L'Arcivescovo Ferdinando Lambruschini  - Scritti

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Ferdinando Lambruschini

La Giustizia virtù non facile

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CAPITOLO VII

 SUCC > 

PROPRIETA' E GIUSTIZIA
Il dominio di proprietà in S. Tommaso  
Dal diritto generico di possedere a quello specifico della proprietà  

L’uso comune dei beni  

Attualità della sintesi tomista  
I cattolici e la proprietà nei tempi nostri  
Collettivismo e liberalismo  
La dottrina della Chiesa circa la proprietà  
Proprietà e persona  
Proprietà e ordine sociale
Proprietà e socializzazione  
Prospettive attuali 

 

CAPITOLO VII  

 

PROPRIETA' E GIUSTIZIA  

 

    Esula dalle nostre riflessioni una trattazione di tutte le applicazioni che si possono fare nell’ambito della giustizia commutativa. E poiché a noi interessa indicare piuttosto la via alla giustizia come virtù morale, ci sembra sufficiente ed insieme necessario esaminare la questione della proprietà, che pur partendo da una prospettiva di giustizia commutativa implica vastissime interferenze con le altre specie di giustizia, di cui tratteremo in un ulteriore capitolo.  

 

Il dominio di proprietà in S. Tommaso

 

    Alla trattazione dei peccati contrari alla giustizia nella q. 66 della II-II, vengono premessi due articoli circa il diritto di possessione in genere e di proprietà in specie.

    Poiché la proprietà è al centro delle questioni sociali moderne e l’autorità di S. Tommaso in merito è tanto fuori di discussione, che i documenti pontifici si riferiscono ad essa volentieri, non è inutile riassumerne l’insegnamento.

    S. Tommaso si chiede in primo luogo se ammissibile un diritto di possedere in genere e si muove una difficoltà, che potrebbe far sorridere i moderni, ma che ha la sua importanza per comprenderne l’impostazione.

    Si obbietta pertanto che nessuno può attribuirsi ciò che è soltanto di Dio. Dovendosi rivendicare a Dio, Creatore e Signore di tutte le cose, il pieno possesso della sua opera, ne segue che si debba negare all’uomo il diritto di possedere i beni esterni.

    La risposta è lucidissima: a Dio compete il dominio principale di tutte le cose; ma egli nella sua provvidenza ha chiamato le creature razionali a farne parte, sia pure subordinatamente a Lui. E sviluppa così il suo pensiero: se la realtà viene considerata nella sua costituzione ontica, come termine della creazione, non può soggiacere ad un potere umano, ma solo a quello di Dio. Sotto tale aspetto anche gli uomini fanno parte della creazione e nella loro essenza metafisica dipendono totalmente da Dio. Non per nulla viene richiamato il dominio assoluto di Dio su tutto il creato, umanità non esclusa, come premessa alla proclamazione del Decalogo nella Bibbia. Anche dopo la creazione tutte le cose devono essere conservate nell’essere. Questo duplice dominio metafisico non può essere partecipato all’uomo e neppure agli angeli più perfetti: a nessuno può essere partecipata la creazione e la conservazione delle cose, che suppone una causalità infinita. Tuttavia nella scala della realtà esiste una gerarchia, che va dalle creature inanimate, a quelle animate irrazionali ed infine a quelle razionali, cioè all’uomo.

    Ora, salva l’incomunicabilità delle competenze divine, nulla vieta l’associazione a Dio nel governo delle cose dell’uomo, che per essere creatura si, ma intellettuale e volitiva, secondo l’analogia dell’ente, concetto fondamentale del tomismo, non riflette soltanto l’immagine di Dio, ma ne realizza anche una più intima somiglianza. Onde l’Angelico trova naturale che l’uomo presieda ai pesci del mare, agli animali della terra e ai volatili del cielo e a tutta la creazione inanimata, indicando una linea di concordanza tra il libro del Genesi e l’insegnamento di Aristotele, che ne tratta ampiamente nella Politica, di cui l’Angelico ha scritto i Commentarii. Il compito dell’uomo è soltanto ministeriale, subordinato cioè alla principalità di Dio, ma realizza pienamente la provvidenza divina, che si serve delle cose superiori per governare quelle inferiori. In questo senso si può dire che l’uomo è i1 fine della creazione, in quanto tutte le cose create sono a lui subordinate e per lui create. Rimane inteso che gli altri uomini rientrano nel campo della subordinazione, in quanto parte della creazione, cioè in quanto considerati nella loro materialità; escono invece dal campo della subordinazione, in quanto creature ragionevoli, con identico diritto di servirsi delle cose per raggiungere il proprio fine.

    Il possesso delle realtà terrene sarebbe stato perfetto nello stato di innocenza: nello stato attuale dell’umanità il peccato originale ha introdotto confusioni, ribellioni ed egoismi deleteri.

    Qualche Autore si meraviglia che S. Tommaso segua quasi pedissequamente l’insegnamento di Aristotele, di cui si sforza di comprendere anche le sfumature di pensiero attraverso le vane espressioni, mostrandosi quasi indifferente alle diversità della situazione politica ed economica: altri invece sostengono che ha tenuto in buona evidenza l’evoluzione delle condizioni sociali. Abbiamo qui una questione incidentale formidabile, che non si può certo risolvere con superficiali affermazioni di fedeltà al tomismo. Sta il fatto che nella stessa Enciclica « Quadragesimo Anno » si difende S. Tommaso dall’accusa di eccessiva dipendenza dal concetto pagano di proprietà. Non si tratta infatti tanto di fedeltà ad Aristotele, quanto di una esposizione, nella quale si lasciano le parti principali a principi generali, non legati alle condizioni ambientali e quindi validi anche per la nostra età, nonostante la diversità delle condizioni economiche e politiche  

 

Dal diritto generico di possedere a quello specifico della proprietà

          

    Rivendicato all’uomo il diritto a dominare le realtà terrene, S. Tommaso si chiede nel secondo articolo della q. 66, se compete ai singoli uomini avere qualche cosa in proprietà con esclusione degli altri.

    Scrive S. Tommaso: «...due sono le competenze dell’uomo. Gli compete infatti di potersi procurare beni esteriori e di disporne: sotto tale aspetto è consentito possedere alcune cose in proprietà esclusiva. E’ anzi necessario per tre ragioni: in primo luogo perché ognuno è assai più attento nella gestione delle cose proprie, che di quelle in proprietà comune. Infatti nel secondo caso, ciascuno preferisce evitare ogni sforzo personale, lasciando agli altri la cura di provvedere alla buona conservazione del possesso comune: la cosa avviene, quando sono molti a servirsi di una stessa cosa.

 In secondo luogo si realizza un ordine migliore nell’amministrazione dei beni, se la cura di ogni singola cosa è affidata ad uno solo, mentre si avrebbe confusione se tutti si interessassero della stessa cosa.

