Liturgia della Festa della Trasfigurazione del
Signore
6
agosto - Trasfigurazione
del Signore - A
(f)
6
agosto - Trasfigurazione
del Signore - B
(f)
6
agosto - Trasfigurazione
del Signore - C
(f)
6
agosto - In
Trasfiguratione D.N.J.C.
La "Trasfigurazione"
è l'ultima opera dipinta da Raffaello prima di
morire
Il quadro più bello del mondo
Custodito in un museo perde gran parte della sua
capacità di parola
di Marco Agostini
Nel 1517 il cardinale Giulio de' Medici, poi
Clemente VII, per la sua cattedrale di Narbona
commissionò a Raffaello la Trasfigurazione.
Il pittore vi lavorò fino al sopraggiungere della
morte il 6 aprile 1520. Nondimeno il cardinale,
anziché spedirla in Francia, trattenne l'opera a
Roma facendola collocare sull'altare maggiore della
chiesa di San Pietro in Montorio.
Oltralpe il dipinto ci andò con Napoleone nel 1797
rimanendovi per una quindicina d'anni; fu, poi,
restituito e sistemato nella Pinacoteca Vaticana.
Opera ultima di una stagione di eccezionale fervore
creativo, la Trasfigurazione è dominata da
una complessa elaborazione formale e da una
straordinaria scioltezza esecutiva. Giorgio Vasari,
alla fine della Vita di Raffaello da Urbino
pittore et architetto, annota che: "Gli misero
alla morte al capo nella sala, ove lavorava, la
tavola della Trasfigurazione che aveva finita per il
cardinale de' Medici, la quale opera, nel vedere il
corpo morto e quella viva, faceva scoppiare l'anima
di dolore a ognuno che quivi guardava".
La meraviglia e le lacrime innanzi all'opera d'arte,
alla bellezza, non sono solamente tòpoi della
letteratura d'arte; nell'ossimorico accostamento "il
corpo morto e quella viva" c'è il dramma
dell'esistenza, della vita come continuo confliggere
con la morte, Mors et Vita duello conflixere
mirando: Dux vitae mortuus, regnat vivus,
dell'arte che insegna "come l'uom s'etterna".
La rivelazione del Tabor, espressa con il linguaggio
rasserenante e divinizzante dell'arte, getta luce
sul volto oscuro della terribile nemica e assicura
che di lì si giunge alla gloria. La tavola era
considerata già da Vasari il testamento spirituale
del pittore: "per mostrare lo sforzo et il valor
dell'arte nel volto di Cristo, che finitolo, come
ultima cosa che a fare avesse, non toccò più
pennelli, sopragiugnendoli la morte".
L'evangelista Matteo - parrebbe esser lui l'apostolo
in primo piano a sinistra - sulla cui scorta
Raffaello dipinge, colloca l'episodio della
Trasfigurazione durante il viaggio di Gesù a
Gerusalemme, tra il primo e il secondo annuncio
della passione, prima della guarigione del giovane
lunatico. La narrazione evangelica esplicita
l'intenzione di Gesù di prevenire negli apostoli lo
scandalo della croce e di manifestare il significato
redentivo della sua morte.
In alto si osserva la teofania del Tabor e in basso
la presentazione del giovane ai discepoli di Cristo
in assenza del Maestro. Sul monte il Cristo
sfolgorante "vestito di colore di neve, pare che
aprendo le braccia et alzando la testa, mostri la
essenza e la deità di tutt'e tre le Persone
unitamente ristrette nella perfezzione dell'arte".
Il Cristo si libra tra le nubi, nel classico
atteggiamento conferitogli da Raffaello, al centro
di un ideale disco tracciato dai corpi di profeti e
apostoli. Lo affiancano Mosè ed Elia, ovvero la
legge e la profezia, ai piedi Pietro, Giacomo e
Giovanni i testimoni privilegiati dell'avvenimento,
in disparte - come già il patrono di Ravenna nel
mosaico paleocristiano di Sant'Apollinare in Classe
- i santi Felicissimo e Agapito commemorati dal
martirologio lo stesso giorno della festa liturgica.
La Trasfigurazione avviene in un clima calmo,
governato dalla simmetria, avvolto da un'intensa
luminosità che esalta la superna coerenza delle
leggi lineari, plastiche e cromatiche. Alle pendici
del Tabor, l'azione è imperniata sulla statuaria
donna inginocchiata in primo piano, "la quale è
principale figura di quella tavola".
Inizialmente Raffaello voleva dipingervi la madre
del ragazzo, ma ora vi vediamo la Fede, splendida
della stessa luce di Cristo. Ha l'ardire e il tratto
fiero e nobile di chi chiede per ottenere. È lei a
mettere in relazione il gruppo degli apostoli e
quello del padre dell'indemoniato.
