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CARLO BO

COMMEMORAZIONE
DEL POETA SESTRESE
 
GIOVANNI DESCALZO
 
SESTRI LEVANTE, 4 GIUGNO 1964

IN OCCASIONE DELLA INTITOLAZIONE
A GIOVANI DESCALZO
DELLA SCUOLA MEDIA STATALE

 

 


Non a noi, non a chi lo ha conosciuto ed amato, a chi lo ha seguito nel breve cammino terreno e l'ha visto procedere svelto e sempre soccorso dal coraggio sono necessarie molte parole per capire il valore intimo della cerimonia d'oggi e per giustificare l'iniziativa gentile di dare il nome di Giovanni Descalzo alla Scuola Media di Sestri Levante.

Ma forse sono necessarie a chi lo ha conosciuto, a chi lo ha incontrato solo nei libri; soprattutto sembrano necessarie per i ragazzi della Scuola, per tutta la larga famiglia di gioventù che negli anni futuri si appresterà ad entrare in queste aule, nelle stesse aule in cui più di cinquanta anni fa il nostro amico ha imparato a leggere e a scrivere.

E sono anche necessarie per arginare la corrente violenta e desolante del tempo e per consentirci nell'atto amoroso della memoria una specie di esame di coscienza : quasi dovessimo cogliere da quello che siamo diventati, ciò che Descalzo ha rappresentato nel senso della purezza, della libertà spirituale e dell'amore della vita.

Tante volte — sin dai primi contatti — ci siamo chiesti che cosa costituiva la grazia, la gentilezza del suo animo e che cosa c'era in lui che lo distingueva subito dagli altri, da tutti coloro che avevano avuto maggior fortuna e una tavola di privilegi, alla partenza. Ebbene, ogni volta che tentavamo di fare un ritratto sicuro del Descalzo, eravamo costretti per prima cosa mettere l'accento sulle sue origini e a legarlo alla sua ristretta geografia familiare, là fra gli orti che una volta difendevano il corpo del paese e vedevano passare il treno, l'immagine di una civiltà che non si era ancora pianificata e ridotta.

Descalzo non lo possiamo capire senza la casa dei nonni, senza il dato del sacrificio e della pena. La sua partenza è stata dura, tanto dura quanto semplice e a presidiare, ad alimentare la parte viva e la fonte della sua poesia si riconoscevano subito le immagini della donna provata e sofferente che è stata sua madre e della nonna che fondava la sua speranza sul numero dei figli, sull'idea stessa della famiglia. Ma stiamo attenti a non trarre delle conseguenze affrettate.  Descalzo non ha mai fatto riferimento a questa sua condizione per rivendicare delle ragioni comuni, non se n'è mai servito per mettere in scena se stesso.

Al contrario, ciò che per molti altri scrittori è stato radice e umore di ribellione, per lui è stato soltanto limite critico, termine di coscienza e invito a restare sulle cose concrete e infine spinta a tradurre in poesia, intesa come libertà, lo stesso sacrificio e lo stesso dolore.

Se noi oggi rileggiamo il poemetto « Uligine » con cui nel '29 si era fatto conoscere con l'avallo di uno dei suoi primi amici, Piero Operti, ciò che ci colpisce di più è proprio quella facoltà di distacco, quella sua capacità naturale di ricondurre la sua esperienza dolente in una visione più larga. Descalzo è diventato poeta per un atto di scelta, di piena coscienza e, se dovessimo sin d'ora anticipare un giudizio completo, dovremmo dire che dalla poesia è partito ma anche alla poesia è arrivato. La poesia, dunque, come atto di affrancamento dall'esistenza, dallo squallore e dalle pene : non tanto come un premio ma piuttosto come una presa di coscienza. Ed ecco dove si distingueva dagli altri poeti del suo tempo e poteva assumere nella particolare famiglia dei poeti liguri che vantava nomi come quelli di Mario Novaro, Camillo Sbarbaro, Eugenio Montale, Ceccardo Roccatagliata Ceccardi e, giù giù, fino ai più giovani, agli amici che lo avrebbero accolto nella casa di Circoli, una sua fisionomia, ben precisa, ben definita. Se per gli altri era indispensabile fare un riferimento di natura culturale, per Descalzo la cosa non era assolutamente indispensabile e già nel dettato pulito, quasi scolastico di Uligine c'erano, sì, rievocazioni, echi, allusioni ma c'era però lo stacco, c'era il segno di una partenza diversa.

