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LA "TRASFIGURAZIONE"

DI RAFFAELLO SANZIO

1518-1520

PINACOTECA VATICANA - CITT
À DEL VATICANO

 



          Liturgia della Festa della Trasfigurazione del Signore
 
               6 agosto - Trasfigurazione del Signore - A (f)
               6 agosto - Trasfigurazione del Signore - B (f)
               6 agosto - Trasfigurazione del Signore - C (f)
               6 agosto - In Trasfiguratione D.N.J.C.             
 



La "Trasfigurazione"
è l'ultima opera dipinta da Raffaello prima di morire

 

Il quadro più bello del mondo

 

Custodito in un museo perde gran parte della sua capacità di parola
 

di Marco Agostini

 

Nel 1517 il cardinale Giulio de' Medici, poi Clemente VII, per la sua cattedrale di Narbona commissionò a Raffaello la Trasfigurazione. Il pittore vi lavorò fino al sopraggiungere della morte il 6 aprile 1520. Nondimeno il cardinale, anziché spedirla in Francia, trattenne l'opera a Roma facendola collocare sull'altare maggiore della chiesa di San Pietro in Montorio.


Oltralpe il dipinto ci andò con Napoleone nel 1797 rimanendovi per una quindicina d'anni; fu, poi, restituito e sistemato nella Pinacoteca Vaticana.


Opera ultima di una stagione di eccezionale fervore creativo, la Trasfigurazione è dominata da una complessa elaborazione formale e da una straordinaria scioltezza esecutiva. Giorgio Vasari, alla fine della Vita di Raffaello da Urbino pittore et architetto, annota che: "Gli misero alla morte al capo nella sala, ove lavorava, la tavola della Trasfigurazione che aveva finita per il cardinale de' Medici, la quale opera, nel vedere il corpo morto e quella viva, faceva scoppiare l'anima di dolore a ognuno che quivi guardava".


La meraviglia e le lacrime innanzi all'opera d'arte, alla bellezza, non sono solamente tòpoi della letteratura d'arte; nell'ossimorico accostamento "il corpo morto e quella viva" c'è il dramma dell'esistenza, della vita come continuo confliggere con la morte, Mors et Vita duello conflixere mirando: Dux vitae mortuus, regnat vivus, dell'arte che insegna "come l'uom s'etterna".


La rivelazione del Tabor, espressa con il linguaggio rasserenante e divinizzante dell'arte, getta luce sul volto oscuro della terribile nemica e assicura che di lì si giunge alla gloria. La tavola era considerata già da Vasari il testamento spirituale del pittore: "per mostrare lo sforzo et il valor dell'arte nel volto di Cristo, che finitolo, come ultima cosa che a fare avesse, non toccò più pennelli, sopragiugnendoli la morte".


L'evangelista Matteo - parrebbe esser lui l'apostolo in primo piano a sinistra - sulla cui scorta Raffaello dipinge, colloca l'episodio della Trasfigurazione durante il viaggio di Gesù a Gerusalemme, tra il primo e il secondo annuncio della passione, prima della guarigione del giovane lunatico. La narrazione evangelica esplicita l'intenzione di Gesù di prevenire negli apostoli lo scandalo della croce e di manifestare il significato redentivo della sua morte.


In alto si osserva la teofania del Tabor e in basso la presentazione del giovane ai discepoli di Cristo in assenza del Maestro. Sul monte il Cristo sfolgorante "vestito di colore di neve, pare che aprendo le braccia et alzando la testa, mostri la essenza e la deità di tutt'e tre le Persone unitamente ristrette nella perfezzione dell'arte". Il Cristo si libra tra le nubi, nel classico atteggiamento conferitogli da Raffaello, al centro di un ideale disco tracciato dai corpi di profeti e apostoli. Lo affiancano Mosè ed Elia, ovvero la legge e la profezia, ai piedi Pietro, Giacomo e Giovanni i testimoni privilegiati dell'avvenimento, in disparte - come già il patrono di Ravenna nel mosaico paleocristiano di Sant'Apollinare in Classe - i santi Felicissimo e Agapito commemorati dal martirologio lo stesso giorno della festa liturgica.


La Trasfigurazione avviene in un clima calmo, governato dalla simmetria, avvolto da un'intensa luminosità che esalta la superna coerenza delle leggi lineari, plastiche e cromatiche. Alle pendici del Tabor, l'azione è imperniata sulla statuaria donna inginocchiata in primo piano, "la quale è principale figura di quella tavola".


