, regno di giustizia, di amore e di pace » e
in questo regno anche le stesse creature saranno liberate dalla schiavitù della
corruzione per partecipare alla gloriosa libertà dei figli di Dio (cfr. Rm
8,21). Grande veramente è la promessa, grande il comandamento dato ai
discepoli: « Tutto è vostro, ma voi siete di Cristo, e Cristo è di Dio » (1
Cor 3,23).
I fedeli perciò devono riconoscere la natura
profonda di tutta la creazione, il suo valore e la sua ordinazione alla lode di
Dio, e aiutarsi a vicenda a una vita più santa anche con opere propriamente
secolari, affinché il mondo si impregni dello spirito di Cristo e raggiunga più
efficacemente il suo fine nella giustizia, nella carità e nella pace. Nel
compimento universale di questo ufficio, i laici hanno il posto di primo piano.
Con la loro competenza quindi nelle discipline profane e con la loro attività,
elevata intrinsecamente dalla grazia di Cristo, portino efficacemente l'opera
loro, affinché i beni creati, secondo i fini del Creatore e la luce del suo
Verbo, siano fatti progredire dal lavoro umano, dalla tecnica e dalla cultura
civile per l'utilità di tutti gli uomini senza eccezione, e siano tra loro più
convenientemente distribuiti e, secondo la loro natura, portino al progresso
universale nella libertà umana e cristiana. Così Cristo per mezzo dei membri
della Chiesa illuminerà sempre di più l'intera società umana con la sua luce
che salva.
Inoltre i laici, anche consociando le forze,
risanino le istituzioni e le condizioni del mondo, se ve ne siano che provocano
al peccato, così che tutte siano rese conformi alle norme della giustizia e,
anziché ostacolare, favoriscano l'esercizio delle virtù. Così agendo
impregneranno di valore morale la cultura e le opere umane. In questo modo il
campo del mondo si trova meglio preparato per accogliere il seme della parola
divina, e insieme le porte della Chiesa si aprono più larghe, per permettere
che l'annunzio della pace entri nel mondo.
Per l'economia stessa della salvezza imparino
i fedeli a ben distinguere tra i diritti e i doveri, che loro incombono in
quanto membri della Chiesa, e quelli che competono loro in quanto membri della
società umana. cerchino di metterli in armonia fra loro, ricordandosi che in
ogni cosa temporale devono essere guidati dalla coscienza cristiana, poiché
nessuna attività umana, neanche nelle cose temporali, può essere sottratta al
comando di Dio. Nel nostro tempo è sommamente necessario che questa distinzione
e questa armonia risplendano nel modo più chiaro possibile nella maniera di
agire dei fedeli, affinché la missione della Chiesa possa più pienamente
rispondere alle particolari condizioni del mondo moderno. Come infatti si deve
riconoscere che la città terrena, legittimamente dedicata alle cure secolari,
è retta da propri principi, così a ragione è rigettata 1 infausta dottrina
che pretende di costruire la società senza alcuna considerazione per la
religione e impugna ed elimina la libertà religiosa dei cittadini.
I laici e la gerarchia
37. I laici, come tutti i fedeli, hanno il
diritto di ricevere abbondantemente dai sacri pastori i beni spirituali della
Chiesa, soprattutto gli aiuti della parola di Dio e dei sacramenti; ad essi
quindi manifestino le loro necessità e i loro desideri con quella libertà e
fiducia che si addice ai figli di Dio e ai fratelli in Cristo. Secondo la
scienza, competenza e prestigio di cui godono, hanno la facoltà, anzi talora
anche il dovere, di far conoscere il loro parere su cose concernenti il bene
della Chiesa. Se occorre, lo facciano attraverso gli organi stabiliti a questo
scopo dalla Chiesa, e sempre con verità, fortezza e prudenza, con rispetto e
carità verso coloro che, per ragione del loro sacro ufficio, rappresentano
Cristo. I laici, come tutti i fedeli, con cristiana obbedienza prontamente
abbraccino ciò che i pastori, quali rappresentanti di Cristo, stabiliscono in
nome del loro magistero e della loro autorità nella Chiesa, seguendo in ciò
l'esempio di Cristo, il quale con la sua obbedienza fino alla morte ha aperto a
tutti gli uomini la via beata della libertà dei figli di Dio. Né tralascino di
raccomandare a Dio con le preghiere i loro superiori, affinché, dovendo questi
vegliare sopra le nostre anime come persone che ne dovranno rendere conto, lo
facciano con gioia e non gemendo (cfr. Eb 13,17).
I pastori, da parte loro, riconoscano e
promuovano la dignità e la responsabilità dei laici nella Chiesa; si servano
volentieri del loro prudente consiglio, con fiducia affidino loro degli uffici
in servizio della Chiesa e lascino loro libertà e margine di azione, anzi li
incoraggino perché intraprendano delle opere anche di propria iniziativa.
Considerino attentamente e con paterno affetto in Cristo le iniziative, le
richieste e i desideri proposti dai laici e, infine, rispettino e riconoscano
quella giusta libertà, che a tutti compete nella città terrestre.
Da questi familiari rapporti tra i laici e i
pastori si devono attendere molti vantaggi per la Chiesa: in questo modo infatti
si afferma nei laici il senso della propria responsabilità, ne è favorito lo
slancio e le loro forze più facilmente vengono associate all'opera dei pastori.
E questi, aiutati dall'esperienza dei laici, possono giudicare con più
chiarezza e opportunità sia in cose spirituali che temporali; e così tutta la
Chiesa, forte di tutti i suoi membri, compie con maggiore efficacia la sua
missione per la vita del mondo.
Conclusione
38. Ogni laico deve essere davanti al mondo
un testimone della risurrezione e della vita del Signore Gesù e un segno del
Dio vivo. Tutti insieme, e ognuno per la sua parte, devono nutrire il mondo con
i frutti spirituali (cfr. Gal 5,22) e in esso diffondere lo spirito che anima i
poveri, miti e pacifici, che il Signore nel Vangelo proclamò beati (cfr. Mt
5,3-9). In una parola: « ciò che l'anima è nel corpo, questo siano i
cristiani nel mondo ».
CAPITOLO V
UNIVERSALE VOCAZIONE ALLA SANTITÀ NELLA CHIESA
La santità nella Chiesa
39. La Chiesa, il cui mistero è esposto dal
sacro Concilio, è agli occhi della fede indefettibilmente santa. Infatti
Cristo, Figlio di Dio, il quale col Padre e lo Spirito è proclamato « il solo
Santo », amò la Chiesa come sua sposa e diede se stesso per essa, al fine di
santificarla (cfr. Ef 5,25-26), l'ha unita a sé come suo corpo e l'ha riempita
col dono dello Spirito Santo, per la gloria di Dio. Perciò tutti nella Chiesa,
sia che appartengano alla gerarchia, sia che siano retti da essa, sono chiamati
alla santità, secondo le parole dell'Apostolo: « Sì, ciò che Dio vuole è la
vostra santificazione » (1 Ts 4,3; cfr. Ef 1,4). Orbene, questa santità della
Chiesa costantemente si manifesta e si deve manifestare nei frutti della grazia
che lo Spirito produce nei fedeli; si esprime in varie forme in ciascuno di
quelli che tendono alla carità perfetta nella linea propria di vita ed
edificano gli altri; e in un modo tutto suo proprio si manifesta nella pratica
dei consigli che si sogliono chiamare evangelici. Questa pratica dei consigli,
abbracciata da molti cristiani per impulso dello Spirito Santo, sia a titolo
privato, sia in una condizione o stato sanciti nella Chiesa, porta e deve
portare nel mondo una luminosa testimonianza e un esempio di questa santità.
Vocazione universale alla santità
40. Il Signore Gesù, maestro e modello
divino di ogni perfezione, a tutti e a ciascuno dei suoi discepoli di qualsiasi
condizione ha predicato quella santità di vita, di cui egli stesso è autore e
perfezionatore: «Siate dunque perfetti come è perfetto il vostro Padre celeste»
(Mt 5,48). Mandò infatti a tutti lo Spirito Santo, che li muova internamente ad
amare Dio con tutto il cuore, con tutta l'anima, con tutta la mente, con tutte
le forze (cfr Mc 12,30), e ad amarsi a vicenda come Cristo ha amato loro (cfr.
Gv 13,34; 15,12). I seguaci di Cristo, chiamati da Dio, non a titolo delle loro
opere, ma a titolo del suo disegno e della grazia, giustificati in Gesù nostro
Signore, nel battesimo della fede sono stati fatti veramente figli di Dio e
compartecipi della natura divina, e perciò realmente santi. Essi quindi devono,
con l'aiuto di Dio, mantenere e perfezionare con la loro vita la santità che
hanno ricevuto. Li ammonisce l'Apostolo che vivano « come si conviene a santi
» (Ef 5,3), si rivestano «come si conviene a eletti di Dio, santi e
prediletti, di sentimenti di misericordia, di bontà, di umiltà, di dolcezza e
di pazienza » (Col 3,12) e portino i frutti dello Spirito per la loro
santificazione (cfr. Gal 5,22; Rm 6,22). E poiché tutti commettiamo molti
sbagli (cfr. Gc 3,2), abbiamo continuamente bisogno della misericordia di Dio e
dobbiamo ogni giorno pregare: « Rimetti a noi i nostri debiti » (Mt 6,12).