    In terzo luogo la convivenza pacifica è meglio garantita, se ognuno si riserva la cura di una proprietà, e viceversa non é difficile costatare dei litigi frequenti tra coloro che possiedono una cosa indivisibile in comune.

    La seconda competenza dell’uomo singolo è quella di usare e gioire delle cose esteriori. Sotto questo rapporto a nessuno deve essere consentito di possedere le cose in proprietà esclusiva, dovendole mettere a disposizione di tutti coloro che ne hanno bisogno. Onde S. Paolo scrive a Timoteo: “comanda a coloro che sono ricchi di dare facilmente e volentieri, facendo parte dei loro beni” ».

    La prima parte dell’argomentazione è la ritorsione fatta da Aristotele del discorso di Platone contro la proprietà. Platone asseriva che la proprietà privata, sia nell’ambito dei beni esterni, come in quello delle mogli e dei figli, è fonte di litigi, di inimicizie e di iniquità. Aristotele sosteneva che questi mali non erano da addebitarsi al regime di proprietà privata, ma alla malizia degli uomini in qualunque condizione e aggiungeva che nel comunismo si contenevano mali e divisioni e iniquità assai peggiori.

    E noto che i comunisti dei nostri giorni rinverdiscono il discorso platonico.

    La seconda parte dell’argomento ci mostra S. Tommaso non più dipendente da Aristotele, ma dalla tradizione di molti Padri, i quali non contenti di ritenere l’assoluta comunanza di tutti i beni nello stato di natura pura, coerentemente con i poeti sognatori di una primeva età aurea, basata sulla totale comunità dei beni, credevano di poterla estendere anche allo stato presente dell’umanità. Alcuni Padri non dubitano di affermare categoricamente che la proprietà privata è un’usurpazione arbitraria e contraria alla natura, che ha fatto tutte le cose comuni. Basti citare S. Basilio e S. Giovanni Crisostomo in Oriente, S. Ambrogio e S. Gerolamo in Occidente, secondo i quali l’usurpazione ha portato la distinzione tra mio e tuo e l’elemosina é pura e semplice restituzione.

    S. Tommaso respinge energicamente questa posizione facendola risalire nella sua formulazione più cruda alla setta degli apostatici, che pretendevano di essere apostolici e proclamavano la comunione assoluta dei beni, non escluse le donne. Respinge invece in modo assai più blando le espressioni dei Padri citati sostenendo la necessita della proprietà nello stato di natura caduta, necessità che non si sarebbe avuta nello stato di innocenza, in cui gli uomini avrebbero potuto possedere in comune tutti i beni, senza alcun pericolo di discordia, per il retto ordinamento della volontà dei singoli. Alcuni commentatori moderni, come Bernard e Henry, credono di rimanere fedeli a tale interpretazione, chiamando il regime di proprietà privata un “pisàller”, un regime adattato alle tare di una umanità pigra, e godereccia, poco rispettosa dei diritti degli altri e incurante del bene comune, un regime insomma che deve tener lontani disordini peggiori, garantendo un ordine relativo, ma senza pretesa di ricostituire un’armonia perfetta, ormai impossibile. Si potrebbe dire che le espressioni « diritto di condurre e di disporre » (ius gerendi et disponendi), e uso delle ricchezze (usus rerum exteriorum) sono alquanto vaghe, come sono vaghi i termini corrispondenti di liberalità nello stoicismo, di elemosina o dovere di distribuire il superfluo dei Padri e degli Scolastici e la funzione sociale della proprietà dei moderni.

    Tuttavia S. Tommaso è costante nel porre il diritto di proprietà nell’ordinamento delle convenienze sociali, anziché nell’ordine assoluto dell’umanità e porta l’esempio, forse argomentando dalla propria condizione religiosa, di comunità e convivenze umane, nelle quali si possiede tutto in comune senza alcuna discordia.

    Dicendo poi che l’uso dei beni deve essere comune, vuole affermare semplicemente la subordinazione della proprietà privata al bene della società, in modo che i frutti della proprietà riescano di utilità a tutti. Poiché l’uomo è subordinato e ordinato alla società, tutto quello che è nell’ambito dell’uomo, non esclusa la proprietà privata, deve essere orientato verso il bene comune. Si attribuirebbe una mentalità direttamente antieconomica a S. Tommaso, se si volesse farne un distributore incosciente dei frutti della proprietà. Lo stesso S. Ambrogio aveva superato questa mentalità infantile intendendo la distribuzione dei beni in elemosina, in modo che non venisse compromessa la funzione di produzione della proprietà stessa, perché l’uso comune non divenisse un momento di godipopolo.

    Nelle prime cinque lezioni del Commentario al secondo libro della Politica di Aristotele, S. Tommaso fa una critica serrata al comunismo platonico, che ai suoi tempi riviveva nei sogni dei beguardi: lo dice utopistico, chimerico e tanto insufficiente, che lo stesso Platone nelle Leggi, pur conservando il comunismo come soluzione ideale per una società perfetta, finisce per accettare in pratica il regime della proprietà privata.  

  

L’uso comune dei beni  

  

    Ci si può chiedere come si realizza l’uso comune dei beni secondo S. Tommaso. Gli ebrei contro la concentrazione della proprietà nelle mani di pochi e quindi, almeno indirettamente, per proteggere l’uso comune dei beni, avevano nel Vecchio Testamento la ricorrenza dell’anno giubilare, che ristabiliva lo spezzettamento della proprietà, come si era avuto agli inizi. Anche i pagani hanno sempre temuto la concentrazione delle ricchezze in mano di pochi; ciò automaticamente creava delle masse innumerevoli di poveri, che fatalmente venivano in conflitto con i primi, determinando gravi disordini sociali. Dai Padri poi si desume la dottrina, rimasta classica per secoli e nella quale ancor oggi qualche Autore si sforza di trovare la soluzione delle questioni sociali moderne, del superfluo da distribuire ai poveri.

    S. Tommaso opera una sintesi di questi vari punti di vista, mettendo d’accordo Mosé con Aristotele e la tradizione patristica con le necessità sociali.

    Accettando l’esaltazione delle classi medie, fatta da Aristotele, S. Tommaso vi riconduce gli effetti dell’anno giubilare mosaico. Dice quindi ottima cosa avere una proprietà, sia pure modesta, che consenta una vita sufficiente ed insieme l’esercizio di qualche liberalità verso gli altri più poveri. Infatti, anche chi ha una piccola proprietà deve sempre essere consapevole di averla come membro della società e quindi a vantaggio di tutti.

    Per il superfluo da dare ai poveri si riferisce alla distinzione tra possesso e uso dei beni. Anzitutto tale distribuzione non deve equivalere ad una distruzione: il Signore non vuole la distruzione delle ricchezze, ma che ne vengano distribuiti i frutti, a meno che non si abbiano altre finalità di perfezione, come Eliseo, che uccise il suo bue e lo distribuì ai poveri per non avere più delle preoccupazioni terrene. La dispensa del superfluo non deve essere intesa in senso materiale, antieconomico.