Inizialmente Raffaello voleva dipingervi la madre del ragazzo, ma ora vi vediamo la Fede, splendida della stessa luce di Cristo. Ha l'ardire e il tratto fiero e nobile di chi chiede per ottenere. È lei a mettere in relazione il gruppo degli apostoli e quello del padre dell'indemoniato.


Il convulso ma ben compaginato episodio è avvolto nell'oscurità. L'intreccio serrato degli sguardi svela l'impossibilità degli apostoli di compiere il miracolo: il demonio a loro non obbedisce. I loro gesti rinviano a un'autorità più grande, al momento assente. Lo spasmo in verticale delle braccia e il volto spiritato del ragazzo, esprimono lo stravolgimento dell'ordine della creazione operato da Satana: stabilisce un rapporto diretto tra l'alto e il basso, tra il cielo e la terra, tra Colui che libera e colui che incatena, tra Colui che esalta e colui che disprezza, tra Colui che dà all'uomo bellezza e colui che, invece, gliela toglie. Chi libera è il Cristo la cui umanità sul Tabor arretra per un istante scoprendone la divinità.


Anche sul Golgota la sua umanità arretrerà tanto da "non esser più d'uomo il suo aspetto", tuttavia, in forza di quel sacrificio, per la carne piagata della divinità crocifissa, l'uomo sarà liberato dallo spirito del male e il mondo riavrà la sua antica bellezza. I numerosi disegni preparatori di Raffaello dimostrano anche per questa scena una lunga e complessa elaborazione; se l'intervento degli allievi ci fu, fu solo per completare l'opera. L'enfatica gestualità, l'animazione complessa si rispecchiano nel dinamismo nuovo della composizione da cui traspare il superbo classicismo raffaellesco, e un naturalismo tragico accentuato dalla differenza netta e morbida delle ombre.


Il dipinto, sottoposto agli schianti violenti dell'ombra e della luce, impone la visione da vicino e da lontano: in chiesa avrebbe dovuto favorire il movimento di avvicinamento dei fedeli all'altare. Sviluppata verticalmente, la pala sull'altare avrebbe dovuto offrire la scena della liberazione al sacerdote che celebrava innanzi da una posizione ravvicinata, e quella della Trasfigurazione ai fedeli che più discosti contemplavano quanto il mysterium fidei velava e rivelava.


Al sacerdote ricordava il monito di Gesù circa l'incapacità degli apostoli di guarire e liberare il ragazzo lunatico: "Per la vostra poca fede", in alcuni manoscritti per la vostra "nessuna fede", nella Vulgata per incredulitatem. "Questa razza di demoni si scaccia con la preghiera e il digiuno" (Matteo, 18, 21). L'incredulità può ostacolare la liberazione dei fratelli. La Fede, in ginocchio, con il volto girato agli apostoli e le mani indicanti il ragazzo posseduto, mostra il compito: "Ora che il Maestro non è più con voi, a voi è affidato l'incarico di ascoltare la supplica di aiuto dell'umanità assediata dal maligno e di liberarla nel nome di Cristo secondo il suo comando".


L'incredulità è all'origine del non esercizio dell'autorità pur essendone stati investiti. L'incredulità impedisce di vedere con gli occhi della fede la "trasfigurazione" del pane e del vino nel Corpo, Sangue, anima e divinità di Cristo. I cenni degli apostoli convogliano l'attenzione dal basso all'alto. Un tempo sostenevano la capacità visiva del sacerdote al momento dell'elevazione, facendogli scorgere nella candida Ostia il Cristo sfolgorante in cielo e invitavano i fedeli ad avvicinarsi al mistero.

 

Un'opera d'arte sacra posta in un museo, anche con le migliori intenzioni e forse più custodita, perde tre quarti della sua capacità di parola solo per il fatto che è posta fuori del contesto per il quale è stata creata. Oggi, nella Pinacoteca, la Trasfigurazione è solo un oggetto, ancorché tra i più eccellenti, allineato tra i molti, ma privo della forza che gli proveniva dall'essere parte del mistero liturgico, dello spazio della preghiera. La delibera che giustificava il mosaico in basilica sottolineava il desiderio di avere, se non altro, una copia "del più bel quadro che abbia il mondo". Ma ora che l'originale è a pochi passi nel museo, pare innaturale accontentarsi in chiesa della copia.
 