È dunque evidente per tutti, che tutti
coloro che credono nel Cristo di qualsiasi stato o rango, sono chiamati alla
pienezza della vita cristiana e alla perfezione della carità e che tale santità
promuove nella stessa società terrena un tenore di vita più umano. Per
raggiungere questa perfezione i fedeli usino le forze ricevute secondo la misura
con cui Cristo volle donarle, affinché, seguendo l'esempio di lui e diventati
conformi alla sua immagine, in tutto obbedienti alla volontà del Padre, con
piena generosità si consacrino alla gloria di Dio e al servizio del prossimo.
Così la santità del popolo di Dio crescerà in frutti abbondanti, come è
splendidamente dimostrato nella storia della Chiesa dalla vita di tanti santi.
Esercizio multiforme della santità
41. Nei vari generi di vita e nei vari
compiti una unica santità è coltivata da quanti sono mossi dallo Spirito di
Dio e, obbedienti alla voce del Padre e adorando in spirito e verità Dio Padre,
camminano al seguito del Cristo povero, umile e carico della croce, per meritare
di essere partecipi della sua gloria. Ognuno secondo i propri doni e uffici deve
senza indugi avanzare per la via della fede viva, la quale accende la speranza e
opera per mezzo della carità. In primo luogo i pastori del gregge di Cristo
devono, a immagine del sommo ed eterno sacerdote, pastore e vescovo delle anime
nostre, compiere con santità e slancio, umiltà e forza il proprio ministero:
esso, così adempiuto, sarà anche per loro un eccellente mezzo di
santificazione. Chiamati per ricevere la pienezza del sacerdozio, è loro data
la grazia sacramentale affinché, mediante la preghiera, il sacrificio e la
predicazione, mediante ogni forma di cura e di servizio episcopale, esercitino
un perfetto ufficio di carità pastorale non temano di dare la propria vita per
le pecorelle e, fattisi modello del gregge (cfr. 1 Pt 5,3), aiutino infine con
l'esempio la Chiesa ad avanzare verso una santità ogni giorno più grande.
I sacerdoti, a somiglianza dell'ordine dei
vescovi, dei quali formano la corona spirituale partecipando alla grazia
dell'ufficio di quelli per mezzo di Cristo, eterno ed unico mediatore, mediante
il quotidiano esercizio del proprio ufficio crescano nell'amore di Dio e del
prossimo, conservino il vincolo della comunione sacerdotale, abbondino in ogni
bene spirituale e diano a tutti la viva testimonianza di Dio emuli di quei
sacerdoti che nel corso dei secoli, in un servizio spesso umile e nascosto,
hanno lasciato uno splendido esempio di santità. La loro lode risuona nella
Chiesa di Dio. Pregando e offrendo il sacrificio, com'è loro dovere, per il
loro popolo e per tutto il popolo di Dio, cosciente di ciò che fanno e
confermandosi ai misteri che compiono anziché essere ostacolati dalle cure
apostoliche, dai pericoli e dalle tribolazioni, ascendano piuttosto per mezzo dì
esse ad una maggiore santità, nutrendo e dando slancio con l'abbondanza della
contemplazione alla propria attività, per il conforto di tutta la Chiesa di
Dio. Tutti i sacerdoti e specialmente quelli che, a titolo particolare della
loro ordinazione, portano il nome di sacerdoti diocesani, ricordino quanto
contribuiscano alla loro santificazione la fedele unione e la generosa
cooperazione col loro vescovo.
Alla missione e alla grazia del supremo
Sacerdote partecipano in modo proprio anche i ministri di ordine inferiore; e
prima di tutto i diaconi, i quali, servendo i misteri di Dio e della Chiesa
devono mantenersi puri da ogni vizio, piacere a Dio e studiarsi di fare ogni
genere di opere buone davanti agli uomini (cfr. 1 Tm 3,8-10; e 12-13). I
chierici che, chiamati dal Signore e separati per aver parte con lui, sotto la
vigilanza dei pastori si preparano alle funzioni di sacri ministri, sono tenuti
a conformare le loro menti e i loro cuori a una così eccelsa vocazione; assidui
nell'orazione, ferventi nella carità, intenti a quanto è vero, giusto e
onorevole, facendo tutto per la gloria e l'onore di Dio. A questi bisogna
aggiungere quei laici scelti da Dio, i quali sono chiamati dal vescovo, perché
si diano più completamente alle opere apostoliche, e nel campo del Signore
lavorano con molto frutto.
I coniugi e i genitori cristiani, seguendo la
loro propria via, devono sostenersi a vicenda nella fedeltà dell'amore con
l'aiuto della grazia per tutta la vita, e istruire nella dottrina cristiana e
nelle virtù evangeliche la prole, che hanno amorosamente accettata da Dio. Così
infatti offrono a tutti l'esempio di un amore instancabile e generoso,
edificando la carità fraterna e diventano testimoni e cooperatori della
fecondità della madre Chiesa, in segno e partecipazione di quell'amore, col
quale Cristo amò la sua sposa e si è dato per lei. Un simile esempio è
offerto in altro modo dalle persone vedove e celibatarie, le quali pure possono
contribuire non poco alla santità e alla operosità della Chiesa. Quelli poi
che sono dediti a lavori spesso faticosi, devono con le opere umane perfezionare
se stessi, aiutare i concittadini e far progredire tutta la società e la
creazione verso uno stato migliore; devono infine, con carità operosa, imitare
Cristo, le cui mani si esercitarono in lavori manuali e il quale sempre opera
col Padre alla salvezza di tutti, in ciò animati da una gioiosa speranza,
aiutandosi gli uni gli altri a portare i propri fardelli, ascendendo mediante il
lavoro quotidiano a una santità sempre più alta, santità che sarà anche
apostolica.
Sappiano che sono pure uniti in modo speciale
a Cristo sofferente per la salute del mondo quelli che sono oppressi dalla
povertà, dalla infermità, dalla malattia e dalle varie tribolazioni, o
soffrono persecuzioni per la giustizia: il Signore nel Vangelo li ha proclamati
beati, e « il Dio... di ogni grazia, che ci ha chiamati all'eterna sua gloria
in Cristo Gesù, dopo un po' di patire, li condurrà egli stesso a perfezione e
li renderà stabili e sicuri» (1 Pt 5,10).
Tutti quelli che credono in Cristo saranno
quindi ogni giorno più santificati nelle condizioni, nei doveri o circostanze
che sono quelle della loro vita, e per mezzo di tutte queste cose, se le
ricevono con fede dalla mano del Padre celeste e cooperano con la volontà
divina, manifestando a tutti, nello stesso servizio temporale, la carità con la
quale Dio ha amato il mondo.
Vie e mezzi di santità
42. « Dio è amore e chi rimane nell'amore,
rimane in Dio e Dio in lui » (1 Gv 4,16). Dio ha diffuso il suo amore nei
nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo, che ci fu dato (cfr. Rm 5,5); perciò
il dono primo e più necessario è la carità, con la quale amiamo Dio sopra
ogni cosa e il prossimo per amore di lui. Ma perché la carità, come buon seme,
cresca e nidifichi, ogni fedele deve ascoltare volentieri la parola di Dio e con
l'aiuto della sua grazia compiere con le opere la sua volontà, partecipare
frequentemente ai sacramenti, soprattutto all'eucaristia, e alle azioni
liturgiche; applicarsi costantemente alla preghiera, all'abnegazione di se
stesso, all'attivo servizio dei fratelli e all'esercizio di tutte le virtù. La
carità infatti, quale vincolo della perfezione e compimento della legge (cfr.
Col 3,14; Rm 13,10), regola tutti i mezzi di santificazione, dà loro forma e li
conduce al loro fine. Perciò il vero discepolo di Cristo è contrassegnato
dalla carità verso Dio e verso il prossimo.
Avendo Gesù, Figlio di Dio, manifestato la
sua carità dando per noi la vita, nessuno ha più grande amore di colui che dà
la vita per lui e per i fratelli (cfr. 1 Gv 3,16; Gv 15,13). Già fin dai primi
tempi quindi, alcuni cristiani sono stati chiamati, e altri lo saranno sempre, a
rendere questa massima testimonianza d'amore davanti agli uomini, e specialmente
davanti ai persecutori. Perciò il martirio, col quale il discepolo è reso
simile al suo maestro che liberamente accetta la morte per la salute del mondo,
e col quale diventa simile a lui nella effusione del sangue, è stimato dalla
Chiesa come dono insigne e suprema prova di carità. Ché se a pochi è
concesso, tutti però devono essere pronti a confessare Cristo davanti agli
uomini e a seguirlo sulla via della croce durante le persecuzioni, che non
mancano mai alla Chiesa.
