L'Arcivescovo Ferdinando Lambruschini  - Scritti

Ritorno alla: HOME PAGE / Prima Pagina con indice generale

 

Ferdinando Lambruschini

La Giustizia virtù non facile

Introduzione Indicazioni bibliografiche Indice Generale
Cap. I II III IV V VI VII VIII IX X XI XII

 < PREC 

CAPITOLO IX

 SUCC > 

LA RIPARAZIONE DELL'INGIUSTIZIA
Concetto di ingiustizia  
Concetto di restituzione  
Titoli della restituzione  
Obbligo della restituzione e salvezza eterna  
La restituzione nell’ambito della giustizia distributiva e legale  
Conclusione  

 

CAPITOLO IX

 

LA RIPARAZIONE DELL’INGIUSTIZIA

 

Concetto di ingiustizia

 

    Alla virtù cardinale della giustizia si oppone l’ingiustizia, come abitudine, e l’ingiuria, come atto di violazione del diritto degli altri, quando la persona contro la quale si commette ingiustizia o ingiuria sia ragionevolmente contraria a rinunziare ai suo diritto. Infatti in forza del n.27 della Regula Iuris non viene recata offesa a chi consente, supposta naturalmente la piena disponibilità del diritto oggettivo, che si ha, ad esempio, sulla proprietà, non sulla vita. Violazioni del genere sono possibili nei confronti dei diritti personali, in senso stretto, all’educazione e alla libertà, dei diritti personali in senso largo, alla fama e all’onore, dei diritti misti, ad esempio al lavoro, ed infine dei diritti reali nell’ambito della proprietà.

    La violazione si può avere nell’ambito della giustizia commutativa, se l’ingiuria viene recata a privati, nell’ambito della giustizia distributiva e legale, se l’ingiuria viene recata alle persone in quanto membri della società o alla società stessa.

    Nella violazione di qualunque specie di giustizia con l’offesa di Dio si ha un danno al prossimo: l’una e l’altro esigono una riparazione, che nell’ambito della stretta giustizia prende il nome specifico di restituzione.

 

Concetto di restituzione

 

    Secondo l’etimologia, restituire equivale a rimettere qualche cosa al suo posto, reintegrandola nelle condizioni antecedenti il danno recato. Se l’obbligo di una riparazione si accompagna a qualunque peccato, la restituzione trova il suo campo di applicazione nella violazione della giustizia. Direttamente però viene presentata dai moralisti come un atto di giustizia commutativa, per mezzo del quale si restituisce il mal tolto o si ripara un danno arrecato, secondo un criterio di perfetta uguaglianza del diritto oggettivo violato, che deve essere reintegrato.

    Chi ha rubato una cosa ha l’obbligo di restituirla in se stessa o nel suo equivalente e chi ha recato un danno volontariamente deve ripararlo adeguatamente. In detta equivalenza riteniamo debba rientrare il compenso materiale in seguito a violazione di diritti personali, che in se stessi non possono essere reintegrati.

    Qualche moralista, seguendo S. Alfonso, non urge l’obbligo di tale compensazione, sotto lo specioso pretesto che la restituzione debba essere fatta sulla linea di una perfetta idèntità. Poiché non si può restituire la vista ad una persona accidentalmente o volontariamente accecata, non si può determinare una somma di danaro a titolo di stretta restituzione. Preferiamo seguire S. Tommaso, che realisticamente ragiona così: « Quando non si può restituire in se stesso o nel suo equivalente perfetto un diritto violato, si deve offrire un compenso nella forma possibile: ad esempio, se qualcuno mutila di un membro una persona, deve compensarla con danaro o con titolo di onore secondo le condizioni civili dell’offeso e dell’offensore e giusta l’arbitrio di un uomo prudente ».

    La sempre più efficiente sostituzione della legge ai giurì di onore e la prassi assai diffusa nella complessa organizzazione della vita moderna (si pensi alle assicurazioni per gli incidenti automobilistici) non lascia dubbi in proposito. L’istituto della restituzione non è riducibile ad una generica soddisfazione, ma deve pervenire alla reintegrazione della cosa rubata e alla riparazione del danno arrecato. La soddisfazione generica ha luogo nei confronti dell’offesa di Dio, perché se nessuno può pretendere di potergli restituire l’onore tolto, si suppone che Dio non lo esiga dal peccatore; ma nei debiti contratti con gli altri uomini il bene comune esige la riparazione più completa e cioè la restituzione propriamente detta.