    Si tenga poi presente che sotto il nome di poveri non devono essere intesi quelli che soffrono la miseria e la fame, ma tutti coloro che non hanno una sufficiente provvista dei beni necessari alla vita.

    Come si vede, non è facile la trascrizione della dottrina antica in termini moderni. Da una parte c’é l’obbligo di distribuire il superfluo; dall’altra parte il superfluo può essere considerato come fonte di produzione e quindi come parte della proprietà privata. Rimane il centro della questione: come si deve determinare il superfluo da distribuire ai poveri?

    La prima determinazione deve essere data dalle virtù del proprietario, che gli stoici indicavano nell’amicizia universale, nella liberalità, nella beneficenza, nella solidarietà ecc., nel cristianesimo perfezionate nella carità. Si deve però ammettere anche un criterio più oggettivo: perché tutte queste virtù, non esclusa la carità, si sviluppano nell’ambito della persona. Ora se il proprietario non è fornito di queste virtù, ma piuttosto un avaro sospettoso, chi e come dovrà perseguire l’uso comune dei beni? Un proprietario privo di senso sociale, che impedisce a proprio vantaggio l’uso comune dei beni viola la giustizia in modo che tale violazione sia riparabile e si debba riparare?

    Una risposta a questi interrogativi non poteva essere data nel medioevo: le condizioni di ambiente potevano al massimo suggerire che un peccato contro l’uso comune dei beni offendeva la giustizia legale, che presiede e ordina tutte le virtù al bene della società.

    Il Caietano ritiene che l’autorità, come custode della giustizia, sia competente a riparare l’ingiustizia commessa contro i poveri per la difettosa distribuzione dei beni secondo i principi dell’uso comune. Infatti il dovere legale della distribuzione è fondato sulla giustizia obiettiva. Chi non distribuisce i beni commette un peccato di ingiustizia verso i poveri e l’autorità può obbligarlo a riparare convenientemente il danno recato alla società.

    Alla stessa conclusione giunge lo Schwalm, ottimo tra i commentatori moderni di S. Tommaso, secondo il quale l’abuso dei beni non è una violazione della giustizia commutativa, che impone l’obbligo di una rigorosa riparazione, ma piuttosto un peccato contro la giustizia legale, ossia un difetto di giustizia verso la società.  

  

Attualità della sintesi tomista  

  

    Possiamo concludere che secondo S. Tommaso il sistema della proprietà privata rappresenta il miglior sistema di organizzazione della vita sociale, se i proprietari sono di buoni costumi, e giuste leggi proteggono il bene comune, promuovendo la diffusione dell’uso dei beni. L’intervento dell’autorità deve essere conforme al governo divino, che nella sua onnipotenza e somma bontà non cancella dal mondo tutti i mali, per non impedire beni maggiori. Sono dunque da reprimersi tutti gli arbitri sia da parte dei possessori dei beni, sia da parte della pubblica autorità, tenendo presente che gli uomini non sono solo ordinati alla felicità terrena, ma anche a quella celeste.

    Non si dica che la soluzione prospettata sia troppo generica: deve infatti essere considerata nell’ambito della società del tempo, che vedeva gli inizi del passaggio dall’economia feudale all’emancipazione dei popoli per l’evolversi dell’urbanesimo, lo sviluppo dei commerci e il frazionamento della proprietà fondiaria. Gli uomini considerati individualmente o nelle varie corporazioni accedevano sempre più alla proprietà diretta e alle libertà civili e politiche.

    Si tenga infine presente che non si può pretendere dai pensatori del medioevo l’anticipazione di soluzioni, che solo una maggiore maturità di condizioni sociali renderanno possibile. Chi si lascia guidare da questo pregiudizio di trasposizione commette un errore non minore di coloro che pretendono di trovare nelle soluzioni medievali, adatte per quei tempi, la soluzione delle questioni e dei problemi moderni, che in fatto di proprietà sono formidabili. I principi di soluzione sono immutabilmente e per sempre validi; le soluzioni concrete ammettono una vasta gamma di realizzazione. La distinzione tra diritto di possedere qualche cosa in proprietà esclusiva e diritto di usare delle cose esteriori è della massima importanza e può trovare applicazioni veramente originali per i nostri tempi. S. Tommaso trova più vicino ai principi primari del diritto naturale l’uso comune dei beni: il diritto di proprietà, secondo una sua forte espressione, non è iscritto profondamente nel diritto naturale come la reciproca attrazione tra l’uomo e la donna in vista della costituzione della famiglia. Ma pur non essendo un assoluto, deve considerarsi intimamente connesso con il diritto naturale, perché alla semplice e immediata osservazione della realtà umana appare del tutto conveniente alla natura razionale dell’uomo possedere qualche cosa in modo proprio ed esclusivo. Il diritto alla proprietà è dunque relativo all’umanità, nelle sue concrete realizzazioni dipende moltissimo dalle condizioni della convivenza e delle leggi positive.

    Nessuno deduca da questa posizione che il diritto di proprietà sia semplicemente facoltativo; appartiene alle esigenze del diritto naturale nella linea dell’umanità, cosa che nella terminologia tomistica viene espressa dicendo che appartiene al diritto naturale di seconda intenzione.

    E’ singolarmente espressiva la risposta all’obbiezione che la proprietà sia illecita, perché contraria al diritto naturale, che vuole tutte le cose comuni a tutti gli uomini. Il diritto naturale infatti non comanda la comunità delle proprietà, ma indica solamente che esse non sono di per sé distinte, separate e destinate ad alcuni uomini a preferenza di altri: valga l’esempio dei fondi rustici, i cui confini non si possono dire segnati dalla natura. In questo senso la distinzione dei possedimenti dipende dalla volontà umana. Onde la proprietà non si deve ritenere contraria al diritto naturale, ma piuttosto fondata in esso per sviluppo logico “per adinventionem rationis humanae”. La proprietà dei possedimenti sarebbe contraria al diritto naturale, solo se venisse sottratta al subordinamento del bene comune e alla supervisione o direzione dell’autorità pubblica; in altri termini se e quando venisse ad annullare l’uso comune dei beni, che appartiene ai principi primari del diritto naturale.

    Non può sfuggire a nessuno la forza di questa ultima affermazione, suscettibile di grandissimi sviluppi.

 

I cattolici e la proprietà nei tempi nostri

  

    La questione della proprietà privata nel tempi moderni è di tanto interesse nell’ambito della dottrina sociale della Chiesa, che alcuni Autori la considerano centrale e fondamentale. E’ il punto di massima frizione con i collettivisti, che, anche senza essere comunisti, ci fanno accuse del seguente tenore: dopo aver lodato che la tradizione cattolica ha sempre combattuto l’usura, ci attribuiscono le più gravi perplessità, un complesso di timidità nei confronti della proprietà privata, rimproverandoci di abbandonarci in proposito a distinzioni più ingegnose che categoriche, più sottili che convincenti e che le masse sono sempre meno disposte ad accettare, perché non amano le complicazioni. Se i cattolici vogliono davvero salvare il mondo dall’inondazione del comunismo devono rivedere le conclusioni circa la proprietà privata.