Il convulso ma ben compaginato episodio è avvolto
nell'oscurità. L'intreccio serrato degli sguardi
svela l'impossibilità degli apostoli di compiere il
miracolo: il demonio a loro non obbedisce. I loro
gesti rinviano a un'autorità più grande, al momento
assente. Lo spasmo in verticale delle braccia e il
volto spiritato del ragazzo, esprimono lo
stravolgimento dell'ordine della creazione operato
da Satana: stabilisce un rapporto diretto tra l'alto
e il basso, tra il cielo e la terra, tra Colui che
libera e colui che incatena, tra Colui che esalta e
colui che disprezza, tra Colui che dà all'uomo
bellezza e colui che, invece, gliela toglie. Chi
libera è il Cristo la cui umanità sul Tabor arretra
per un istante scoprendone la divinità.
Anche sul Golgota la sua umanità arretrerà tanto da
"non esser più d'uomo il suo aspetto", tuttavia, in
forza di quel sacrificio, per la carne piagata della
divinità crocifissa, l'uomo sarà liberato dallo
spirito del male e il mondo riavrà la sua antica
bellezza. I numerosi disegni preparatori di
Raffaello dimostrano anche per questa scena una
lunga e complessa elaborazione; se l'intervento
degli allievi ci fu, fu solo per completare l'opera.
L'enfatica gestualità, l'animazione complessa si
rispecchiano nel dinamismo nuovo della composizione
da cui traspare il superbo classicismo raffaellesco,
e un naturalismo tragico accentuato dalla differenza
netta e morbida delle ombre.
Il dipinto, sottoposto agli schianti violenti
dell'ombra e della luce, impone la visione da vicino
e da lontano: in chiesa avrebbe dovuto favorire il
movimento di avvicinamento dei fedeli all'altare.
Sviluppata verticalmente, la pala sull'altare
avrebbe dovuto offrire la scena della liberazione al
sacerdote che celebrava innanzi da una posizione
ravvicinata, e quella della Trasfigurazione ai
fedeli che più discosti contemplavano quanto il
mysterium fidei velava e rivelava.
Al sacerdote ricordava il monito di Gesù circa
l'incapacità degli apostoli di guarire e liberare il
ragazzo lunatico: "Per la vostra poca fede", in
alcuni manoscritti per la vostra "nessuna fede",
nella Vulgata per incredulitatem. "Questa
razza di demoni si scaccia con la preghiera e il
digiuno" (Matteo, 18, 21). L'incredulità può
ostacolare la liberazione dei fratelli. La Fede, in
ginocchio, con il volto girato agli apostoli e le
mani indicanti il ragazzo posseduto, mostra il
compito: "Ora che il Maestro non è più con voi, a
voi è affidato l'incarico di ascoltare la supplica
di aiuto dell'umanità assediata dal maligno e di
liberarla nel nome di Cristo secondo il suo
comando".
L'incredulità è all'origine del non esercizio
dell'autorità pur essendone stati investiti.
L'incredulità impedisce di vedere con gli occhi
della fede la "trasfigurazione" del pane e del vino
nel Corpo, Sangue, anima e divinità di Cristo. I
cenni degli apostoli convogliano l'attenzione dal
basso all'alto. Un tempo sostenevano la capacità
visiva del sacerdote al momento dell'elevazione,
facendogli scorgere nella candida Ostia il Cristo
sfolgorante in cielo e invitavano i fedeli ad
avvicinarsi al mistero.
Un'opera d'arte sacra posta in un museo, anche con
le migliori intenzioni e forse più custodita, perde
tre quarti della sua capacità di parola solo per il
fatto che è posta fuori del contesto per il quale è
stata creata. Oggi, nella Pinacoteca, la
Trasfigurazione è solo un oggetto, ancorché tra
i più eccellenti, allineato tra i molti, ma privo
della forza che gli proveniva dall'essere parte del
mistero liturgico, dello spazio della preghiera. La
delibera che giustificava il mosaico in basilica
sottolineava il desiderio di avere, se non altro,
una copia "del più bel quadro che abbia il mondo".
Ma ora che l'originale è a pochi passi nel museo,
pare innaturale accontentarsi in chiesa della copia.