    

Titoli della restituzione

 

    E due sono i titoli che fondano l’obbligo della restituzione, quello del possesso illegittimo di cosa altrui e quello del danno recato. Chi possiede una cosa di altri, anche se l’avesse acquistata in buona fede, deve restituirla in se stessa o nel suo equivalente. Su affermazioni di principio del genere tutti sono concordi, benché nella applicazione si abbiano le opinioni più disparate, perché gli statuti dell’antico diritto romano non sono del tutto chiari in proposito e non sempre i codici moderni consentono con essi.

    L’obbligo invece della restituzione secondo il titolo del danno arrecato, è più chiaramente espresso, quando si verificano le seguenti condizioni:

    1) Il danno è reale; ossia è stato violato un vero diritto altrui, suscettibile di riparazione. Non è sufficiente l’intenzione cattiva.

    2) L’azione del dannificante è veramente ingiusta, ciò che si deduce soprattutto dall’uso di mezzi illegittimi. Se Caio ha diritto ad una eredità, perché figlio del testatore, si ritiene ingiusto dannificatore chi impedisce l’accesso all’eredità, anche se non ricorre a mezzi ingiusti, come la calunnia. L’esclusione invece di una designazione all’eredità di chi non ne ha diritto per legge, è ritenuta ingiusta solo se sono stati usati mezzi ingiusti, come la calunnia, non se sono stati usati mezzi legittimi, come l’influsso della propria autorità.

    3) L’azione del dannificante costituisce una colpa teologica, ossia un’offesa di Dio. Non si richiede tuttavia che il dannificante abbia coscienza dell’offesa teologica: basta che abbia una responsabilità morale diretta o indiretta del danno arrecato. In altre parole è sufficiente che l’azione dannificante sia un atto umano, elicito dalla volontà con conoscenza del fine. In questo senso un superiore, un giudice, un medico, un avvocato, un confessore non sono tenuti a riparare i danni arrecati nell’adempimento del loro ufficio, se non hanno commesso una colpa teologica. È chiaro però che tali uffici richiedono una grande diligenza. Ne segue che una negligenza materialmente leggera può facilmente essere qualificata grave e obbligare pertanto alla restituzione.

 

    Si noti ancora che nella complessità della vita moderna il diritto positivo obbliga alla riparazione dei danni indipendentemente da una colpa: la cosa si verifica ad esempio negli incidenti automobilistici e nei genitori per i danni causati da figli minori. Disposizioni del genere hanno lo scopo di richiamare gli uomini ad una grande diligenza per non recare danno alla convivenza sociale. L’obbligo sorto dalla legge impegna la coscienza, per lo meno dopo una sentenza giudiziaria.

 

    4) Infine tra la colpa e il danno deve esserci un nesso di causalità diretta o indiretta. Si pensi al caso seguente: Tizio uccide Caio prevedendo che il delitto verrà imputato a Mario, di cui tutti conoscono i rapporti di ostilità con l’ucciso. Tizio è tenuto a riparare i danni causati dall’omicidio, non quelli derivanti dall’imputazione dell’omicidio a Mario, a meno che nel compiere il misfatto non abbia agito in modo da far cadere positivamente l’imputazione su Mario, usando le sue armi, i suoi vestiti ecc. In questo caso è tenuto a riparare anche i danni causati a Mario, cui l’assassinio è imputato.

 

Obbligo della restituzione e salvezza eterna

 

    Quando l’obbligo della restituzione è grave per la gravità della colpa ed insieme del danno arrecato, la restituzione « in re o in voto », ossia effettiva o in programma, è per legge divina assolutamente necessaria alla salvezza eterna. Oltre a molteplici passi della S. Scrittura si porta un testo assai significativo di S. Agostino: « Se la roba d’altri, per la quale si è peccato, non viene restituita, quando si abbia la possibilità di restituirla, non si fa vera penitenza, ma si finge: non viene dunque rimesso il peccato, se non si restituisce ciò che si è rubato; ma come ho detto, sotto la riserva che la restituzione sia possibile ». S. Tommaso più concisamente argomenta così: « Poiché l’osservanza della giustizia è assolutamente necessaria per salvarsi, ne segue che la restituzione di ciò che si è tolto ad altri ingiustamente, è parimenti necessaria per salvarsi ».