Parimenti la santità della Chiesa è
favorita in modo speciale dai molteplici consigli che il Signore nel Vangelo
propone all'osservanza dei suoi discepoli. Tra essi eccelle il prezioso dono
della grazia divina, dato dal Padre ad alcuni (cfr, Mt 19,11; 1 Cor 7,7), di
consacrarsi, più facilmente e senza divisione del cuore (cfr. 1 Cor 7,7), a Dio
solo nella verginità o nel celibato. Questa perfetta continenza per il regno
dei cieli è sempre stata tenuta in singolare onore dalla Chiesa, quale segno e
stimolo della carità e speciale sorgente di fecondità spirituale nel mondo.
La Chiesa ripensa anche al monito
dell'Apostolo, il quale incitando i fede]i alla carità, ]i esorta ad avere in sé
gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù, il quale « spogliò se
stesso, prendendo la natura di un servo... facendosi obbediente fino alla morte
» (Fil 2,7-8), e per noi «da ricco che era si fece povero » (2 Cor 8,9).
L'imitazione e la testimonianza di questa carità e umiltà del Cristo si
impongono ai discepoli in permanenza; per questo la Chiesa, nostra madre, si
rallegra di trovare nel suo seno molti uomini e donne che seguono più da vicino
questo annientamento del Salvatore e più chiaramente lo mostrano, abbracciando,
nella libertà dei figli di Dio, la povertà e rinunziando alla propria volontà:
essi cioè per amore di Dio, in ciò che riguarda la perfezione, si sottomettono
a una creatura umana al di là della stretta misura del precetto, al fine di
conformarsi più pienamente a Cristo obbediente.
Tutti i fedeli del Cristo quindi sono
invitati e tenuti a perseguire la santità e la perfezione del proprio stato.
Perciò tutti si sforzino di dirigere rettamente i propri affetti, affinché
dall'uso delle cose di questo mondo e da un attaccamento alle ricchezze
contrario allo spirito della povertà evangelica non siano impediti di tendere
alla carità perfetta; ammonisce infatti l'Apostolo: Quelli che usano di questo
mondo, non vi ci si arrestino, perché passa la scena di questo mondo (cfr. 1
Cor 7,31 gr.).
CAPITOLO VI
I RELIGIOSI
I consigli evangelici nella Chiesa
43. I consigli evangelici della castità
consacrata a Dio, della povertà e dell'obbedienza, essendo fondati sulle parole
e sugli esempi del Signore e raccomandati dagli apostoli, dai Padri e dai
dottori e pastori della Chiesa, sono un dono divino che la Chiesa ha ricevuto
dal suo Signore e con la sua grazia sempre conserva. La stessa autorità della
Chiesa, sotto la guida dello Spirito Santo, si è data cura di interpretarli, di
regolarne la pratica e anche di stabilire sulla loro base delle forme stabili di
vita. Avvenne quindi che, come un albero che si ramifica in modi mirabili e
molteplici nel campo del Signore a partire da un germe seminato da Dio, si
sviluppassero varie forme di vita solitaria o comune e varie famiglie, il cui
capitale spirituale contribuisce al bene sia dei membri di quelle famiglie, sia
di tutto il corpo di Cristo. Quelle famiglie infatti forniscono ai loro membri
gli aiuti di una maggiore stabilità nella loro forma di vita, di una dottrina
provata per il conseguimento della perfezione, della comunione fraterna nella
milizia di Cristo, di una libertà corroborata dall'obbedienza, così che
possano adempiere con sicurezza e custodire con fedeltà la loro professione
religiosa, avanzando nella gioia spirituale sul cammino della carità.
Un simile stato, se si riguardi
la divina e gerarchica costituzione della Chiesa, non è intermedio tra la
condizione clericale e laicale, ma da entrambe le parti alcuni fedeli sono
chiamati da Dio a fruire di questo speciale dono nella vita della Chiesa e ad
aiutare, ciascuno a suo modo, la sua missione salvifica.
Natura e importanza dello stato religioso
44. Con i voti o altri impegni sacri simili
ai voti secondo il modo loro proprio, il fedele si obbliga all'osservanza dei
tre predetti consigli evangelici; egli si dona totalmente a Dio amato al di
sopra di tutto, così da essere con nuovo e speciale titolo destinato al
servizio e all'onore di Dio. Già col battesimo è morto al peccato e consacrato
a Dio; ma per poter raccogliere in più grande abbondanza i frutti della grazia
battesimale, con la professione dei consigli evangelici nella Chiesa intende
liberarsi dagli impedimenti che potrebbero distoglierlo dal fervore della carità
e dalla perfezione del culto divino, e si consacra più intimamente al servizio
di Dio. La consacrazione poi sarà più perfetta, in quanto legami più solidi e
stabili riproducono di più l'immagine del Cristo unito alla Chiesa sua sposa da
un legame indissolubile.
Siccome quindi i consigli evangelici, per
mezzo della carità alla quale conducono congiungono in modo speciale coloro che
li praticano alla Chiesa e al suo mistero, la loro vita spirituale deve pure
essere consacrata al bene di tutta la Chiesa. Di qui deriva il dovere di
lavorare, secondo le forze e la forma della propria vocazione, sia con la
preghiera, sia anche con l'attività effettiva, a radicare e consolidare negli
animi il regno di Cristo e a dilatarlo in ogni parte della terra. Per questo la
Chiesa difende e sostiene l'indole propria dei vari istituti religiosi. Perciò
la professione dei consigli evangelici appare come un segno, il quale può e
deve attirare efficacemente tutti i membri della Chiesa a compiere con slancio i
doveri della vocazione cristiana. Poiché infatti il popolo di Dio non ha qui
città permanente, ma va in cerca della futura, lo stato religioso, il quale
rende più liberi i suoi seguaci dalle cure terrene, meglio anche manifesta a
tutti i credenti i beni celesti già presenti in questo tempo, meglio testimonia
l'esistenza di una vita nuova ed eterna, acquistata dalla redenzione di Cristo,
e meglio preannunzia la futura resurrezione e la gloria del regno celeste.
Parimenti, lo stato religioso imita più fedelmente e rappresenta continuamente
nella Chiesa la forma di vita che il Figlio di Dio abbracciò venendo nel mondo
per fare la volontà del Padre e che propose ai discepoli che lo seguivano.
Infine, in modo speciale manifesta l'elevazione del regno di Dio sopra tutte le
cose terrestri e le sue esigenze supreme; dimostra pure a tutti gli uomini la
preminente grandezza della potenza di Cristo-Re e la infinita potenza dello
Spirito Santo, mirabilmente operante nella Chiesa.
Lo stato di vita dunque costituito dalla
professione dei consigli evangelici, pur non concernendo la struttura gerarchica
della Chiesa, appartiene tuttavia inseparabilmente alla sua vita e alla sua
santità.
La gerarchia e lo stato religioso
45. Essendo ufficio della gerarchia
ecclesiastica di pascere il popolo di Dio e condurlo a pascoli ubertosi (cfr. Ez
34,14), spetta ad essa di regolare sapientemente con le sue leggi la pratica dei
consigli evangelici, strumento singolare al servizio della carità perfetta
verso Dio e verso il prossimo 6, Essa inoltre, seguendo docilmente gli impulsi
dello Spirito Santo, accoglie le regole proposte da uomini e donne esimi, e,
infine dopo averle messe a punto più perfettamente, dà loro una approvazione
autentica; con la sua autorità vigile e protettrice viene pure in aiuto agli
istituti, dovunque eretti per l'edificazione del corpo di Cristo, perché
abbiano a crescere e fiorire secondo lo spirito dei fondatori.
Perché poi sia provveduto il meglio
possibile alle necessità dell'intero gregge del Signore, il sommo Pontefice può,
in ragione del suo primato sulla Chiesa universale e in vista dell'interesse
comune esentare ogni istituto di perfezione e ciascuno dei suoi membri dalla
giurisdizione dell'ordinario del luogo e sottoporli a sé solo. Similmente essi
possono essere lasciati o affidati alle proprie autorità patriarcali. Da parte
loro i membri nel compiere i loro doveri verso la Chiesa secondo la loro forma
particolare di vita, devono, conforme alle leggi canoniche, prestare riverenza e
obbedienza ai vescovi, a causa della loro autorità pastorale nelle Chiese
particolari e per la necessaria unità e concordia nel lavoro apostolico.
La Chiesa non solo erige con la sua sanzione
la professione religiosa alla dignità dello stato canonico, ma con la sua
azione liturgica la presenta pure come stato di consacrazione a Dio. La stessa
Chiesa infatti, in nome dell'autorità affidatagli da Dio, riceve i voti di
quelli che fanno la professione, per loro impetra da Dio gli aiuti e la grazia
con la sua preghiera pubblica, li raccomanda a Dio e impartisce loro una
benedizione spirituale, associando la loro offerta al sacrificio eucaristico.
Grandezza della consacrazione religiosa
46. I religiosi pongano ogni cura, affinché
per loro mezzo la Chiesa abbia ogni giorno meglio da presentare Cristo ai fedeli
e agli infedeli: sia nella sua contemplazione sul monte, sia nel suo annuncio
del regno di Dio alle turbe, sia quando risana i malati e gli infermi e converte
a miglior vita i peccatori, sia quando benedice i fanciulli e fa del bene a
tutti, sempre obbediente alla volontà del Padre che lo ha mandato.