Così, quando si dovette spiegare l'inserimento di Descalzo nella famiglia di Circoli fra Grande, Bianchi e Barile, fu giocoforza ricorrere a degli strumenti di comodo e allora nacque lo schema dell'autodidatta. Ma si trattava di una suggestione passeggera, per gran parte gratuita e autodidatta, in quel caso, voleva dire che la letteratura il Descalzo l'aveva incontrata all'aria aperta, nei campi, sulla riva del mare. Soprattutto voleva dire che fin verso i trent'anni gli era stato difficile guadagnarsi il pane, vivere, tirare avanti la giornata.

Oggi è molto difficile spiegare ai giovani come fosse articolata l'esistenza degli anni del primo novecento, impossibile alludere a tutti gli ostacoli che si frapponevano fra un ragazzo di ambizioni e di buona volontà e una società che molto più di oggi si fondava su distinzioni nette e su dei regolamenti fissati in modo arbitrario e tradizionale. Naturalmente, quella prima etichetta giovò e nello stesso tempo nocque al giovane poeta di Uligine: il metro della distinzione si traduceva im­mediatamente in un pretesto di esteriorità, quasi che si dovessero spiegare le qualità e i meriti del poeta con il peso delle difficoltà, degli ostacoli e la ruota delle sue pene. Descalzo aveva fatto un po' di tutto, al momento di lasciare le elementari di Portobello e la dolorosa e staffilante riga del maestro Martinangeli, che cosa c'era per Descalzo? La vita che facevano i suoi zii nelle terre fra la ferrovia e la Tubifera o la vita di fabbrica o il mestiere di suo padre, il muratore. Direi che Descalzo ha assaggiato un po' di tutto, prima di toccare la sponda del territorio che gli era più congeniale, quello della tipografia. E non è un caso che la tipografia confinasse con la scuola: erano due simboli di quella che sarebbe stata la sua esistenza.



Se ci aggiungiamo il mare, questo mare modesto che egli ha cominciato a conoscere sugli scogli dell'Annunziata nei giorni di scuola e di vacanza, abbiamo tutta la carta della sua vita. La vita da guadagnare e possiamo dire che le cose non sono cambiate con gli anni, con la fama che era venuta quasi subito, e poi dopo, quando anche Descalzo sembrò trovare una sistemazione borghese e si sposò e mise su famiglia.

Non cambiarono perché Descalzo fino all'ultimo giorno è vissuto provvisoriamente, cercando di integrare il modesto stipendio di impiegato comunale — e forse neppure di ruolo — con i proventi modestissimi e spesso irrisori delle collaborazioni. Descalzo è rimasto fedele al suo paese, a un modo di esistenza estremamente umile e per quanto viaggiasse, per quanto girasse il mondo non poteva pensare in alcun modo di tentare l'avventura lunga e prendere la strada di Milano o di Roma, come avevano fatto un po' tutti gli amici e i poeti liguri del tempo.

Si dicono queste cose non per gusto di cronaca ma per far capire che Descalzo nutriva le sue ambizioni su un terreno diverso e che le sue speranze erano legate a confini ben precisi : senza l'idea concreta del suo paese avrebbe spento il fuoco della sua ispirazione e si sarebbe ritenuto responsabile di tradimento.