    Non si può invece dire necessaria la restituzione secondo la formula tradizionale « necessaria necessitate medii », perché altrimenti anche coloro che non restituiscono perché non ne hanno la possibilità fisica o morale verrebbero automaticamente esclusi dal piano della salvezza. Se fosse così, la giustizia sarebbe troppo severa, priva di ogni umanità e contraria all’ordine morale obbiettivamente considerato.

    I moralisti accusati a torto di essere sordi alle istanze dell’umanità sanno invece mostrarsi assai comprensivi ed enumerano varie cause, che esimono dalla restituzione, sospendendone temporaneamente o estinguendone del tutto l’obbligo.

    Persino se il padrone si mostrasse irremovibile nel pretendere la restituzione e restio a rinunciare ad essa, avrebbe sempre prevalenza la legge morale, la quale di autorità suppone che egli consenta al differimento o all’estinzione dell’obbligo di restituire. Si tratta infatti di forza maggiore, costituita dalla impossibilità fisica o morale della restituzione. Qualora non si tratti di estinzione, ma soltanto di differimento, nel dannificante deve perseverare la disposizione alla restituzione, quando ne avesse la possibilità e l’opportunità.

 

La restituzione nell’ambito della giustizia distributiva e legale

 

    Sui principi sopra enunciati i moralisti si trovano pienamente d’accordo per quanto riguarda la giustizia commutativa: le diversità si hanno sul piano delle applicazioni, che non è qui il caso di esporre. Si riscontrano invece posizioni rovesciate per quanto riguarda la restituzione nell’ambito della giustizia legale e distributiva: infatti ad una drastica opposizione proprio sulla linea dei principi, in quanto alcuni respingono un eventuale obbligo di restituzione, che altri tentano di affermare, corrisponde un addolcimento delle posizioni contrastanti, quando si passi alle applicazioni pratiche.

    Vorremmo esaminare la cosa un pò più ampiamente, formulando così il problema: è certo che si verificano delle autentiche violazioni della giustizia legale e distributiva: si può e si deve imporre o no l’obbligo della restituzione a chi si è reso colpevole di tali violazioni?

    Sforzandoci di rispondere all’interrogativo posto, vogliamo prescindere dai molteplici casi nei quali si ha insieme violazione di giustizia legale o distributiva e di giustizia commutativa. Si prenda l’esempio classico di un concorso bandito per la scelta di pubblici ufficiali dello Stato. I candidati hanno fatto una faticosa preparazione, affrontando spese e perdite di tempo non indifferenti: il concorso non può essere una pura formalità o un pretesto per coprire delle preferenze. Se i giudici del concorso fanno la loro scelta senza tenere alcun conto delle prove o ne hanno falsato il significato, passando sottomano le soluzioni esatte ad alcuni concorrenti preferenziati, si rendono manifestamente colpevoli di violazione della giustizia commutativa e sono tenuti in coscienza alla riparazione dei danni.

    Vogliamo invece parlare della pura e semplice violazione della giustizia distributiva o legale, di cui ci riserviamo di portare qualche esempio chiarificatore. Tutti i moralisti del passato e gran parte di quelli odierni nel campo cattolico negano che in caso di violazione della giustizia distributiva e legale si possa imporre l’obbligo della restituzione, basandosi su due ragioni fondamentali. In primo luogo sia nella giustizia distributiva, che in quella legale si ha un difetto di perfetta alterità, perché da una parte la società non si distingue pienamente dai suoi membri e dall’altra il bene dei singoli non è adeguatamente contrapposto a quello comune.

    In secondo luogo la restituzione si deve imporre solo quando è stato violato un diritto stretto, fondato sull’uguaglianza, mentre il diritto della giustizia distributiva e legale è fondato sulla proporzione.

    Non si tratta come si vede di ragioni campate in aria e quindi nutriamo il massimo rispetto per questa opinione, che si può dire tradizionale. Tuttavia osiamo pensare che se ne possa dedurre solo l’impossibilità di una restituzione secondo un criterio di stretta uguaglianza di cosa a cosa e di prestazione a prestazione, non l’impossibilità assoluta di una riparazione.