    Accuse del genere, sebbene un pò larvate, sono riassunte polemicamente in un art. dell’Osservatore Romano, 18 Febbraio 1959, firmato da L. Civardi: « In che consiste precisamente questo nuovo ordine sociale, che voi volete costruire al posto dell’attuale ordine capitalista? Quale sarà la nostra sorte nella nuova società, che voi dite di voler stabilire, non secondo i principi di Carlo Marx, ma secondo gli insegnamenti di Cristo? I comunisti sappiamo come la pensano: conosciamo l’ordine sociale che essi vogliono edificare; e del resto già lo vediamo attuato nei paesi, dove hanno preso in mano le leve del comando. Diteci anche voi una parola chiara, inequivocabile, precisa, su questo vitale argomento. Fateci conoscere il disegno, le linee maestre della nuova costruzione sociale, che vogliamo erigere insieme e che meriterà di chiamarsi cristiana  »

    Tali obbiezioni, leggermente patinate di demagogia, continua il Civardi, non hanno alcun valore se vengono dirette contro la dottrina della Chiesa, il cui insegnamento, più volte ripetuto dagli ultimi Pontefici, si riallaccia direttamente alla tradizione dei Padri e dei Dottori in una continuità, che si prolunga per secoli. I Romani Pontefici hanno più volte deplorato che la dottrina della Chiesa in merito sia troppo poco conosciuta e studiata dai cattolici.

    Deploriamo anche con Van Gestel « che dei cattolici hanno confuso spesso la difesa della proprietà e la difesa di Dio, come se i beni materiali o un determinato regime di proprietà avessero un valore assoluto e dovessero essere protetti come un santuario. Situazione paradossale di coloro, i quali si dicono seguaci di una dottrina spirituale, che insegna a pensare prima di tutto ai tesori, che i vermi non possono rodere e i ladri non possono rubare »

    Abbiamo visto che nella teologia del medioevo il diritto alla proprietà privata e il diritto all’uso comune dei beni appartengono entrambi alla legge della natura umana, il secondo più originariamente del primo. Sappiamo poi che ad una visione completa del problema sono interessate parecchie scienze, filosofiche, giuridiche, economiche e sociali.

    Non è compito dei cattolici respingere i dati di dette scienze e inventare altre conclusioni, ma farne un vaglio ed una valutazione alla luce dei principi soprannaturali, in vista della vita eterna, nel contesto più ampio e profondo della dottrina cristiana e nella linea della tradizione della Chiesa, nella quale non si trova un cattolicismo astratto, ma il cattolicismo vivo e concreto del Vangelo.

    I documenti della Chiesa hanno dato e danno continuamente sapientissime direttive e orientamenti: ci basti citare tra essi le Encicliche Rerum novarum di Leone XIII, Quadragesimo anno e Divini Redemptoris di Pio XI, Sertum laetitiae di Pio XII e di quest’ultimo il Messaggio del 1941 per il cinquantesimo anniversario della Rerum novarum e il famoso radiomessaggio natalizio del 1942.

    Prima però di passare ad un breve esame di detti documenti, premettiamo una brevissima esposizione di due errori opposti circa la proprietà privata, spesso indicati dal Magistero: il collettivismo e il marxismo.

  

Collettivismo e liberalismo

  

    L’errore più antico è quello del collettivismo, che come posizione teorica, sotto forma piuttosto di vaga aspirazione, si trova già nella Repubblica di Platone, negli eretici apostatici del secolo III d. C. (che si dicevano apostolici, perché convinti di continuare lo spirito del cristianesimo primitivo di Gerusalemme), nei movimenti dei beguardi, degli spirituali e dei catari del medioevo, negli utopisti come Tommaso Moro e il nostro Campanella nel rinascimento ecc. In nessuno di questi sognatori il comunismo ha una impostazione materialistica. Nel secolo scorso invece il sogno è diventato realtà, dandosi una base materialista ed una organizzazione tanto efficiente quanto terrificante, come la conosciamo nei regimi e nei partiti comunisti. Finora il vero comunismo non è stato realizzato in nessuna parte del mondo: la stessa Russia si dice piuttosto socialista. Il più serio tentativo di realizzare una società comunista è in fase di sviluppo attualmente nell’immensa Cina, cui gli stessi dirigenti russi tentano invano, a quanto pare, di imporre dei freni.

    Benché il collettivismo moderno, più che ai sognatori indicati, si appelli alla tradizione materialista della filosofia, anteriore al cristianesimo e posteriore alla rivoluzione francese, non sarebbe esatto dire che alla base di esso, se si eccettua forse la Cina, non ci sia altro che un fetido materialismo. I socialisti soprattutto non rinunziano agli ideali morali, come da qualcuno erroneamente si crede; propongono anzi ai loro adepti ideali altissimi di solidarietà, di amicizia universale e di nobilitazione del lavoro umano, che esercitano un flusso di attrazione. Ma a queste nobili aspirazioni si trova soggiacente un’idealità economica di ordine negativo, capace di dinamizzare le masse dei meno abbienti: la proprietà privata deve essere considerata come la fonte di tutti i mali nella storia dell’umanità, responsabile di tutte le malefatte perché automaticamente porta al prevalere dell’interesse privato su quello generale. Essa infatti torna a vantaggio dei ricchi, non della comunità e deve quindi essere combattuta come un furto.

    Il materialismo è sempre esistito come corrente di idee: Carlo Marx ha fatto del materialismo dialettico un elemento di propulsione di forze organizzate, imprimendo alle idee materialiste un dinamismo che ha grandi risonanze nella vita dei popoli.

    Il liberalismo invece è assai più recente e non affonda le sue radici direttamente nella storia precedente: pur non potendolo considerare come un fungo, apparso improvvisamente sulla scena del mondo, si può ricondurre, come origine riflessa, alla filosofia razionalistica del secolo XVIII, applicando la quale Bastiat ha fatto dell’interesse personale la molla di ogni progresso sociale.