Il dolore era cosi riscattato dalla coscienza, il gusto dell'avventura giustificato dalla certezza di avere una casa, una famiglia, di obbedire allo spirito di creazione. Perché — e questo lo dico per chi non lo ha conosciuto — Descalzo non è diventato mai un letterato né forse l'avrebbe potuto.

Ed ecco che segniamo un'altra sua particolarità: il letterato della tradizione deve fare uno sforzo per parlare con gli altri, Descalzo non ha mai conosciuto questi problemi. Gli bastava parlare per farsi capire dai suoi, dal popolo, dalla parte più autentica di quel mondo in cui magari a volte si compiaceva di comparire come « escluso » mentre in realtà era sempre a posto, come uno spirito soccorso dalla grazia della partecipazione.

Tanto più che aveva coscienza di questo e nell'accentuare questa sua posizione non cedeva al gusto di stupire o di fare il populista o l'imitatore di Jack London e di Gorki. Il contatto con gli umili, con gli uomini senza storia che vangano in silenzio il campo sterminato della nostra storia di sangue e di fatiche, era per lui spontaneo e necessario. Se cercate di registrare quella che è stata la traiettoria del suo discorso poetico, vedrete che dopo un breve periodo di letteratura, egli seppe immediatamente riprendersi e staccare quelle domande dell'inizio che hanno condizionato la sua esistenza.

Del resto, se leggete il suo primo romanzo « Gli esclusi », in cui ancora una volta la materia gli è fornita da una vicenda di cui tutti i sestresi sono stati spettatori, non troverete mai un accento forzato e vedrete che la realtà è vinta e sanata dalla poesia. …
Descalzo non avendo dietro di sé modelli, né appartenendo a scuole letterarie di nessun genere aveva saputo portare aria, libertà in un mondo che sembrava destinato alla degradazione e anche nella lettura delle nostre miserie aveva saputo inserire una frazione di avventura, di gioia di vivere, riuscendo a dare indirettamente una lezione che val la pena di commentare qui brevemente, perché in essa riconosciamo il suo umilissimo e prezioso testamento d'uomo.

Confrontato alla luce dei nostri giorni, Descalzo poeta e romanziere risulta senza forza, risulta devitalizzato. Ma si tratta di una impressione, errata, perché involontariamente mettiamo l'accento sulla materia iniziale del dolore, dell'ingiustizia sociale, della divisione.

Oggi uno scrittore avrebbe trasformato tutto questo in un libro di protesta, la realtà vissuta si sarebbe fatalmente convertita in offesa e violenza. Descalzo non ha fatto nulla di tutto ciò, anzi ha tenuto a spegnere, a ridurre, a persuadere il lettore di un'altra ragione più alta. Ciò significa che per lui il discorso non si chiudeva tra se stesso e le cose ma il termine vero, il termine assoluto del dibattito stava in qualcuno più in alto, diverso e esigeva lo specchio del mistero. Così se oggi dovessimo immaginarcelo, se dovessimo cercare di rendere ai giovani la sua immagine più reale, per forza ameremmo rappresentarcelo come uno spirito che scruta la realtà e ha paura delle risposte immediate, chiare, le risposte che servono di pretesto e ingannano.
 


Tutte le volte che riandiamo la sua esistenza e ce lo rivediamo accanto, di corsa, sempre trafelato, tra l'ufficio e la casa, fra i viaggi oltre oceano e le peregrinazioni nell'entroterra ma sempre fiducioso, sempre pronto e disposto a vivere, tutte le volte che lo vediamo sospeso sul discorso che sta facendo, non come uno spirito che ha la chiave della verità, che aspetta delle risposte facili, neppure come un piccolo arbitro, ma soltanto come uno che ha dato un senso alla vita e sa che la chiave dei nostri giorni non è nelle nostre mani ma resta nascosta nelle cose che ci danno dolore e ci esaltano. C'era, dunque, in lui un sorprendente equilibrio che lo portava a non alzare mai la voce e lo lasciava sempre dentro gli uomini, dentro le cose e non al di fuori o al di sopra. Quella che abbiamo chiamato la sua partecipazione traeva la forza da questo atteggiamento di umiltà e di verità e più andava avanti negli anni, più aveva coscienza dei limiti e dei doveri dello scrittore che, secondo lui, era per l'appunto tenuto a dare un posto, al mistero. Lo aveva detto subito:

Quando annottava e ognun lasciava il campo,
con tutto il peso delle membra rotte,
gli piaceva giacersi abbandonato
sulla terra vangata: penetrava
il segreto che il grave corpo chiude
entro di sè, lentamente languiva
affondato in un pallido torpore
ne la notte con fredda ala scacciava.

Allora un male ed un bisogno vago
di beni inesprimibili dall'anima
fonda saliva e faceva soffrire.

 

Così come non aveva tardato a verificare l'origine di questo dolore, la solitudine:

Erravo al margine dei cimiteri
già da ragazzo, sperdendomi al buio;
vinsi tutti i timori fallaci
irridendo i fantasmi e le tenebre;
ed ora ho bisogno di vivere
tra aliti e voci umane,
perchè più non posso essere solo
temendo me stesso.

Ma è una solitudine che la certezza delle sue origini basta a vincere. C'era in Descalzo una grossa facoltà di recupero nell'immagine del suo paese:


M'adagio, come a ritrovar l'infanzia,
sulla sabbia che torna ardente e affoca,
nel suo bagliore meridiano, il lento
propagarsi d'immagini marine.

Abbraccio il mare, e un'esultanza nuova,
giovanile, di guizzi ho nelle reni,
nelle libere mani che diguazzano,
sul capo che s'immerge e si sprofonda.

Estate, estate, mi ritorni amica,
e il mondo, ove mi scopro rinnovato,
così vergine appare in luce piena
che non so più come vi giunsi un giorno.

Tutto mi si rischiara, e in sè m'assorbe
quest'alito, che abbrucia sensi e pene
per ricrearmi intatto e darmi il colmo
stupore ove dilegua ogni fatica.

Santuari lontani, bianche chiese
sulle colline, ove a pregar ritorno
come non seppi ancora, vigilanti
scopro a difender la mia casta pace.

 

E' questa una delle poesie che restituiscono meglio il tipo di liberazione attuata da Descalzo, per cui quando egli parla di « casta pace » ci accorgiamo che indica una categoria nuova e trova l'equilibrio così difficile fra poesia e vita, fra letteratura e vita, fra quello che diciamo di noi e quello che noi facciamo di noi stessi. Da questo punto di vista, pochi hanno avuto eguale fortuna: pochi scrittori possono dire come Descalzo d'aver trovato qualcosa di fermo, di sicuro, che non tradisce. E che non dovesse tradire Descalzo ne avrebbe ancora una volta avuto una riprova dura e difficile.

Aveva scritto queste parole negli anni di preparazione alla guerra e certo per la parte della sua bontà, della sua fiducia nell'onestà degli uomini, specialmente di quelli che avevano illuso la sua gioventù, Giovanni Descalzo non poteva immaginare di quali dolori sarebbe stato colmo l'immediato futuro. Venne la guerra;

Descalzo ci tenne a mantenere i suoi impegni e se per un tempo poté nutrire le sue speranze dei colori più belli del suo eterno paese ( « Paese tra il mare e gli ulivi », così vicino che a sera ti tocco — se allungo il cannocchiale dal terrazzo...), non tardò negli anni cupi della disperazione e della ferocia a riconoscere l'altro volto della nostra storia:

 

Rombi e spari, spari e rombi,
null'altro : e sirene d'allarmi,
e spasimi nel sangue, e rimbombi
nel capo e nelle arterie.

La mia piccina schiacciata:
schiacciata tra le mie braccia
col capo penzoloni come un passero tramortito.