    Anche nella giustizia commutativa, se si eccettuano i furti e le violazioni di alcuni contratti, come di compra-vendita, è assai difficile determinare la quantità e le modalità della restituzione: si pensi alla restituzione nella violazione della fama, del segreto e in genere dei diritti strettamente personali. Se in una prima accezione la restituzione suppone l’identità materiale e formale del diritto leso, che si obbiettiva facilmente, in una seconda accezione è stata trasferita e applicata anche alle attività umane, di cui si può controllare un effetto ad esempio in un ferimento o nella diffamazione.

    Accediamo quindi volentieri alla schiera di quei moralisti moderni, che urgono la necessità e l’obbligo della restituzione nella violazione della sola giustizia legale o distributiva. L’affermazione che la società non si contraddistingua pienamente dai membri e il bene comune da quello dei singoli cittadini ci sembra una sottigliezza giuridica. Di fatto altra cosa è la società, in se stessa o nell’autorità che la rappresenta, e altra cosa sono i membri di essa: parimenti non si può confondere il bene comune con quello dei singoli privati, con il quale non coincide, nè materialmente nè formalmente. Scrive saggiamente il padre Gillet: « Si può ammettere che essendo il bene comune in qualche modo il mio bene, io posso accampare il diritto di dimenticare che esso è pure il bene di tutti gli altri membri della comunità e che, se lo danneggio gravemente, non sono obbligato a riparare i danni recati agli altri? Le circostanze concrete di una compensazione sono forse ancora da determinarsi ma una determinazione del genere non deve essere ritenuta chimerica: se non si può fare secondo un’uguaglianza aritmetica, si potrà fare secondo una equa proporzione ».

    Non ci sembra neppure esatto che nelle giustizie distributiva e legale non si verifica la nozione di giustizia nel senso stretto: Leone XIII dichiara esplicitamente nell’Enc. Rerum novarum che la società è obbligata a proteggere la vita e i diritti dei più deboli e se non lo fa viola la giustizia propriamente detta. Ammettiamo che la giustizia legale, come quella distributiva, sono diverse dalla giustizia commutativa, ma non possiamo ammettere che non si trovino nell’ambito della giustizia strettamente intesa.

    Qualunque virtù esige una riparazione in caso di offesa: non si può fare eccezione per la giustizia, tanto necessaria al sano vivere sociale. La ingiusta distribuzione dei beni, creando condizioni ineguali e partigiane tra i cittadini, procura gravi pregiudizi ad alcuni membri della comunità e sovverte la pace della comunità. Si pensi all’obbligo della istruzione elementare per soddisfare alla quale alcuni Stati, assegnata una somma determinata per l’educazione dei singoli ragazzi, lasciano ai genitori la libertà di scegliere o di organizzare le scuole destinate ai loro figli, mentre altri obbligano le famiglie tutte a mandare i loro figli alle cosiddette scuole neutre, commettendo un’ingiustizia di distribuzione nei confronti delle famiglie stesse. Così nell’ordine sanitario si afferma in teoria il diritto di tutti i cittadini ad una assistenza, che giunge fino alla spedalizzazione: ma come fare quando in una regione della stessa nazione i posti letto degli ospedali sono solo l’uno per cento, mentre in un’altra regione raggiungono l’optimum del dieci per cento?

    Non riteniamo neppure del tutto valido il riferimento alla dottrina tradizionale, che non ammetterebbe l’obbligo della riparazione nella violazione della giustizia che non sia commutativa. I grandi commentatori della Somma Teologica, card. Caietano, Giovanni da S. Tommaso e Francesco da Vitoria, parafrasando le qq. 62-63 della II-II, sono concordi nel dedurre l’obbligo della riparazione e della restituzione nella violazione della giustizia distributiva, fondandola precisamente non sulla lesione di diritti privati, ma di diritti pubblici.

    Ci sia dunque consentito sottoscrivere questa conclusione del padre Spicq: « Poiché la distributiva è una giustizia perfetta, il suo diritto è stretto e l’uguaglianza geometrica è una vera uguaglianza e poiché la società e i suoi sudditi sono enti distinti con bisogni e interessi diversi, con obblighi e diritti reciproci all’interno di una relazione giuridica perfetta, colui che distribuisce ingiustamente, è tenuto rigorosamente a restituire o a riparare ».