    È significativa una sua pagina sincera e commossa sulla bontà e la provvidenzialità del liberalismo: « Non si dà luce in qualche intelligenza, senza che ne venga a tutti una partecipazione: non si dà un progresso sotto la spinta dell’iniziativa liberalistica, senza che ne venga a tutti un progresso: non si dà un aumento di capitale, che non porti vantaggi al lavoro di tutti; non si dà forma di ricchezza. che non tenda al miglioramento in generale: non si realizza una conquista, che non renda più facile il lavoro di tutti; non si dà proprietà, che non aumenti il profitto di tutti e il bene comune. L’ordine sociale naturale è stato così disposto dal Divino Operaio, che i più avanzati nella via della redenzione tendono agli altri una mano soccorrevole, volontariamente o no, consapevolmente o meno, perché Egli ha disposto le cose in tal modo che nessun uomo può lavorare onestamente per se stesso, senza lavorare insieme per tutti. Egli ha confidato la realizzazione dei suoi disegni alla più attiva, intima e perseverante delle nostre energie: l’interesse personale... Studiate dunque il meccanismo sociale, come è uscito dalle mani del grande Meccanico: resterete convinti della sua cura universale e lascerete indietro i vostri sogni e le vostre chimere. E forse invece di pretendere di rifare l’opera divina, vi contenterete di benedirla ».

    Non si lasceranno sofisticare i cattolici da queste glaciali affermazioni, espresse sotto una contaminazione religiosa di marca prettamente massonica: esse, pur partendo da una premessa di libertà assai apprezzabile, giungono per via di falsi assiomi alla negazione di ogni libertà, ponendo le cose economiche talmente connesse e concatenate, da dover escludere qualunque intervento dall’esterno, anche se si trattasse di un intervento dell’uomo.

    Basterebbe questa riflessione semplicissima a rompere l’incantesimo di un sistema economico non meno materialista di quello del collettivismo marxista e che porterebbe alla concentrazione delle ricchezze nelle mani di pochi, teoricamente anche di uno solo, propugnando la validità assoluta di un capitalismo, che la Chiesa non poteva accettare.

  

La dottrina della Chiesa circa la proprietà

  

    La Chiesa non si limita ad opporsi al collettivismo e al liberalismo, ma propone una sua via, che non cessa di essere attuale, fondata sulla gloriosa tradizione dei secoli di storia cristiana. La dottrina della Chiesa circa la proprietà dei beni terreni non prescinde dall’insegnamento del Vangelo sulle ricchezze, di cui sono denunciati pericoli e schiavitù, quando cessano di essere mezzo e diventano fine dell’uomo. Si denuncia opportunamente una indigenza nel possesso, una povertà nelle ricchezze, una insufficienza nei beni terreni. Pio XI richiama nella Quadragesimo anno l’attenzione dei fedeli, per indicare loro che il rimedio ai mali moderni va ricercato nella soavissima legge della temperanza cristiana, che spinge l’uomo a cercare prima di tutto il regno di Dio e la sua giustizia, fidando nella promessa del Signore di soddisfare con abbondanza alle necessità della vita. Si tratta di una affermazione generale, di cui però non si può mettere in dubbio l’efficacia per mettere un freno alla cupidigia dei poveri e all’avarizia dei ricchi, conforme alla prima beatitudine del Sermone della montagna. L’apostolo S. Giacomo al notissimo e durissimo testo contro i ricchi, aggiunge parole di consolazione: « Sopportate dunque con pazienza, o fratelli, fino alla venuta del Signore ».

    I socialisti svalutano tale forma di consolazione, perché non vogliono rimandare le rivendicazioni sociali all’altra vita, nella quale non credono. Noi abbiamo il dono della fede e sappiamo che le più grandi e vere realtà sono quelle della vita eterna, senza che ciò impedisca di darci da fare per una migliore giustizia sulla terra.

    Vana è anche l’accusa che si fa alla Chiesa di essersi adagiata nel fatalismo della miseria inevitabile sulla terra. Pio XII ha dichiarato energicamente che la povertà evangelica è un grande bene e favorisce la virtù, la miseria è un male, fonte di gravissimi disordini: dobbiamo dunque amare la prima e combattere la seconda. Esorta quindi a promuovere la giustizia sociale, favorendo un’equa distribuzione del benessere, perché le ricchezze nella società sono come il sangue nell’organismo umano, che deve raggiungere le ultime terminazioni dei sensi e dei muscoli, per consentire una vitalità piena.

    Dalle premesse della Rivelazione e della tradizione, il Magistero della Chiesa passa a fissare i limiti della proprietà privata.

    Leggiamo nella Quadragesimo anno: « …si deve essere cauti per evitare un doppio scoglio, nel quale si può inciampare. Se infatti si nega l’indole sociale e pubblica della proprietà si cade o si rischia di cadere nell’individualismo: se invece si respinge o si attenua il valore personale della proprietà o si cade o si rischia di cadere nel collettivismo. Se non si tengono presenti questi limiti si finisce con urtare nel modernismo morale, giuridico e sociale... ci pensino seriamente quanti, attendendo allo studio di questi problemi, non si peritano di rivolgere contro la Chiesa ingiuriose calunnie, quasi che essa abbia consentito la cittadinanza teologica ad una concezione pagana della proprietà, da sostituirsi con un’altra concezione, che solo per ignoranza si può dire cristiana ».

    Come nell’umanità si ha una duplice tendenza naturale, e cioè personale ed insieme sociale, così è necessario vagliare bene la funzione insieme individuale e sociale della proprietà: « …sono pertanto sommamente da lodarsi tutti coloro che, salva la carità degli animi e l’integrità della dottrina sempre insegnata dalla Chiesa, si sforzano di determinare i limiti e la natura di queste due funzioni, in modo da circoscrivere nel quadro delle necessità comuni il diritto di proprietà o almeno l’uso di essa ».

    Poco avanti aveva già confermato che chi viola la proprietà privata commette un peccato contro la giustizia commutativa, e il padrone che usa malamente di essa, pur non violando direttamente la giustizia commutativa, manca alle prescrizioni di altre virtù morali.

    Si appella poi alla Rerum novarum per confermare che una equa distribuzione delle ricchezze è postulata dall’evoluzione odierna economico-sociale, in modo che venga garantita la maggiore utilità di tutti i cittadini e, in altre parole, sia salvaguardato il bene comune della società.

    Le limitazioni di ordine morale della proprietà sono pressoché innumerevoli e suscettibili di ulteriori determinazioni secondo il processo in atto di chiarificazione del diritto naturale: nessuno può usare delle sue ricchezze irrazionalmente o per finalità disoneste, per instaurare un despotismo, per ridurre in schiavitù i dipendenti, per tradire la patria ecc.

    Le limitazioni di ordine giuridico dipendono dal diritto positivo, il cui compito non é quello di distruggere la legge naturale, ma di determinarla, armonizzandone le conclusioni con il bene comune. Tuttavia tali determinazioni non dovranno mai pervenire alla distruzione o all’equivalente della distruzione della proprietà privata, ma solo alla limitazione di essa secondo i criteri del bene comune e della pubblica necessità.

    Il Magistero non ha creduto suo compito condannare l’espropriazione larvata, che avviene ad esempio nelle nazionalizzazioni e nelle svalutazioni monetarie.

    Si è invece preoccupato fortemente di difendere in linea generale il diritto alla proprietà privata contro qualunque tendenza statalistica, che fuori di ogni necessità di contingenza, come può avvenire in una guerra, pretendesse di abolirla completamente. E per far ciò l’insegnamento pontificio, collegandosi strettamente alla tradizione cattolica, si basa su un duplice ordine di argomenti, desunti dalla considerazione della persona e da quella della società.