© L'Osservatore Romano 6 agosto 2010
La Trasfigurazione da Pietro Crisologo a
Raffaello
L’amore desidera vedere ciò che ama
I discepoli raffigurati nella parte inferiore del
dipinto dell’urbinate
sembrano aver già capito l’importanza della
centralità della preghiera
di Timothy Verdon
Più di ogni altra cosa, l’essere umano vuole vedere
Dio. Tale innata aspirazione viene poi intensificata
nei credenti dall’amore, come afferma san Pietro
Crisologo in una pagina dal sapore quasi platonico:
«L’amore genera il desiderio, aumenta d’ardore e
l’ardore tende al velato». E spiega: «L’amore non
può trattenersi dal “vedere” ciò che ama; per questo
tutti i santi stimarono ben poco ciò che avevano
ottenuto, se non arrivavano a vedere Dio. Perciò
l’amore che brama vedere Dio, benché non abbia
discrezione, ha tuttavia ardore di pietà. Perciò
Mosè arriva a dire: “Se ho trovato grazia ai tuoi
occhi, fammi vedere il tuo volto”» (Sermones,
147, Patrologia Latina 52, 594-95).
Nella festa della Trasfigurazione, ricordiamo che
tale ardente brama viene perfettamente soddisfatta
in Cristo, come egli stesso conferma dicendo: «Chi
ha visto me, ha visto il Padre» (Giovanni,
14, 9). Chi guarda con fede Cristo vede Dio cioè, e
ancora Bonaventura descrive la gioia che ne
consegue, caratterizzando il Salvatore come «la via
e la porta (...) la scala e il veicolo (...) il
propiziatorio collocato sopra l’arca di Dio». Dice
che «chi si rivolge a questo propiziatorio con
dedizione assoluta, e fissa lo sguardo sul
crocifisso Signore mediante la fede, la speranza, la
carità, la devozione, l’ammirazione, l’esultanza, la
stima, la lode e il giubilo del cuore, fa con lui la
Pasqua, cioè il passaggio ». Specifica infine le
condizioni necessarie per «passare» dalla mera
visione dell’uomo Gesù alla contemplazione, in lui
crocifisso, del volto di Dio: «Perché questo
passaggio sia perfetto, è necessario che, sospesa
l’attività intellettuale, ogni affetto del cuore sia
integralmente trasformato e trasferito in Dio. È
questo un fatto mistico e straordinario che nessuno
conosce se non chi lo riceve. Lo riceve solo chi lo
desidera, non lo desidera se non colui che viene
infiammato dal fuoco dello Spirito Santo, che Cristo
ha portato in terra» (Itinerario della mente in
Dio, 7).
La contemplativa per antonomasia è allora Maria,
che, pura di cuore sin dalla concezione, vide Dio in
se stessa appunto come Vita. Un artista del primo
Cinquecento, Piero di Cosimo, la raffigura in questi
precisi termini, come contemplativa dal volto
estatico che, pregando, concepisce colui che è la
Vita, Cristo. Che si tratti del concepimento di
Cristo è indubbio, perché la formula iconografica
normalmente usata per questo momento — la scena
dell’Annunciazione — è infatti «scolpita» sulla base
del piedistallo di Maria, e vi è inoltre un libro
aperto per terra davanti al piedistallo (allusione
al Verbo che si fa carne nel grembo di Maria, a cui
del resto l’artista chiama l’attenzione posando la
destra della Vergine sul suo ventre). Ma Piero di
Cosimo focalizza l’attenzione soprattutto sul
giubilo mistico con cui Maria accoglie lo Spirito,
così traducendo l’evento storico in avvenimento
interiore, come erano soliti fare i padri della
Chiesa. Occorre custodire la verità di Cristo nella
mente per poi concepire il Salvatore nel cuore: ecco
altre caratterizzazioni dell’orazione contemplativa.
Parlando di questo tipo d’esperienza, san Giovanni
Crisostomo insegna che: «la preghiera o dialogo con
Dio è un bene sommo. È, infatti, una comunione
intima con Dio. Come gli occhi del corpo vedendo la
luce ne sono rischiarati, così anche l’anima che è
tesa verso Dio viene illuminata dalla luce
ineffabile della preghiera (...) L’anima, elevata
per mezzo suo in alto fino al cielo, abbraccia il
Signore (...) come il bambino, che piangendo, grida
alla madre, l’anima cerca ardentemente il latte
divino, brama che i propri desideri vengano esauditi
e riceve doni superiori a ogni essere visibile. La
preghiera funge da augusta messaggera dinanzi a Dio,
e nel medesimo tempo rende felice l’anima perché
appaga le sue aspirazioni» (Omelia VI sulle
Beatitudini, Patrologia Graeca, 44, 1263-1266).
Servendoci della terminologia del Crisostomo,
possiamo dire che, se in Maria è perfezionata la
capacità umana di ardere di desideri celesti, in
Cristo suo Figlio tale capacità ha la sua fonte.