© L'Osservatore Romano 6 agosto 2010
 

 




La Trasfigurazione da Pietro Crisologo a Raffaello


L’amore desidera vedere ciò che ama

 

I discepoli raffigurati nella parte inferiore del dipinto dell’urbinate
sembrano aver già capito l’importanza della centralità della preghiera

 

di Timothy Verdon

 

Più di ogni altra cosa, l’essere umano vuole vedere Dio. Tale innata aspirazione viene poi intensificata nei credenti dall’amore, come afferma san Pietro Crisologo in una pagina dal sapore quasi platonico: «L’amore genera il desiderio, aumenta d’ardore e l’ardore tende al velato». E spiega: «L’amore non può trattenersi dal “vedere” ciò che ama; per questo tutti i santi stimarono ben poco ciò che avevano ottenuto, se non arrivavano a vedere Dio. Perciò l’amore che brama vedere Dio, benché non abbia discrezione, ha tuttavia ardore di pietà. Perciò Mosè arriva a dire: “Se ho trovato grazia ai tuoi occhi, fammi vedere il tuo volto”» (Sermones, 147, Patrologia Latina 52, 594-95).

 

Nella festa della Trasfigurazione, ricordiamo che tale ardente brama viene perfettamente soddisfatta in Cristo, come egli stesso conferma dicendo: «Chi ha visto me, ha visto il Padre» (Giovanni, 14, 9). Chi guarda con fede Cristo vede Dio cioè, e ancora Bonaventura descrive la gioia che ne consegue, caratterizzando il Salvatore come «la via e la porta (...) la scala e il veicolo (...) il propiziatorio collocato sopra l’arca di Dio». Dice che «chi si rivolge a questo propiziatorio con dedizione assoluta, e fissa lo sguardo sul crocifisso Signore mediante la fede, la speranza, la carità, la devozione, l’ammirazione, l’esultanza, la stima, la lode e il giubilo del cuore, fa con lui la Pasqua, cioè il passaggio ». Specifica infine le condizioni necessarie per «passare» dalla mera visione dell’uomo Gesù alla contemplazione, in lui crocifisso, del volto di Dio: «Perché questo passaggio sia perfetto, è necessario che, sospesa l’attività intellettuale, ogni affetto del cuore sia integralmente trasformato e trasferito in Dio. È questo un fatto mistico e straordinario che nessuno conosce se non chi lo riceve. Lo riceve solo chi lo desidera, non lo desidera se non colui che viene infiammato dal fuoco dello Spirito Santo, che Cristo ha portato in terra» (Itinerario della mente in Dio, 7).

 

La contemplativa per antonomasia è allora Maria, che, pura di cuore sin dalla concezione, vide Dio in se stessa appunto come Vita. Un artista del primo Cinquecento, Piero di Cosimo, la raffigura in questi precisi termini, come contemplativa dal volto estatico che, pregando, concepisce colui che è la Vita, Cristo. Che si tratti del concepimento di Cristo è indubbio, perché la formula iconografica normalmente usata per questo momento — la scena dell’Annunciazione — è infatti «scolpita» sulla base del piedistallo di Maria, e vi è inoltre un libro aperto per terra davanti al piedistallo (allusione al Verbo che si fa carne nel grembo di Maria, a cui del resto l’artista chiama l’attenzione posando la destra della Vergine sul suo ventre). Ma Piero di Cosimo focalizza l’attenzione soprattutto sul giubilo mistico con cui Maria accoglie lo Spirito, così traducendo l’evento storico in avvenimento interiore, come erano soliti fare i padri della Chiesa. Occorre custodire la verità di Cristo nella mente per poi concepire il Salvatore nel cuore: ecco altre caratterizzazioni dell’orazione contemplativa. Parlando di questo tipo d’esperienza, san Giovanni Crisostomo insegna che: «la preghiera o dialogo con Dio è un bene sommo. È, infatti, una comunione intima con Dio. Come gli occhi del corpo vedendo la luce ne sono rischiarati, così anche l’anima che è tesa verso Dio viene illuminata dalla luce ineffabile della preghiera (...) L’anima, elevata per mezzo suo in alto fino al cielo, abbraccia il Signore (...) come il bambino, che piangendo, grida alla madre, l’anima cerca ardentemente il latte divino, brama che i propri desideri vengano esauditi e riceve doni superiori a ogni essere visibile. La preghiera funge da augusta messaggera dinanzi a Dio, e nel medesimo tempo rende felice l’anima perché appaga le sue aspirazioni» (Omelia VI sulle Beatitudini, Patrologia Graeca, 44, 1263-1266).