  

Proprietà e persona

  

    Nell’ordine delle persone la proprietà privata non é solo conforme al diritto naturale: essa è postulata dalle profonde esigenze della persona umana razionale e libera.

    Già la semplice considerazione delle vicissitudini della vita umana dall’infanzia alla vecchiaia, con le alterne vicende di salute e di malattia, spinge l’uomo a provvedersi una riserva di beni per far fronte ai pericoli della vecchiaia e delle malattie. E benché a questi pericoli siano orientate le provvidenze delle assicurazioni sociali, resta innegabile che queste non possono sostituire pienamente il desiderio legittimo di formarsi indipendentemente da esse o accanto ad esse una garanzia a titolo personale.

    È parimenti innato il bisogno costante di conservare e di amplificare il proprio tenore di vita non solo sul piano materiale di un progresso nelle comodità, determinate dal progresso e da una sana emulazione del benessere degli altri, ma soprattutto per lo sviluppo della personalità nel senso più completo, sviluppo che si misura soprattutto nell’esercizio delle facoltà intellettuali e morali. Tale processo interiore e legato ad un minimo di disponibilità dei beni in modo assolutamente libero ed esclusivo, fondato sullo stesso diritto naturale, senza pregiudicare ulteriori determinazioni di tale diritto, apportate dalla legge positiva, in conformità alle condizioni dei popoli.

    La stessa conclusione deve essere dedotta dal dovere del lavoro, che è insieme un diritto: oggi assistiamo ad una universale esaltazione del lavoro umano, tanto che si sente parlare spesso di civiltà del lavoro. Ci si può domandare qualche volta se questa esaltazione non è puramente retorica e formale, quando vediamo che essa tanto difficilmente mette l’uomo in condizione di formarsi un minimo di proprietà privata con il sudore del lavoro, mentre d’altra parte fortune immense vengono accumulate con la speculazione e la casualità. E’ pertanto quanto mai necessario affermane al di fuori di ogni demagogia, il diritto di chi lavora a disporre dei mezzi per il sostentamento della vita e per formarsi un modesto patrimonio. Tale diritto deve essere affermato per coloro che esercitano un lavoro su cose proprie e per coloro che lavorano nelle cose degli altri in vista di un salario o di uno stipendio. Da questo punto di vista, per la sovrabbondanza della mano d’opera, le condizioni dei lavoratori in Italia sono generalmente molto al di sotto delle condizioni dei lavoratori degli altri paesi europei.

    Si aggiungano le esigenze dell’uomo, in quanto capo di una famiglia o per lo meno nato a formarsi una famiglia. I genitori hanno dalla stessa natura il diritto e il dovere di nutrire e di educare la prole e dalla stessa fonte compete ad essi il diritto di costituire per sé e per i figli un certo patrimonio, che sia come il fondamento materiale per la trasmissione delle tradizioni e dei valori familiari.

 Le esigenze familiari non sono altro che l’amplificazione delle esigenze personali. Non si opponga che lo Stato può soddisfare a dette esigenze senza alcuna proprietà dei singoli. Leone XIII, che già si muoveva questa difficoltà nella Rerum novarum, risponde che l’uomo è più antico della società pubblica ed aveva già questi diritti, prima che quella sorgesse e si costituisse.

    Ci sembra assai importante difendere l’istituto familiare sotto questo aspetto particolare: se da una parte diventa sempre più difficile nella società moderna difendere il salario familiare del capo famiglia, non si può sottovalutare lo sforzo immane, ad esempio nella Cina di oggi, di distruggere la famiglia, assorbendola nella organizzazione di comunità e convivenze militarizzate.

  

Proprietà e ordine sociale

    

    Gli argomenti, appena abbozzati, in favore della proprietà nell’ambito della persona, considerandone la famiglia come una spontanea estensione, non vogliono negare una competenza specifica della società sulla proprietà privata, ma un giusto ordinamento sociale non porta a distruggerne i fondamenti. La considerazione sociale non solo non nega, ma viene piuttosto a confermare la proprietà privata.

    Gli uomini sono infatti nati a vivere in società. Ma perché le loro relazioni di vita e di lavoro comune siano pacifiche, devono essere bene delimitate. E per tale delimitazione la divisione della proprietà privata è insostituibile.

    Inoltre si ammette comunemente che la proprietà sia uno stimolo al lavoro produttivo, cosa che non si avrebbe se gli uomini, vivendo in società, percepissero gli stessi frutti indipendentemente dalla quantità e dalla qualità della prestazione di lavoro. L’assenza della proprietà privata determinerebbe disordini e favorirebbe la pigrizia. A buon diritto le Encicliche pontificie non si stancano di ripetere che l’istituto della proprietà privata favorisce la pacifica convivenza, stimola il lavoro produttivo e promuove il progresso sociale.

    I collettivisti in genere sogliono obbiettare che le liti tra gli uomini vengono piuttosto dalle divisioni della proprietà che dalla sua abolizione. Ad una considerazione meno superficiale appare subito che dissensi e contrasti derivano dalla malizia degli uomini e che comunque i danni provenienti dalla abolizione della proprietà sono assai più gravi di quelli provenienti dalla sua conservazione. Nel regine collettivistico solo le autorità più forti potrebbero impedire l’insorgere di contrasti tra cittadini e classi e di ribellioni: ma a quale prezzo? Al prezzo della libertà e dell’umanità: gli uomini verrebbero ridotti in massa ad una condizione servile, mentre nella società a regime di proprietà privata le autorità sono sufficienti a reprimere abusi e a disciplinare tali contrasti con la forza delle leggi. « A buon diritto dunque scrive Leone XIII il genere umano trova proprio nella legge naturale il fondamento della divisione dei beni e la proprietà privata come la più adatta alla natura dell’uomo e alla convivenza pacifica. Le leggi civili, che in quanto sono giuste, si basano sul diritto naturale, confermano la proprietà privata e la difendono anche coattivamente ».

    È perciò pienamente legittimo dire che non si può avere un vero concetto di libertà senza la proprietà privata, senza che tuttavia l’istituto della proprietà debba ritenersi immutabile o debba essere escluso qualunque intervento dell’autorità in proposito. Pio XII nel radiomessaggio del I Sett. 1944 ammoniva che la Chiesa non ha alcuna pretesa che si sostenga puramente e semplicemente l’attuale condizione delle cose, quasi che si debba prendere come l’espressione di una volontà divina. La Chiesa è tanto lontana dal proteggere i ricchi contro i poveri nella conservazione dei loro privilegi, che dalla sua prima costituzione ha sempre perseguito il programma di difendere i diritti degli oppressi contro la tirannia dei potenti. La proprietà privata viene difesa unicamente come un elemento dell’ordine sociale, presupposto della libera iniziativa e stimolo al lavoro per raggiungere meglio le finalità temporali, il cui raggiungimento favorisce l’orientamento degli uomini alla vita soprannaturale. Né d’altra parte si può dire che la Chiesa sia contraria all’intervento dell’autorità nel disciplinamento della proprietà privata per il semplice fatto che ne afferma la insopprimibilità da parte dello Stato. I documenti pontifici degli ultimi tempi sono costanti nell’attribuire all’autorità un compito di moderazione e di equilibrio, limitando la proprietà assoluta, promuovendo l’equilibrio delle classi e dimostrando una preferenza alla protezione dei più deboli.