E a nulla giova,
nella voragine, urlare e dannarsi,
schiacciati tutti da questa, che non cessa,
carneficina orrenda, di sperduti
nella follia delle stragi
sterminatrici.
 
Oh, Signore, oh Signore,
se la vita è quel bene
che ci fa trepidi e muti,
che ci fa ansiosi e proni,
libera il cuore umano
dal suo odio vorace.

 

 



Era l'anno 1944, Descalzo veniva colpito nella parte più gelosa della sua fede umana ma sarebbe stato non conoscerlo pensare che l'avversità, il dolore ne potessero modificare la fisionomia.
 

Nei pochi anni che gli sarebbero rimasti da vivere, fino a quando la morte non lo avrebbe colto di sorpresa in una sera di settembre mentre si preparava a predisporre la sistemazione della nuova casa, Descalzo non doveva far altro che approfondire la sua casta interrogazione della vita, ancora una volta anteponendo l'insegna della speranza a quella della desolazione e del rifiuto.

Per questo varrà sempre come sua ultima parola e meglio come sua parola in assoluto questo breve componimento :

 

Chi ci vieta di giungere, …
sereni, al limitare della sera? …

Ogni giorno è il corruccio senza nome
che punge, incerto, ogni risorta brama.

Se ci bastasse l'esile
felicità che ci incorona, innanzi
alla vera letizia del sorriso
nato da chi ci attende e leva alucce
di manine a sentire il nostro fiato,
chiusa sarebbe oltre l'uscio ogni oscura
incertezza di giorni e di vicende.

Quando avremo la forza di sospingere
oltre la soglia ogni ricordo ingrato?

 

E', dunque, una parola di fede che Descalzo ci ha lasciato e su cui tocca a noi insistere, oggi, in modo particolare, inaugurandosi la sua scuola. Così com'è una parola di speranza che egli lascia ai giovani per mezzo della sua bambina, con cui si può dire ha dialogato gli ultimi anni della sua vita. Sarebbe retorica se alla base di ogni suo movimento poetico non ci fosse — e come evidente — questo senso di continuità umana, questo senso delle nostre, reali e concrete possibilità, questa verità dei nostri limiti. La poesia non ha suggerito a Giovanni Descalzo evasioni, tradimenti ma solo ritorni, ripensamenti, approfondimenti. Né la solitudine né il dolore ne hanno fatto un profeta e un ribelle : la vittoria è rimasta alla sua casta fantasia, senza per questo dimenticare quelle che sono le pene di chi ci sta vicino, le pene conosciute e quelle sconosciute. E' di oggi la curiosa domanda di uno scrittore famoso francese : che peso ha la nostra letteratura in un mondo di affamati? Descalzo probabilmente si era fatta questa stessa do­manda, lui che per l'appunto apparteneva alla famiglia degli esclusi e dei diseredati, ma se se l'era fatta, non c'è dubbio che aveva anche trovato la risposta da dare a questi momenti di sgomento e di conforto dell'anima umana. La pazienza, l'umiltà, la partecipazione : leggete Descalzo, ritornate ai suoi versi e alle sue prose, non avrete mai altra risposta che questa di una generosa e silenziosa presenza.

E voi che mi avete ascoltato, soprattutto voi ragazzi che avrete l'onore di tornare in queste sue aule e di affacciarvi sul mare della sua prima poesia ricordate che ciò che rende prezioso e inimitabile il volto di Giovanni Descalzo è proprio questo modo di essere leali con la vita, questa capacità di raggiungere, oltre le nostre per­sonali barriere, il senso alto della carriera terrena, l'alito religioso di una presenza diversa che placa l'ansia e la pena.

In fondo, Descalzo col suo smilzo libro di versi ci ha ricordato questo punto centrale e che noi per amore e per fedeltà non dobbiamo né dimenticare né tradire, e, cioè, che solo pagandola si ha diritto alla vita e che solo l'umiltà nel dolore e la forza della coscienza ci consentono il riscatto dal male e la stretta della speranza.


 

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