Tutti infine abbiano ben chiaro che la
professione dei consigli evangelici, quantunque comporti la rinunzia di beni
certamente molto apprezzabili, non si oppone al vero progresso della persona
umana, ma al contrario per sua natura le è di grandissimo profitto. Infatti i
consigli, volontariamente abbracciati secondo la personale vocazione di ognuno,
contribuiscono considerevolmente alla purificazione del cuore e alla libertà
spirituale, stimolano in permanenza il fervore della carità e soprattutto come
è comprovato dall'esempio di tanti santi fondatori, sono capaci di assicurare
al cristiano una conformità più grande col genere di vita verginale e povera
che Cristo Signore si scelse per sé e che la vergine Madre sua abbracciò. Né
pensi alcuno che i religiosi con la loro consacrazione diventino estranei agli
uomini o inutili nella città terrestre. Poiché, se anche talora non sono
direttamente presenti a fianco dei loro contemporanei, li tengono tuttavia
presenti in modo più profondo con la tenerezza di Cristo, e con essi
collaborano spiritualmente, affinché la edificazione della città terrena sia
sempre fondata nel Signore, e a lui diretta, né avvenga che lavorino invano
quelli che la stanno edificando.
Perciò il sacro Concilio conferma e loda
quegli uomini e quelle donne, quei fratelli e quelle sorelle, i quali nei
monasteri, nelle scuole, negli ospedali e nelle missioni, con perseverante e
umile fedeltà alla loro consacrazione, onorano la sposa di Cristo e a tutti gli
uomini prestano generosi e diversissimi servizi.
Esortazione alla perseveranza
47. Ognuno poi che è chiamato alla
professione dei consigli, ponga ogni cura nel perseverare e maggiormente
eccellere nella vocazione a cui Dio l'ha chiamato, per una più grande santità
della Chiesa e per la maggior gloria della Trinità, una e indivisa, la quale in
Cristo e per mezzo di Cristo è la fonte e l'origine di ogni santità.
CAPITOLO VII
INDOLE ESCATOLOGICA DELLA CHIESA PEREGRINANTE
E SUA UNIONE CON LA CHIESA CELESTE
Natura escatologica della nostra vocazione
48. La Chiesa, alla quale tutti siamo
chiamati in Cristo Gesù e nella quale per mezzo della grazia di Dio acquistiamo
la santità, non avrà il suo compimento se non nella gloria celeste, quando
verrà il tempo in cui tutte le cose saranno rinnovate (cfr. Ap 3,21), e col
genere umano anche tutto l'universo, il quale è intimamente congiunto con
l'uomo e per mezzo di lui arriva al suo fine, troverà nel Cristo la sua
definitiva perfezione (cfr. Ef 1,10; Col 1,20).
E invero il Cristo, quando fu levato in alto
da terra, attirò tutti a sé (cfr. Gv 12,32 gr.); risorgendo dai morti (cfr. Rm
6,9) immise negli apostoli il suo Spirito vivificatore, e per mezzo di lui
costituì il suo corpo, che è la Chiesa, quale sacramento universale della
salvezza; assiso alla destra del Padre, opera continuamente nel mondo per
condurre gli uomini alla Chiesa e attraverso di essa congiungerli più
strettamente a sé e renderli partecipi della sua vita gloriosa col nutrimento
del proprio corpo e del proprio sangue. Quindi la nuova condizione promessa e
sperata è già incominciata con Cristo; l'invio dello Spirito Santo le ha dato
il suo slancio e per mezzo di lui essa continua nella Chiesa, nella quale siamo
dalla fede istruiti anche sul senso della nostra vita temporale, mentre portiamo
a termine, nella speranza dei beni futuri, l'opera a noi affidata nel mondo dal
Padre e attuiamo così la nostra salvezza (cfr. Fil 2,12).
Già dunque è arrivata a noi l'ultima fase
dei tempi (cfr. 1 Cor 10,11). La rinnovazione del mondo è irrevocabilmente
acquisita e in certo modo reale è anticipata in questo mondo: difatti la Chiesa
già sulla terra è adornata di vera santità, anche se imperfetta. Tuttavia,
fino a che non vi saranno i nuovi cieli e la terra nuova, nei quali la giustizia
ha la sua dimora (cfr. 2 Pt 3,13), la Chiesa peregrinante nei suoi sacramenti e
nelle sue istituzioni, che appartengono all'età presente, porta la figura
fugace di questo mondo; essa vive tra le creature, le quali ancora gemono, sono
nel travaglio del parto e sospirano la manifestazione dei figli di Dio (cfr. Rm
8,19-22).
Congiunti dunque con Cristo nella Chiesa e
contrassegnati dallo Spirito Santo « che è il pegno della nostra eredità » (Ef
1,14), con verità siamo chiamati figli di Dio, e lo siamo veramente (cfr. 1 Gv
3,1), ma non siamo ancora apparsi con Cristo nella gloria (cfr. Col 3,4), nella
quale saremo simili a Dio, perché lo vedremo qual è (cfr. 1 Gv 3,2). Pertanto,
« finché abitiamo in questo corpo siamo esuli lontani dal Signore » (2 Cor
5,6); avendo le primizie dello Spirito, gemiamo interiormente (cfr. Rm 8,23) e
bramiamo di essere con Cristo (cfr. Fil 1,23). Dalla stessa carità siamo
spronati a vivere più intensamente per lui, il quale per noi è morto e
risuscitato (cfr. 2 Cor 5,15). E per questo ci sforziamo di essere in tutto
graditi al Signore (cfr. 2 Cor 5,9) e indossiamo l'armatura di Dio per potere
star saldi contro gli agguati del diavolo e resistergli nel giorno cattivo (cfr.
Ef 6,11-13). Siccome poi non conosciamo il giorno né l'ora, bisogna che,
seguendo l'avvertimento del Signore, vegliamo assiduamente, per meritare, finito
il corso irrepetibile della nostra vita terrena (cfr.Eb 9,27), di entrare con
lui al banchetto nuziale ed essere annoverati fra i beati (cfr. Mt 25,31-46), e
non ci venga comandato, come a servi cattivi e pigri (cfr. Mt 25,26), di andare
al fuoco eterno (cfr Mt 25,41), nelle tenebre esteriori dove «ci sarà pianto e
stridore dei denti » (Mt 22,13 e 25,30). Prima infatti di regnare con Cristo
glorioso, noi tutti compariremo « davanti al tribunale di Cristo, per ricevere
ciascuno il salario della sua vita mortale, secondo quel che avrà fatto di bene
o di male » (2 Cor 5,10), e alla fine del mondo « usciranno dalla tomba, chi
ha operato il bene a risurrezione di vita, e chi ha operato il male a
risurrezione di condanna » (Gv 5,29, cfr Mt 25,46). Stimando quindi che « le
sofferenze dei tempo presente non sono adeguate alla gloria futura che si dovrà
manifestare in noi» (Rm 8,18; cfr 2 Tm 2,11-12), forti nella fede aspettiamo «la
beata speranza e la manifestazione gloriosa del nostro grande Iddio e Salvatore
Gesù Cristo» (Tt 2,13) « il quale trasformerà allora il nostro misero corpo,
rendendolo conforme al suo corpo glorioso» (Fil 3,21), e verrà «per essere
glorificato nei suoi santi e ammirato in tutti quelli che avranno creduto ».
La Chiesa celeste e la Chiesa peregrinante
49. Fino a che dunque il Signore non verrà
nella sua gloria, accompagnato da tutti i suoi angeli (cfr. Mt 25,31) e,
distrutta la morte, non gli saranno sottomesse tutte le cose (cfr. 1 Cor
15,26-27), alcuni dei suoi discepoli sono pellegrini sulla terra, altri,
compiuta questa vita, si purificano ancora, altri infine godono della gloria
contemplando « chiaramente Dio uno e trino, qual è ». Tutti però, sebbene in
grado e modo diverso, comunichiamo nella stessa carità verso Dio e verso il
prossimo e cantiamo al nostro Dio lo stesso inno di gloria. Tutti infatti quelli
che sono di Cristo, avendo lo Spirito Santo, formano una sola Chiesa e sono tra
loro uniti in lui (cfr. Ef 4,16). L'unione quindi di quelli che sono ancora in
cammino coi fratelli morti nella pace di Cristo non è minimamente spezzata;
anzi, secondo la perenne fede della Chiesa, è consolidata dallo scambio dei
beni spirituali. A causa infatti della loro più intima unione con Cristo, gli
abitanti del cielo rinsaldano tutta la Chiesa nella santità, nobilitano il
culto che essa rende a Dio qui in terra e in molteplici maniere contribuiscono
ad una più ampia edificazione (cfr. 1 Cor 12,12-27).