    La limitazione della proprietà è intesa dalla dottrina della Chiesa secondo una via media tra gli opposti sistemi del liberalismo e del collettivismo, non secondo un criterio vago e generico, come qualche volta le si rimprovera, ma secondo sforzo di interpretazione del diritto naturale, in cui lascia la dovuta libertà di espressione ai suoi figli e a tutti i cittadini. Così ha sempre ritenuto più vicino al diritto naturale l’uso comune dei beni che il loro possesso esclusivo, quando i problemi sociali non erano ancona avvertiti nella forma esasperata di oggi. In questo senso, ad esempio, ha sempre ritenuto che il diritto di proprietà restasse limitato dalla condizione di estrema necessità di tutti coloro, che non possono essere impediti nell’accesso ai beni necessari senza pregiudizio alla vita. E’ vero che questo limite nel passato è stato prevalentemente ritenuto di ordine caritativo più che giuridico, o di carità più che di giustizia. Molti autori però affermano vigorosamente che tale obbligo di carità può trasformarsi in un obbligo di giustizia, non nel senso di una mutazione o di una confusione intrinseca tra i due ordini, ma in quanto le condizioni sociali possono determinare il cambiamento, ad esempio per attenuare differenze enormi che potrebbero crearsi tra il mondo dei ricchi e quello dei poveri.

    La dottrina della Chiesa è tanto favorevole alla massima estensione della proprietà privata, che alcuni autori ne deducono un confronto assai significativo: come si deve favorire la diffusione della cultura, in modo che non si abbiano più gli analfabeti, così si deve favorire la diffusione della proprietà, in modo che non si abbiano dei nullatenenti. Sarebbe d’altronde contraddittorio difendere l’istituto della proprietà privata c non volerne la massima estensione. Il diritto di proprietà è infatti inerente alla natura umana e precisamente nel senso che il lavoro sia il primo titolo di accesso alla proprietà. Pio XII nel radiomessaggio del Natale 1942 dichiara apertamente, sulla scia dei Predecessori, la nobiltà del lavoro, dal quale non si deve trarne soltanto un salario sufficiente al sostentamento dell’operaio e della sua famiglia, ma anche la possibilità di una qualche proprietà privata, sia pure modesta, dalla cui diffusione derivano le migliori conseguenze per la convivenza sociale. Tale diffusione potrebbe ovviare al duplice disordine sociale implicito nella società liberalistica, nella quale accanto a innumerevoli poveri nullatenenti si avrebbero pochi proprietari ricchissimi e nella società collettivistica, nella quale sotto il prepotere dello Stato, e unico proprietario, tutti i cittadini sarebbero privati della possibilità di possedere qualche cosa in proprietà esclusiva, con la conseguenza funesta di comprometterne la libertà e la dignità umana. Se è vero che la Chiesa ha sempre riconosciuto il diritto di proprietà e di trasmissione ereditaria dei beni (Quadragesimo anno), non è meno vero che ha proprietà privata deve essere in modo speciale il frutto naturale di un lavoro personale. La coscienza cristiana non può dunque riconoscere la giustizia di un ordinamento sociale, che nega in via di principio o rende praticamente impossibile e vano il diritto naturale alla proprietà, sia sui beni di consumo, che su quelli di produzione. Nella difesa del principio della proprietà privata, la Chiesa non si prefigge la difesa di interessi precostituiti, bensì un obbiettivo morale e sociale.  

 

Proprietà e socializzazione

  

    Questi principi che si leggono nel radiomessaggio già citato del I sett. 1944 ci consentono un apprezzamento positivo delle cosiddette « nazionalizzazioni ».  I socialisti in genere propugnano ed esigono la collettivizzazione di tutti i mezzi della produzione attraverso le nazionalizzazioni, avversati acremente dai liberali.

    Si deve francamente ammettere che le esperienze fatte in diversi paesi non sembrano positive, né sul piano economico, in cui non hanno portato all’aumento della produzione, né sul piano sociale, in cui non si é avuto un effettivo miglioramento della condizione degli operai, né infine sul piano politico, nel quale hanno rappresentato qualche cosa di più di un semplice pericolo di totalitarismo e di despotismo. Tuttavia non si può dire che le nazionalizzazioni siano condannate in linea di principio. La Quadragesimo anno ammette la liceità delle nazionalizzazioni, quando vi è un pericolo grave per la salvezza della patria o per il bene comune.

    Il Padre De Mario si esprime così in materia di nazionalizzazione, nella Civiltà Cattolica del 7 Sett. 1946: La Chiesa non condanna le nazionalizzazioni in se stesse, ma nel loro uso eccessivo. La nazionalizzazione di alcune imprese in determinate circostanze è lecita ed opportuna. In particolare può essere conveniente nazionalizzare imprese che potrebbero rivelarsi dannose al bene comune. Tuttavia non si deve considerare la nazionalizzazione come il primo o l’unico mezzo di subordinane le imprese al bene comune; l’eccesso di nazionalizzazione potrebbe accentuare, invece di attenuare, il carattere meccanico della vita e del lavoro in comune.

    Infine non si deve dimenticare che la dignità e l’indipendenza della persona umana, deve essere difesa da ogni sorta di oppressione politica ed economica particolarmente presente nella socializzazione.

    Allo studio delle relazioni tra socializzazione e persona umana è stata dedicata la settimana sociale di Francia a Grenoble del 1960.

    La nozione di proprietà privata non si può ritenere univoca nella sua applicazione ai diritti personali e ai beni esterni, particolarmente sotto l’aspetto della esclusività. Le limitazioni della proprietà nei beni esteriori devono essere più facilmente consentite che la limitazione nell’ambito dei beni o diritti personali. E poiché tali limitazioni sono di competenza dell’autorità pubblica è opportuno chiarirne l’estensione.

    Il potere della pubblica autorità deve essere misurato dalle esigenze del bene comune, perché il suo fine é quello di difendere e promuovere l’ordine e la prosperità della società. Essendo le esigenze del bene comune legate a circostanze mutabili, la pubblica autorità deve adattarsi all’evoluzione della realtà sociale. La sua competenza in circostanze eccezionali, tempo di guerra o di carestia, è grandissima. Ne sono sempre legittimi gli interventi moderati sia circa lo stesso diritto di proprietà, sia circa l’uso dei beni. In questa affermazione concordano tutti gli autori, che però non sono unanimi nello stabilire in concreto l’estensione dell’ingerenza dello Stato: anche fuori del campo collettivista si hanno dei contrasti tra dirigisti e antidirigisti e di fatto tutti gli Stati si attribuiscono vastissime competenze in proposito.