 

Servendoci della terminologia del Crisostomo, possiamo dire che, se in Maria è perfezionata la capacità umana di ardere di desideri celesti, in Cristo suo Figlio tale capacità ha la sua fonte.

 

È Cristo a volerci contemplativi, cioè: Cristo che ci ha fatto conoscere il nome del Padre suo e che ce lo fa conoscere sempre più abbondantemente, perché l’amore con cui Questi ha amato Cristo sia in noi e con esso anche Cristo sia in noi (Giovanni, 17, 26).

 

La comunione tra Padre e Figlio e la volontà di Cristo che la sua gloria sia contemplata dai discepoli traspaiono in un preciso evento neotestamentario, la Trasfigurazione, il massimo episodio di orazione descritta nei vangeli prima dell’orto di Getsemani. Avvenne otto giorni dopo l’annuncio da parte del Salvatore della passione e la misteriosa assicurazione che alcuni tra gli ascoltatori non sarebbero morti «prima d’aver visto il regno di Dio» (Luca, 9, 23-27). Allora «Gesù prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni e salì sul monte a pregare. Mentre pregava, il suo volto cambiò d’aspetto e la sua veste divenne candida e sfolgorante. Ed ecco, due uomini conversavano con lui: erano Mosé ed Elia, apparsi nella gloria, e parlavano dell’esodo, che stava per compiersi a Gerusalemme. Pietro e i suoi compagni erano oppressi dal sonno; ma quando si svegliarono videro la sua gloria e i due uomini che stavano con lui. Mentre questi si separavano da lui, Pietro disse a Gesù: “Maestro è bello per noi essere qui. Facciamo tre capanne, una per te, una per Mosè, una per Elia”. Egli non sapeva quello che diceva. Mentre parlava così, venne una nube e li coprì con parlava la sua ombra. All’entrare nella nube ebbero paura. E dalla nube uscì una voce che diceva: “Questi è il Figlio mio, l’eletto; ascoltatelo!”» (Luca, 9, 28-35).

 

La più celebre raffigurazione di questo evento è la grande pala iniziata da Raffaello Sanzio e ultimata da collaboratori dopo la morte del maestro nel 1520. Nella zona alta, eseguita interamente da Raffaello, Cristo è rappresentato in preghiera estatica, con le mani alzate nel gesto antico, che qui allude anche alla croce annunciata otto giorni prima; appare poi tra Mosé ed Elia, rappresentanti della Legge e dei Profeti, con le vesti e il volto trasfigurati. Il Salvatore cambia d’aspetto — viene «trasfigurato» cioè — perché, mentre interroga l’antica legislazione e la tradizione profetica d’Israele, comprende che davvero il messia dovrà soffrire e morire: il racconto lucano dell’evento specifica l’argomento della conversazione dei tre, «l’esodo che stava per compiersi a Gerusalemme», cioè la morte di Gesù. La sua preghiera consiste in un atto d’interiore accettazione, ed è allora che dalla nube risuona la voce del Padre che lo riconosce come l’amato Figlio. Nella parte inferiore della composizione di Raffaello viene illustrato invece l’episodio neotestamentario che segue la Trasfigurazione, la guarigione di un ragazzo epilettico. Il padre del giovinetto l’aveva condotto ai discepoli di Gesù, chiedendo che scacciassero il demonio che sin dall’infanzia aveva tormentato il ragazzo, rischiando di ucciderlo, ma i discepoli non ne erano capaci: è la scena illustrata nel dipinto, con a destra il giovane tenuto dal padre e i discepoli gesticolanti a sinistra. Sceso dal monte, Gesù guarirà il ragazzo e lo restituirà al padre, dopo essersi indignato per l’incredulità dei suoi discepoli, che non erano stati capaci di compiere il miracolo (Luca, 9, 41); così anche nella versione di Matteo, dove, quando i discepoli gli domandano perché essi non erano stati in grado di compiere la guarigione, risponde: «Per la vostra poca fede» (Matteo , 17, 20a). Nel vangelo di Marco, invece, alla stessa domanda Cristo risponde che «questa specie di demoni non si può scacciare in alcun modo, se non con la preghiera » (Marco , 9, 29).

 

Nel dipinto di Raffaello i discepoli nella parte inferiore della composizione sembrano aver già capito questa centralità della preghiera, e mentre alcuni di essi indicano il ragazzo altri portano l’attenzione sul monte, dove il Salvatore viene trasfigurato mentre prega in preparazione all’atto d’orazione supremo, il sacrificio vespertino del Calvario.

 


© L'Osservatore Romano 6 agosto 2011

 

 

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