Ammessi nella patria e presenti al Signore
(cfr. 2 Cor 5,8), per mezzo di lui, con lui e in lui non cessano di intercedere
per noi presso il Padre offrendo i meriti acquistati in terra mediante Gesù
Cristo, unico mediatore tra Dio e gli uomini (cfr. 1 Tm 2,5), servendo al
Signore in ogni cosa e dando compimento nella loro carne a ciò che manca alle
tribolazioni di Cristo a vantaggio del suo corpo che è la Chiesa (cfr. Col
1,24). La nostra debolezza quindi è molto aiutata dalla loro fraterna
sollecitudine.
Relazioni della Chiesa celeste con la Chiesa peregrinante
50. La Chiesa di coloro che camminano sulla
terra, riconoscendo benissimo questa comunione di tutto il corpo mistico di Gesù
Cristo, fino dai primi tempi della religione cristiana coltivò con grande pietà
la memoria dei defunti e, «poiché santo e salutare è il pensiero di pregare
per i defunti perché siano assolti dai peccati», ha offerto per loro anche
suffragi. Che gli apostoli e i martiri di Cristo, i quali con l'effusione del
loro sangue diedero la suprema testimonianza della fede e della carità, siano
con noi strettamente uniti in Cristo, la Chiesa lo ha sempre creduto; li ha
venerati con particolare affetto insieme con la beata vergine Maria e i santi
angeli e ha piamente implorato il soccorso della loro intercessione. A questi in
breve se ne aggiunsero anche altri, che avevano più da vicino imitata la
verginità e la povertà di Cristo e infine altri, il cui singolare esercizio
delle virtù cristiane e le grazie insigni di Dio raccomandavano alla pia
devozione e imitazione dei fedeli.
Il contemplare infatti la vita di coloro che
hanno seguito fedelmente Cristo, è un motivo in più per sentirsi spinti a
ricercare la città futura (cfr. Eb 13,14 e 11,10); nello stesso tempo impariamo
la via sicurissima per la quale, tra le mutevoli cose del mondo e secondo lo
stato e la condizione propria di ciascuno, potremo arrivare alla perfetta unione
con Cristo, cioè alla santità. Nella vita di quelli che, sebbene partecipi
della nostra natura umana, sono tuttavia più perfettamente trasformati
nell'immagine di Cristo (cfr. 2 Cor 3,18), Dio manifesta agli uomini in una viva
luce la sua presenza e il suo volto. In loro è egli stesso che ci parla e ci dà
un segno del suo regno verso il quale, avendo intorno a noi un tal nugolo di
testimoni (cfr. Eb 12,1) e una tale affermazione della verità del Vangelo,
siamo potentemente attirati.
Non veneriamo però la memoria degli abitanti
del cielo solo per il loro esempio, ma più ancora perché l'unione della Chiesa
nello Spirito sia consolidata dall'esercizio della fraterna carità (cfr. Ef
4,1-6). Poiché, come la cristiana comunione tra i cristiani della terra ci
porta più vicino a Cristo, così la comunità con i santi ci congiunge a lui,
dal quale, come dalla loro fonte e dal loro capo, promana ogni grazia e la vita
dello stesso popolo di Dio. È quindi sommamente giusto che amiamo questi amici
e coeredi di Gesù Cristo, che sono anche nostri fratelli e insigni benefattori,
e che per essi rendiamo le dovute grazie a Dio, «rivolgiamo loro supplici
invocazioni e ricorriamo alle loro preghiere e al loro potente aiuto per
impetrare grazie da Dio mediante il Figlio suo Gesù Cristo, Signore nostro, il
quale solo è il nostro Redentore e Salvatore ». Infatti ogni nostra vera
attestazione di amore fatta ai santi, per sua natura tende e termina a Cristo,
che è « la corona di tutti i santi » e per lui a Dio, che è mirabile nei
suoi santi e in essi è glorificato.
La nostra unione poi con la Chiesa celeste si
attua in maniera nobilissima, poiché specialmente nella sacra liturgia, nella
quale la virtù dello Spirito Santo agisce su di noi mediante i segni
sacramentali, in fraterna esultanza cantiamo le lodi della divina Maestà tutti,
di ogni tribù e lingua, di ogni popolo e nazione, riscattati col sangue di
Cristo (cfr. Ap 5,9) e radunati in un'unica Chiesa, con un unico canto di lode
glorifichiamo Dio uno in tre Persone Perciò quando celebriamo il sacrificio
eucaristico, ci uniamo in sommo grado al culto della Chiesa celeste, comunicando
con essa e venerando la memoria soprattutto della gloriosa sempre vergine Maria,
del beato Giuseppe, dei beati apostoli e martiri e di tutti i santi.
Disposizioni pastorali del Concilio
51. Questa veneranda fede dei nostri padri
nella comunione di vita che esiste con i fratelli che sono nella gloria celeste
o che dopo la morte stanno ancora purificandosi, questo sacrosanto Concilio la
riceve con grande pietà e nuovamente propone i decreti dei sacri Concili Niceno
II Fiorentino e Tridentino. E allo stesso tempo con pastorale sollecitudine
esorta tutti i responsabili, perché, se si fossero infiltrati qua e là abusi,
eccessi o difetti, si adoperino per toglierli o correggerli e tutto
ristabiliscano per una più piena lode di Cristo e di Dio. Insegnino dunque ai
fedeli che il vero culto dei santi non consiste tanto nel moltiplicare gli atti
esteriori, quanto piuttosto nell'intensità del nostro amore fattivo, col quale,
per il maggiore bene nostro e della Chiesa, cerchiamo «dalla vita dei santi
l'esempio, dalla comunione con loro la partecipazione alla loro sorte e dalla
loro intercessione l'aiuto». E d'altra parte insegnino ai fedeli che il nostro
rapporto con gli abitanti del cielo, purché lo si concepisca alla piena luce
della fede, non diminuisce affatto il culto di adorazione reso a Dio Padre
mediante Cristo nello Spirito, ma anzi lo arricchisce.
Tutti quanti infatti, noi che siamo figli di
Dio e costituiamo in Cristo una sola famiglia (cfr. Eb 3), mentre comunichiamo
tra noi nella mutua carità e nell'unica lode della Trinità santissima,
rispondiamo all'intima vocazione della Chiesa e pregustando partecipiamo alla
liturgia della gloria perfetta. Poiché quando Cristo apparirà e vi sarà la
gloriosa risurrezione dei morti, lo splendore di Dio illuminerà la città
celeste e la sua lucerna sarà l'Agnello (cfr. Ap 21,24). Allora tutta la Chiesa
dei santi con somma felicità di amore adorerà Dio e «l'Agnello che è stato
ucciso» (Ap 5,12), proclamando a una voce: «A colui che siede sul trono e
all'Agnello, benedizione onore, gloria e dominio per tutti i secoli dei secoli
» (Ap 5,13-14).
CAPITOLO VIII
LA BEATA MARIA VERGINE MADRE DI DIO
NEL MISTERO DI CRISTO E DELLA CHIESA
I. Proemio
52. Volendo Dio misericordiosissimo e
sapientissimo compiere la redenzione del mondo, « quando venne la pienezza dei
tempi, mandò il suo Figlio, nato da una donna... per fare di noi dei figli
adottivi» (Gal 4,4-5), « Egli per noi uomini e per la nostra salvezza è
disceso dal cielo e si è incarnato per opera dello Spirito Santo da Maria
vergine ». Questo divino mistero di salvezza ci è rivelato e si continua nella
Chiesa, che il Signore ha costituita quale suo corpo e nella quale i fedeli,
aderendo a Cristo capo e in comunione con tutti i suoi santi, devono pure
venerare la memoria «innanzi tutto della gloriosa sempre vergine Maria, madre
del Dio e Signore nostro Gesù Cristo »
Maria e la Chiesa
53. Infatti Maria vergine, la quale
all'annunzio dell'angelo accolse nel cuore e nel corpo il Verbo di Dio e portò
la vita al mondo, è riconosciuta e onorata come vera madre di Dio e Redentore.
Redenta in modo eminente in vista dei meriti del Figlio suo e a lui unita da uno
stretto e indissolubile vincolo, è insignita del sommo ufficio e dignità di
madre del Figlio di Dio, ed è perciò figlia prediletta del Padre e tempio
dello Spirito Santo; per il quale dono di grazia eccezionale precede di gran
lunga tutte le altre creature, celesti e terrestri. Insieme però, quale
discendente di Adamo, è congiunta con tutti gli uomini bisognosi di salvezza;
anzi, è « veramente madre delle membra (di Cristo)... perché cooperò con la
carità alla nascita dei fedeli della Chiesa, i quali di quel capo sono le
membra ». Per questo è anche riconosciuta quale sovreminente e del tutto
singolare membro della Chiesa, figura ed eccellentissimo modello per essa nella
fede e nella carità; e la Chiesa cattolica, istruita dallo Spirito Santo, con
affetto di pietà filiale la venera come madre amatissima.