    Dai principi comuni esposti crediamo di poter trarre le seguenti conclusioni.

    L’autorità pubblica non solo non può abolire, ma deve difendere l’istituto della proprietà privata, reprimendo i furti, le frodi ecc., ed in genere lo Stato deve tendere piuttosto alla estensione della proprietà privata, che alla sua restrizione, dando sempre la precedenza al bene comune, prevenendo e punendo gli abusi, che potrebbero verificarsi nell’esercizio del diritto di proprietà con detrimento della prosperità pubblica. Tutta la politica sociale ed economica degli Stati moderni è fondata sul principio che la proprietà privata, pur manifestandosi in primo luogo come un diritto personale, ha una funzione prevalentemente sociale, in quanto il benessere del proprietario deve essere subordinato alla prosperità pubblica di cui lo Stato è custode.

    Non si deve ritenere puramente chimerico il pericolo negli Stati moderni di compromettere direttamente o indirettamente il diritto di proprietà sotto l’influsso di tendenze collettivistiche e sotto il pretesto di una giustizia sociale intesa demagogicamente, fino alla progressiva demolizione della proprietà stessa. Un processo del genere sarebbe nefasto e porterebbe alla paralisi dell’attività economica. Opportunamente Leone XIII contesta allo Stato la competenza di distruggere equivalentemente la proprietà privata per mezzo di una eccessiva politica fiscale; ai pericoli di una esagerata accentuazione della funzione sociale della proprietà si può facilmente ovviare diffondendola ed estendendola il più possibile.

  

Prospettive attuali

  

    La dottrina della Chiesa, che abbiamo esposto per sommi capi, potrebbe apparire a qualcuno come troppo vaga e generica: non bisogna pretendere dalla Chiesa delle soluzioni immediate e definitive in un campo soggetto a mutamenti come quello della proprietà privata. La Chiesa non può andare oltre nel suo insegnamento all’esposizione dei principi di ordine naturale ed umano: spetta ai singoli cittadini e particolarmente ai cattolici impegnati nella vita civile e militanti nei partiti politici trasferire la forza dei principi nella realtà concreta della vita sociale.

    Non é difficile imbattersi in Autori cattolici, che seguendo da vicino le evoluzioni della società contemporanea parlano di un revisionismo necessario o almeno accettabile della proprietà privata. Tra i due sistemi opposti del liberalismo e del collettivismo, come espressione del monopolio privato o di stato, si parla assai di un sistema di comproprietà, che potrebbe estendere a tutti gli uomini un minimo di proprietà sotto forme assai diverse di realizzazione.

    Citiamo le conclusioni di un fascicolo supplementare della rivista francese Economie et Humanisme, n. 121 del 1959 (Autori Vari, La proprieté en question?), che pongono ai cattolici dei problemi morali di grande interesse. Eccole.

    La società contemporanea sui piano economico tende sempre più a sostituire al regime di proprietà individuale e familiare una disponibilità comune di beni sia nell’industria, che nel commercio e nell’agricoltura.

    Questo venir meno ai ruoli tradizionalmente ammessi della proprietà risponde a criteri morali? I cattolici devono incoraggiarlo o combatterlo? Che dire della possibile e prevedibile scomparsa della proprietà nella tecnica? Fino a che punto i criteri di sicurezza e di libertà invocati dal moralista sono legati alla proprietà?

    Sono interrogativi che attendono una risposta e prima di tutto uno studio assai attento, fondato sui dati di scienze parallele, interessante all’economia e alla giustizia.

    Si ha inoltre una rottura di fatto tra proprietà e autorità nell’impresa societaria moderna. A differenza del regime di proprietà tradizionale, nel quale si trovava unificato in una persona il padrone, il gestore e l’autorità, oggi si avverte uno iato tra capitale e lavoro, un divorzio tra autorità dell’impresario e autorità degli azionisti.

    È legittima l’esclusione nella gestione dell’impresa di qualsiasi partecipazione dei rappresentanti del lavoro?

    Lo Stato ammette di solito e incoraggia tale partecipazione: il moralista può dal suo canto incoraggiarla? E come giustifica tale legittimità? In terzo luogo si tende oggi a procurare la sicurezza del lavoro salariato al di fuori di ogni proprietà personale, rompendo così l’unità del binomio sicurezza-proprietà e infirmando uno dei più validi argomenti in difesa della proprietà.

    Il moralista può approvare indirizzi e orientamenti del genere? Nel passato la distribuzione degli utili di un’impresa era lasciata alla discrezione del proprietario. Oggi tale potere discrezionale è assai limitato, dovendo obbedire a criteri politici o nazionali di una redistribuzione dei redditi. In altre parole alla discrezione del proprietario si sostituisce sempre il potere discrezionale dello Stato.

    Questa evoluzione di limitazioni, che costituisce un nuovo capitolo della funzione sociale della proprietà, é accettata come legittima dalla morale? Infine l’intervento dello Stato sui prezzi e sugli indirizzi della produzione pone ulteriori problemi al regime tradizionale di proprietà sotto l’aspetto della libertà. Il potere politico mediante pesi fiscali o agevolazioni, mediante una politica di crediti, di prezzi e di investimenti pubblici, viene a limitare la sovranità della proprietà non senza profonde ambiguità. I grandi complessi produttivi a organizzazione nazionale o internazionale resistono bene e si sottraggono facilmente alle conseguenze degli interventi pubblici, che spesso sono addirittura determinati da giochi di speculazione e da monopoli dei prezzi. Ne sono invece danneggiati i piccoli proprietari, che rimangono alla mercé di disposizioni, alle quali non possono adeguarsi con sufficiente prontezza.

    È assai importante per il moralista seguire da vicino problemi sempre nuovi e formidabili, che non si possono risolvere con formulette e ricette più o meno felici.

    L’equilibrio tra funzione sociale e personale della proprietà privata non può essere fissato una volta per sempre. Dalla proprietà come diritto personale con una funzione sociale alla proprietà come valore sociale con una funzione personale e familiare si ha una gamma pressoché infinita di possibili sviluppi, che senza infirmare minimamente i sani principi indicati nella tradizione cattolica e nel Magistero pontificio degli ultimi tempi, non si possono facilmente indicare come contrari ad essi.

    Non si guardi dunque a questi piloni della dottrina cattolica come a formulazioni troppo generiche. Si tratta piuttosto di affermazioni di principio, che lasciano vastissimo campo alla libertà dello studio dei fenomeni sociali e alla libera iniziativa di impegni politici per la realizzazione di una migliore giustizia sociale.  

 


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