È Cristo a volerci contemplativi, cioè: Cristo che
ci ha fatto conoscere il nome del Padre suo e che ce
lo fa conoscere sempre più abbondantemente, perché
l’amore con cui Questi ha amato Cristo sia in noi e
con esso anche Cristo sia in noi (Giovanni,
17, 26).
La comunione tra Padre e Figlio e la volontà di
Cristo che la sua gloria sia contemplata dai
discepoli traspaiono in un preciso evento
neotestamentario, la Trasfigurazione, il massimo
episodio di orazione descritta nei vangeli prima
dell’orto di Getsemani. Avvenne otto giorni dopo
l’annuncio da parte del Salvatore della passione e
la misteriosa assicurazione che alcuni tra gli
ascoltatori non sarebbero morti «prima d’aver visto
il regno di Dio» (Luca, 9, 23-27). Allora
«Gesù prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni e salì
sul monte a pregare. Mentre pregava, il suo volto
cambiò d’aspetto e la sua veste divenne candida e
sfolgorante. Ed ecco, due uomini conversavano con
lui: erano Mosé ed Elia, apparsi nella gloria, e
parlavano dell’esodo, che stava per compiersi a
Gerusalemme. Pietro e i suoi compagni erano oppressi
dal sonno; ma quando si svegliarono videro la sua
gloria e i due uomini che stavano con lui. Mentre
questi si separavano da lui, Pietro disse a Gesù:
“Maestro è bello per noi essere qui. Facciamo tre
capanne, una per te, una per Mosè, una per Elia”.
Egli non sapeva quello che diceva. Mentre parlava
così, venne una nube e li coprì con parlava la sua
ombra. All’entrare nella nube ebbero paura. E dalla
nube uscì una voce che diceva: “Questi è il Figlio
mio, l’eletto; ascoltatelo!”» (Luca, 9,
28-35).
La più celebre raffigurazione di questo evento è la
grande pala iniziata da Raffaello Sanzio e ultimata
da collaboratori dopo la morte del maestro nel 1520.
Nella zona alta, eseguita interamente da Raffaello,
Cristo è rappresentato in preghiera estatica, con le
mani alzate nel gesto antico, che qui allude anche
alla croce annunciata otto giorni prima; appare poi
tra Mosé ed Elia, rappresentanti della Legge e dei
Profeti, con le vesti e il volto trasfigurati. Il
Salvatore cambia d’aspetto — viene «trasfigurato»
cioè — perché, mentre interroga l’antica
legislazione e la tradizione profetica d’Israele,
comprende che davvero il messia dovrà soffrire e
morire: il racconto lucano dell’evento specifica
l’argomento della conversazione dei tre, «l’esodo
che stava per compiersi a Gerusalemme», cioè la
morte di Gesù. La sua preghiera consiste in un atto
d’interiore accettazione, ed è allora che dalla nube
risuona la voce del Padre che lo riconosce come
l’amato Figlio. Nella parte inferiore della
composizione di Raffaello viene illustrato invece
l’episodio neotestamentario che segue la
Trasfigurazione, la guarigione di un ragazzo
epilettico. Il padre del giovinetto l’aveva condotto
ai discepoli di Gesù, chiedendo che scacciassero il
demonio che sin dall’infanzia aveva tormentato il
ragazzo, rischiando di ucciderlo, ma i discepoli non
ne erano capaci: è la scena illustrata nel dipinto,
con a destra il giovane tenuto dal padre e i
discepoli gesticolanti a sinistra. Sceso dal monte,
Gesù guarirà il ragazzo e lo restituirà al padre,
dopo essersi indignato per l’incredulità dei suoi
discepoli, che non erano stati capaci di compiere il
miracolo (Luca, 9, 41); così anche nella versione di
Matteo, dove, quando i discepoli gli domandano
perché essi non erano stati in grado di compiere la
guarigione, risponde: «Per la vostra poca fede»
(Matteo , 17, 20a). Nel vangelo di Marco, invece,
alla stessa domanda Cristo risponde che «questa
specie di demoni non si può scacciare in alcun modo,
se non con la preghiera » (Marco , 9, 29).
Nel dipinto di Raffaello i discepoli nella parte
inferiore della composizione sembrano aver già
capito questa centralità della preghiera, e mentre
alcuni di essi indicano il ragazzo altri portano
l’attenzione sul monte, dove il Salvatore viene
trasfigurato mentre prega in preparazione all’atto
d’orazione supremo, il sacrificio vespertino del
Calvario.
© L'Osservatore Romano 6 agosto 2011
|