L'intenzione del Concilio
54. Perciò il santo Concilio, mentre espone
la dottrina riguardante la Chiesa, nella quale il divino Redentore opera la
salvezza, intende illustrare attentamente da una parte, la funzione della beata
Vergine nel mistero del Verbo incarnato e del corpo mistico, dall'altra i doveri
degli uomini, e i doveri dei credenti in primo luogo. Il Concilio tuttavia non
ha in animo di proporre una dottrina esauriente su Maria, né di dirimere le
questioni che il lavoro dei teologi non ha ancora condotto a una luce totale.
Permangono quindi nel loro diritto le sentenze, che nelle scuole cattoliche
vengono liberamente proposte circa colei, che nella Chiesa santa occupa, dopo
Cristo, il posto più alto e il più vicino a noi 4.
II. Funzione della beata Vergine nell'economia della salvezza
La madre del Messia nell'Antico Testamento
55. I libri del Vecchio e Nuovo Testamento e
la veneranda tradizione mostrano in modo sempre più chiaro la funzione della
madre del Salvatore nella economia della salvezza e la propongono per così dire
alla nostra contemplazione. I libri del Vecchio Testamento descrivono la storia
della salvezza, nella quale lentamente viene preparandosi la venuta di Cristo
nel mondo. Questi documenti primitivi, come sono letti nella Chiesa e sono
capiti alla luce dell'ulteriore e piena rivelazione, passo passo mettono sempre
più chiaramente in luce la figura di una donna: la madre del Redentore. Sotto
questa luce essa viene già profeticamente adombrata nella promessa, fatta ai
progenitori caduti in peccato, circa la vittoria sul serpente (cfr. Gen 3,15).
Parimenti, è lei, la Vergine, che concepirà e partorirà un Figlio, il cui
nome sarà Emanuele (cfr. Is 7, 14; Mt 1,22-23). Essa primeggia tra quegli umili
e quei poveri del Signore che con fiducia attendono e ricevono da lui la
salvezza. E infine con lei, la figlia di Sion per eccellenza, dopo la lunga
attesa della promessa, si compiono i tempi e si instaura la nuova « economia »,
quando il Figlio di Dio assunse da lei la natura umana per liberare l'uomo dal
peccato coi misteri della sua carne.
Maria nell'annunciazione
56. Il Padre delle misericordie ha voluto che
l'accettazione da parte della predestinata madre precedesse l'incarnazione,
perché così, come una donna aveva contribuito a dare la morte, una donna
contribuisse a dare la vita. Ciò vale in modo straordinario della madre di Gesù,
la quale ha dato al mondo la vita stessa che tutto rinnova e da Dio è stata
arricchita di doni consoni a tanto ufficio. Nessuna meraviglia quindi se presso
i santi Padri invalse l'uso di chiamare la madre di Dio la tutta santa e immune
da ogni macchia di peccato, quasi plasmata dallo Spirito Santo e resa nuova
creatura. Adornata fin dal primo istante della sua concezione dagli splendori di
una santità del tutto singolare, la Vergine di Nazaret è salutata dall'angelo
dell'annunciazione, che parla per ordine di Dio, quale « piena di grazia »
(cfr. Lc 1,28) e al celeste messaggero essa risponde « Ecco l'ancella del
Signore: si faccia in me secondo la tua parola » (Lc 1,38). Così Maria, figlia
di Adamo, acconsentendo alla parola divina, diventò madre di Gesù, e
abbracciando con tutto l'animo, senza che alcun peccato la trattenesse, la
volontà divina di salvezza, consacrò totalmente se stessa quale ancella del
Signore alla persona e all'opera del Figlio suo, servendo al mistero della
redenzione in dipendenza da lui e con lui, con la grazia di Dio onnipotente.
Giustamente quindi i santi Padri ritengono che Maria non fu strumento meramente
passivo nelle mani di Dio, ma che cooperò alla salvezza dell'uomo con libera
fede e obbedienza. Infatti, come dice Sant'Ireneo, essa «con la sua obbedienza
divenne causa di salvezza per sé e per tutto il genere umano ». Onde non pochi
antichi Padri nella loro predicazione volentieri affermano con Ireneo che « il
nodo della disobbedienza di Eva ha avuto la sua soluzione coll'obbedienza di
Maria; ciò che la vergine Eva legò con la sua incredulità, la vergine Maria
sciolse con la sua fede» e, fatto il paragone con Eva, chiamano Maria «madre
dei viventi e affermano spesso: « la morte per mezzo di Eva, la vita per mezzo
di Maria ».
Maria e l'infanzia di Gesù
57. Questa unione della madre col figlio
nell'opera della redenzione si manifesta dal momento della concezione verginale
di Cristo fino alla morte di lui; e prima di tutto quando Maria, partendo in
fretta per visitare Elisabetta, è da questa proclamata beata per la sua fede
nella salvezza promessa, mentre il precursore esultava nel seno della madre
(cfr. Lc 1,41-45); nella natività, poi, quando la madre di Dio mostrò lieta ai
pastori e ai magi il Figlio suo primogenito, il quale non diminuì la sua
verginale integrità, ma la consacrò l0 Quando poi lo presentò al Signore nel
tempio con l'offerta del dono proprio dei poveri, udì Simeone profetizzare che
il Figlio sarebbe divenuto segno di contraddizione e che una spada avrebbe
trafitto l'anima della madre, perché fossero svelati i pensieri di molti cuori
(cfr. Lc 2,34-35). Infine, dopo avere perduto il fanciullo Gesù e averlo
cercato con angoscia, i suoi genitori lo trovarono nel tempio occupato nelle
cose del Padre suo, e non compresero le sue parole. E la madre sua conservava
tutte queste cose in cuor suo e le meditava (cfr. Lc 2,41-51).
Maria e la vita pubblica di Gesù
58. Nella vita pubblica di Gesù la madre sua
appare distintamente fin da principio, quando alle nozze in Cana di Galilea,
mossa a compassione, indusse con la sua intercessione Gesù Messia a dar inizio
ai miracoli (cfr. Gv 2 1-11). Durante la predicazione di lui raccolse le parole
con le quali egli, mettendo il Regno al di sopra delle considerazioni e dei
vincoli della carne e del sangue, proclamò beati quelli che ascoltano e
custodiscono la parola di Dio (cfr Mc 3,35; Lc 11,27-28), come ella stessa
fedelmente faceva (cfr. Lc 2,19 e 51). Così anche la beata Vergine avanzò
nella peregrinazione della fede e serbò fedelmente la sua unione col Figlio
sino alla croce, dove, non senza un disegno divino, se ne stette (cfr. Gv
19,25), soffrendo profondamente col suo Unigenito e associandosi con animo
materno al suo sacrifico, amorosamente consenziente all'immolazione della
vittima da lei generata; e finalmente dallo stesso Gesù morente in croce fu
data quale madre al discepolo con queste parole: Donna, ecco tuo figlio (cfr. Gv
19,26-27).
Maria dopo l'ascensione
59. Essendo piaciuto a Dio di non manifestare
apertamente il mistero della salvezza umana prima di effondere lo Spirito
promesso da Cristo, vediamo gli apostoli prima del giorno della Pentecoste «
perseveranti d'un sol cuore nella preghiera con le donne e Maria madre di Gesù
e i suoi fratelli» (At 1,14); e vediamo anche Maria implorare con le sue
preghiere il dono dello Spirito che all'annunciazione, l'aveva presa sotto la
sua ombra. Infine la Vergine immacolata, preservata immune da ogni macchia di
colpa originale finito il corso della sua vita terrena, fu assunta alla celeste
gloria in anima e corpo e dal Signore esaltata quale regina dell'universo per
essere così più pienamente conforme al figlio suo, Signore dei signori (cfr.
Ap 19,16) e vincitore del peccato e della morte.
III. La beata Vergine e la Chiesa
Maria e Cristo unico mediatore
60. Uno solo è il nostro mediatore, secondo
le parole dell'Apostolo: « Poiché non vi è che un solo Dio, uno solo è anche
il mediatore tra Dio e gli uomini, l'uomo Cristo Gesù, che per tutti ha dato se
stesso in riscatto » (1 Tm 2,5-6). La funzione materna di Maria verso gli
uomini in nessun modo oscura o diminuisce questa unica mediazione di Cristo, ma
ne mostra l'efficacia. Ogni salutare influsso della beata Vergine verso gli
uomini non nasce da una necessità oggettiva, ma da una disposizione puramente
gratuita di Dio, e sgorga dalla sovrabbondanza dei meriti di Cristo; pertanto si
fonda sulla mediazione di questi, da essa assolutamente dipende e attinge tutta
la sua efficacia, e non impedisce minimamente l'unione immediata dei credenti
con Cristo, anzi la facilita.
Cooperazione alla redenzione
61. La beata Vergine, predestinata fino
dall'eternità, all'interno del disegno d'incarnazione del Verbo, per essere la
madre di Dio, per disposizione della divina Provvidenza fu su questa terra
l'alma madre del divino Redentore, generosamente associata alla sua opera a un
titolo assolutamente unico, e umile ancella del Signore, concependo Cristo,
generandolo, nutrendolo, presentandolo al Padre nel tempio, soffrendo col Figlio
suo morente in croce, ella cooperò in modo tutto speciale all'opera del
Salvatore, coll'obbedienza, la fede, la speranza e l'ardente carità, per
restaurare la vita soprannaturale delle anime. Per questo ella è diventata per
noi madre nell'ordine della grazia.
Funzione salvifíca subordinata
62. E questa maternità di Maria
nell'economia della grazia perdura senza soste dal momento del consenso
fedelmente prestato nell'Annunciazione e mantenuto senza esitazioni sotto la
croce, fino al perpetuo coronamento di tutti gli eletti. Difatti anche dopo la
sua assunzione in cielo non ha interrotto questa funzione salvifica, ma con la
sua molteplice intercessione continua a ottenerci i doni che ci assicurano la
nostra salvezza eterna. Con la sua materna carità si prende cura dei fratelli
del Figlio suo ancora peregrinanti e posti in mezzo a pericoli e affanni, fino a
che non siano condotti nella patria beata. Per questo la beata Vergine è
invocata nella Chiesa con i titoli di avvocata, ausiliatrice, soccorritrice,
mediatrice. Ciò però va inteso in modo che nulla sia detratto o aggiunto alla
dignità e alla efficacia di Cristo, unico mediatore.
Nessuna creatura infatti può mai essere
paragonata col Verbo incarnato e redentore. Ma come il sacerdozio di Cristo è
in vari modi partecipato, tanto dai sacri ministri, quanto dal popolo fedele, e
come l'unica bontà di Dio è realmente diffusa in vari modi nelle creature, così
anche l'unica mediazione del Redentore non esclude, bensì suscita nelle
creature una varia cooperazione partecipata da un'unica fonte.
E questa funzione subordinata di Maria la
Chiesa non dubita di riconoscerla apertamente; essa non cessa di farne
l'esperienza e la raccomanda all'amore dei fedeli, perché, sostenuti da questo
materno aiuto, siano più intimamente congiunti col Mediatore e Salvatore.
Maria vergine e madre, modello della Chiesa
63. La beata Vergine, per il dono e l'ufficio
della divina maternità che la unisce col Figlio redentore e per le sue
singolari grazie e funzioni, è pure intimamente congiunta con la Chiesa: la
madre di Dio è figura della Chiesa, come già insegnava sant'Ambrogio,
nell'ordine cioè della fede, della carità e della perfetta unione con Cristo.
Infatti nel mistero della Chiesa, la quale pure è giustamente chiamata madre e
vergine, la beata vergine Maria occupa il primo posto, presentandosi in modo
eminente e singolare quale vergine e quale madre. Ciò perché per la sua fede
ed obbedienza generò sulla terra lo stesso Figlio di Dio, senza contatto con
uomo, ma adombrata dallo Spirito Santo, come una nuova Eva credendo non
all'antico serpente, ma, senza alcuna esitazione, al messaggero di Dio. Diede
poi alla luce il Figlio, che Dio ha posto quale primogenito tra i molti fratelli
(cfr. Rm 8,29), cioè tra i credenti, alla rigenerazione e formazione dei quali
essa coopera con amore di madre.
La Chiesa vergine e madre
64. Orbene, la Chiesa contemplando la santità
misteriosa della Vergine, imitandone la carità e adempiendo fedelmente la
volontà del Padre, per mezzo della parola di Dio accolta con fedeltà diventa
essa pure madre, poiché con la predicazione e il battesimo genera a una vita
nuova e immortale i figli, concepiti ad opera dello Spirito Santo e nati da Dio.
Essa pure è vergine, che custodisce integra e pura la fede data allo sposo;
imitando la madre del suo Signore, con la virtù dello Spirito Santo conserva
verginalmente integra la fede, salda la speranza, sincera la carità.
La Chiesa deve imitare la virtù di Maria
65. Mentre la Chiesa ha già raggiunto nella
beatissima Vergine quella perfezione, che la rende senza macchia e senza ruga
(cfr. Ef 5,27), i fedeli del Cristo si sforzano ancora di crescere nella santità
per la vittoria sul peccato; e per questo innalzano gli occhi a Maria, la quale
rifulge come modello di virtù davanti a tutta la comunità degli eletti. La
Chiesa, raccogliendosi con pietà nel pensiero di Maria, che contempla alla luce
del Verbo fatto uomo, con venerazione penetra più profondamente nel supremo
mistero dell'incarnazione e si va ognor più conformando col suo sposo. Maria
infatti, la quale, per la sua intima partecipazione alla storia della salvezza,
riunisce per cosi dire e riverbera le esigenze supreme della fede, quando è
fatta oggetto della predicazione e della venerazione chiama i credenti al Figlio
suo, al suo sacrificio e all'amore del Padre. A sua volta la Chiesa, mentre
ricerca la gloria di Cristo, diventa più simile al suo grande modello,
progredendo continuamente nella fede, speranza e carità e in ogni cosa cercando
e compiendo la divina volontà. Onde anche nella sua opera apostolica la Chiesa
giustamente guarda a colei che generò il Cristo, concepito appunto dallo
Spirito Santo e nato dalla Vergine per nascere e crescere anche nel cuore dei
fedeli per mezzo della Chiesa. La Vergine infatti nella sua vita fu modello di
quell'amore materno da cui devono essere animati tutti quelli che nella missione
apostolica della Chiesa cooperano alla rigenerazione degli uomini.
IV. Il culto della beata Vergine nella Chiesa
Natura e fondamento del culto
66. Maria, perché madre santissima di Dio
presente ai misteri di Cristo, per grazia di Dio esaltata, al di sotto del
Figlio, sopra tutti gli angeli e gli uomini, viene dalla Chiesa giustamente
onorata con culto speciale. E di fatto, già fino dai tempi più antichi, la
beata Vergine è venerata col titolo di « madre di Dio » e i fedeli si
rifugiano sotto la sua protezione, implorandola in tutti i loro pericoli e le
loro necessita. Soprattutto a partire dal Concilio di Efeso il culto del popolo
di Dio verso Maria crebbe mirabilmente in venerazione e amore, in preghiera e
imitazione, secondo le sue stesse parole profetiche: «Tutte le generazioni mi
chiameranno beata, perché grandi cose mi ha fatto l'Onnipotente» (Lc 1,48).
Questo culto, quale sempre è esistito nella Chiesa sebbene del tutto singolare,
differisce essenzialmente dal culto di adorazione reso al Verbo incarnato cosi
come al Padre e allo Spirito Santo, ed è eminentemente adatto a promuoverlo.
Infatti le varie forme di devozione verso la madre di Dio, che la Chiesa ha
approvato, mantenendole entro i limiti di una dottrina sana e ortodossa e
rispettando le circostanze di tempo e di luogo, il temperamento e il genio
proprio dei fedeli, fanno si che, mentre è onorata la madre, il Figlio, al
quale sono volte tutte le cose (cfr Col 1,15-16) e nel quale «piacque
all'eterno Padre di far risiedere tutta la pienezza » (Col 1,19), sia
debitamente conosciuto, amato, glorificato, e siano osservati i suoi
comandamenti.
Norme pastorali
67. Il santo Concilio formalmente insegna
questa dottrina cattolica. Allo stesso tempo esorta tutti i figli della Chiesa a
promuovere generosamente il culto, specialmente liturgico, verso la beata
Vergine, ad avere in grande stima le pratiche e gli esercizi di pietà verso di
lei, raccomandati lungo i secoli dal magistero della Chiesa; raccomanda di
osservare religiosamente quanto in passato è stato sancito circa il culto delle
immagini di Cristo, della beata Vergine e dei santi. Esorta inoltre caldamente i
teologi e i predicatori della parola divina ad astenersi con ogni cura da
qualunque falsa esagerazione, come pure da una eccessiva grettezza di spirito,
nel considerare la singolare dignità della madre di Dio. Con lo studio della
sacra Scrittura, dei santi Padri, dei dottori e delle liturgie della Chiesa,
condotto sotto la guida del magistero, illustrino rettamente gli uffici e i
privilegi della beata Vergine, i quali sempre sono orientati verso il Cristo,
origine della verità totale, della santità e della pietà. Sia nelle parole
che nei fatti evitino diligentemente ogni cosa che possa indurre in errore i
fratelli separati o qualunque altra persona, circa la vera dottrina della
Chiesa. I fedeli a loro volta si ricordino che la vera devozione non consiste né
in uno sterile e passeggero sentimentalismo, né in una certa qual vana credulità,
bensì procede dalla fede vera, dalla quale siamo portati a riconoscere la
preminenza della madre di Dio, e siamo spinti al filiale amore verso la madre
nostra e all'imitazione delle sue virtù.
V. Maria, segno di certa speranza e di consolazione per il peregrinante
popolo di Dio
Maria, segno del popolo di Dio
68. La madre di Gesù, come in cielo, in cui
è già glorificata nel corpo e nell'anima, costituisce l'immagine e l'inizio
della Chiesa che dovrà avere il suo compimento nell'età futura, così sulla
terra brilla ora innanzi al peregrinante popolo di Dio quale segno di sicura
speranza e di consolazione, fino a quando non verrà il giorno del Signore (cfr.
2 Pt 3,10).
Maria interceda per l'unione dei cristiani
69. Per questo santo Concilio è di grande
gioia e consolazione il fatto che vi siano anche tra i fratelli separati di
quelli che tributano il debito onore alla madre del Signore e Salvatore,
specialmente presso gli Orientali, i quali vanno, con ardente slancio ed anima
devota, verso la madre di Dio sempre vergine per renderle il loro culto. Tutti i
fedeli effondano insistenti preghiere alla madre di Dio e madre degli uomini,
perché, dopo aver assistito con le sue preghiere la Chiesa nascente, anche ora,
esaltata in cielo sopra tutti i beati e gli angeli, nella comunione dei santi
interceda presso il Figlio suo, fin tanto che tutte le famiglie di popoli, sia
quelle insignite del nome cristiano, sia quelle che ancora ignorano il loro
Salvatore, in pace e concordia siano felicemente riunite in un solo popolo di
Dio, a gloria della santissima e indivisibile Trinità.
21 novembre 1964
DAGLI
ATTI DEL CONCILIO
ECUMENICO VATICANO II
Notificazioni fatte dall'Ecc.mo Segretario generale nella
congregazione generale 123.a
È stato chiesto quale debba essere la
qualificazione teologica della dottrina esposta nello schema sulla Chiesa e
sottoposto alla votazione. La commissione dottrinale ha dato al quesito questa
risposta: « Come è di per sé evidente, il testo del Concilio deve sempre
essere interpretato secondo le regole generali da tutti conosciute ». In pari
tempo la commissione dottrinale rimanda alla sua dichiarazione del 6 marzo 1964,
di cui trascriviamo il testo:
«Tenuto conto dell'uso conciliare e del fine
pastorale del presente Concilio, questo definisce come obbliganti per tutta la
Chiesa i soli punti concernenti la fede o i costumi, che esso stesso abbia
apertamente dichiarato come tali.
«Le altre cose che il Concilio propone, in
quanto dottrina del magistero supremo della Chiesa, tutti e singoli i fedeli
devono accettarle e tenerle secondo lo spirito dello stesso Concilio, il quale
risulta sia dalla materia trattata, sia dalla maniera in cui si esprime,
conforme alle norme d'interpretazione teologica».
Per mandato dell'autorità superiore viene
comunicata ai Padri una nota esplicativa previa circa i « modi » concernenti
il capo terzo dello schema sulla Chiesa. La dottrina esposta nello stesso capo
terzo deve essere spiegata e compresa secondo lo spirito e la sentenza di questa
nota.
16 novembre 1964
NOTA
ESPLICATIVA PREVIA
La commissione ha stabilito di premettere
all'esame dei "modi" le seguenti osservazioni generali:
1) "Collegio" non si intende in
senso « strettamente giuridico », cioè di un gruppo di eguali, i quali
abbiano demandata la loro potestà al loro presidente, ma di un gruppo stabile,
la cui struttura e autorità deve essere dedotta dalla Rivelazione. Perciò
nella risposta al modus 12 si dice esplicitamente dei Dodici che il Signore li
costituì « a modo di collegio o "gruppo" (coetus) stabile ». Cfr.
anche il modus 53, c. Per la stessa ragione, per il collegio dei vescovi si
usano con frequenza anche le parole "ordine" (ordo) o
"corpo" (corpus). Il parallelismo fra Pietro e gli altri apostoli da
una parte, e il sommo Pontefice e i vescovi dall'altra, non implica la
trasmissione della potestà straordinaria degli apostoli ai loro successori, né,
com'è chiaro, "uguaglianza" (aequalitatem) tra il capo e le membra
del collegio, ma solo "proporzionalità" (proportionalitatem) fra la
prima relazione (Pietro apostoli) e l'altra (papa vescovi). Perciò la
commissione ha stabilito di scrivere nel n. 22 non "medesimo" (eodem)
ma "pari" modo. Cfr. modus 57.
2) Si diventa "membro del collegio"
in virtù della consacrazione episcopale e mediante la comunione gerarchica col
capo del collegio e con le membra. Cfr. n. 22.
Nella consacrazione è data una
"ontologica" partecipazione ai "sacri uffici", come
indubbiamente consta dalla tradizione, anche liturgica. Volutamente è usata la
parola "uffici" (munerum), e non "potestà" (potestatum),
perché quest'ultima voce potrebbe essere intesa di potestà esercitabile di
fatto (ad actum expedita). Ma perché si abbia tale potestà esercitabile di
fatto, deve intervenire la "determinazione" canonica o
"giuridica" (iuridica determinatio) da parte dell'autorità
gerarchica. E questa determinazione della potestà può consistere nella
concessione di un particolare ufficio o nell'assegnazione dei sudditi, ed è
concessa secondo le norme approvate dalla suprema autorità. Una siffatta
ulteriore norma è richiesta "dalla natura delle cose", trattandosi di
uffici, che devono essere esercitati da "più soggetti", che per
volontà di Cristo cooperano in modo gerarchico. È evidente che questa
"comunione" è stata applicata nella vita della Chiesa secondo le
circostanze dei tempi, prima di essere per così dire codificata "nel
diritto". Perciò è detto espressamente che è richiesta la comunione
"gerarchica" col capo della Chiesa e con le membra.
"Comunione" è un concetto tenuto in grande onore nella Chiesa antica
(ed anche oggi, specialmente in Oriente). Per essa non si intende un certo vago
"sentimento", ma una "realtà organica", che richiede una
forma giuridica e che è allo stesso tempo animata dalla carità. La commissione
quindi, quasi d'unanime consenso, stabilì che si scrivesse: « nella comunione
"gerarchica" ». Cfr. Mod. 40 ed anche quanto è detto della
"missione canonica", sotto il n. 24. I documenti dei recenti romani
Pontefici circa la giurisdizione dei vescovi vanno interpretati come attinenti
questa necessaria determinazione delle potestà.
3) Il collegio, che non si dà senza il capo,
è detto essere: «anche esso soggetto di suprema e piena potestà sulla Chiesa
universale ». Ciò va necessariamente ammesso, per non porre in pericolo la
pienezza della potestà del romano Pontefice. Infatti il collegio
necessariamente e sempre si intende con il suo capo, "il quale nel collegio
conserva integro l'ufficio di vicario di Cristo e pastore della Chiesa
universale". In altre parole: la distinzione non è tra il romano Pontefice
e i vescovi presi insieme, ma tra il romano Pontefice separatamente e il romano
Pontefice insieme con i vescovi. E siccome il romano Pontefice e il
"capo" del collegio, può da solo fare alcuni atti che non competono
in nessun modo ai vescovi, come convocare e dirigere il collegio, approvare le
norme dell'azione, ecc. Cfr. Modo 81. Il sommo Pontefice, cui è affidata la
cura di tutto il gregge di Cristo, giudica e determina, secondo le necessità
della Chiesa che variano nel corso dei secoli, il modo col quale questa cura
deve essere attuata, sia in modo personale, sia in modo collegiale. Il romano
Pontefice nell'ordinare, promuovere, approvare l'esercizio collegiale, procede
secondo la propria discrezione, avendo di mira il bene della Chiesa.
4) Il sommo Pontefice, quale pastore supremo
della Chiesa, può esercitare la propria potestà in ogni tempo a sua
discrezione, come è richiesto dallo stesso suo ufficio. Ma il collegio, pur
esistendo sempre, non per questo permanentemente agisce con azione
"strettamente" collegiale, come appare dalla tradizione della Chiesa.
In altre parole: Non sempre è «in pieno esercizio», anzi non agisce con atto
strettamente collegiale se non ad intervalli e "col consenso del
capo". Si dice « col consenso del capo », perché non si pensi a una
"dipendenza", come nei confronti di chi è "estraneo"; il
termine "consenso" richiama, al contrario, la "comunione"
tra il capo e le membra e implica la necessità dell'atto", il quale
propriamente compete al capo. La cosa è esplicitamente affermata nel n. 22 ed
è ivi spiegata. La formula negativa "se non" (nonnisi) comprende
tutti i casi, per cui è evidente che le "norme" approvate dalla
suprema autorità devono sempre essere osservate. Cfr. modus 84.
Dovunque appare che si tratta di
"unione" dei vescovi "col loro capo", e mai di azione dei
vescovi "indipendentemente" dal papa. In tal caso, infatti, venendo a
mancare l'azione del capo, i vescovi non possono agire come collegio, come
appare dalla nozione di "collegio". Questa gerarchica comunione di
tutti i vescovi col sommo Pontefice è certamente abituale nella tradizione.
N. B.- Senza la comunione gerarchica
l'ufficio sacramentale ontologico, che si deve distinguere dall'aspetto canonico
giuridico, "non può" essere esercitato. La commissione ha pensato
bene di non dover entrare in questioni di "liceità" e "validità",
le quali sono lasciate alla discussione dei teologi, specialmente per ciò che
riguarda la potestà che di fatto è esercitata presso gli Orientali separati e
che viene spiegata in modi diversi.
+ PERICLE FELICI
Arcivescovo tit. di Samosata
Segretario generale del Concilio
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