    Senza pretendere di rovesciare la tesi tradizionale, riaffermata nei tempi più recenti e con vigoria da Vermeersch e Merkelbach, guardiamo con simpatia agli sforzi di altri Autori qualificati per introdurre l’obbligo della restituzione nell’ambito della giustizia legale, seguendo, sia pure a debita distanza, la prassi degli Stati moderni a ispirazione liberale o collettivista, nei quali si attribuisce la massima importanza ai valori della giustizia distributiva e legale.

    È vero che negli Scolastici non è molto estesa la gamma della trattazione riservata alla giustizia legale. Ma si possono fare due osservazioni. S. Tommaso, trattando della giustizia si riferisce soprattutto a Cicerone ed a Aristotele, il quale ultimo tratta della giustizia in tre discipline, cioè l’etica, l’economia e la politica. S. Tommaso si interessa soprattutto dell’aspetto direttamente morale, per il quale sono sufficienti le considerazioni della giustizia commutativa, mentre i peccati contrari alla giustizia legale, come l’omissione del pagamento delle tasse, il rifiuto del servizio militare, il tradimento, il disfattismo ecc. rientrano piuttosto nell’ambito dell’economia e della politica. Inoltre l’Angelico considera la giustizia legale piuttosto sotto l’aspetto generale, in modo che l’ingiustizia è presentata come violazione della legge. E la violazione della legge esige sempre una riparazione.

    Osserviamo ancora con Heylen che non condividiamo l’ostinazione di coloro che esagerano la distinzione tra uguaglianza aritmetica di cosa a cosa e uguaglianza geometrica. Il diritto suppone un’eguaglianza, che non si può sempre intendere in senso materiale, ma in senso morale. Ora il diritto come debito morale non si può estendere al di là del possibile, ma si può e deve estendere a tutto il possibile. E sotto l’aspetto del diritto, qualunque uguaglianza, aritmetica o geometrica, nei limiti della possibilità, deve essere ritenuta ugualmente stretta e piena.

    Se il danno recato alla società violando la giustizia legale è grave, deve essere riparato nel modo migliore possibile. Concediamo che le esigenze comportate dalla organizzazione della vita pubblica non sono codificate in formule rigide e che molte difficoltà si frappongono ad una formulazione chiara sul piano della legge positiva. Tali difficoltà però non dispensano dall’affermare un obbligo grave e stretto di riparazione.

    Cerchiamo di chiarificare il nostro pensiero con un esempio di attualità. Una persona, fisica o morale non importa, fingendosi povera o simulando inesistenti danni di guerra ottiene un buon contributo dalle autorità responsabili, le quali sono al corrente dell’inganno, ma o per falsa pietà o per l’utilità di una percentuale, partecipano attivamente al falso. Da parte della persona simulante si ha un difetto di sincerità e di lealtà, contrario alla giustizia legale; da parte degli impiegati corrotti si ha una lesione, spesso gravissima, della giustizia distributiva. Credo che difficilmente si possa sostenere che non sia stata commessa una ingiustizia grave e stretta. Stando così le cose non si vede perché non si debba urgere l’obbligo di una riparazione, che fra l’altro in casi del genere non è neppure difficile: il povero simulato restituisce sufficientemente passando il sussidio ad un povero vero: chi ha simulato danni di guerra inesistenti, può riparare comprando titoli di stato e bruciandoli: colui che ha distribuito i beni dello Stato senza criterio di giustizia, a parte la restituzione aritmetica della percentuale illegittimamente guadagnata, deve compensare lo Stato per il danno arrecato comprando titoli e bruciandoli, o se non né ha la possibilità, lavorando di più in favore dell’amministrazione dannificata.

    È vero infine che nella giustizia distributiva e legale hanno molta importanza l’economia e la politica, ma non si può certo sostenere l’indipendenza di queste discipline dalla moralità.

L’organizzazione della società moderna attende forse dalla teologia morale un contributo di idee e di indirizzi per estendere all’ambito della socialità l’applicazione di quei principi morali, che il medioevo ha saputo così bene applicare nell’ambito delle persone.

 

Conclusione

 

    Ha scritto recentemente P. R. Spiazzi nel bel volume « Democrazia e ordine morale » che la democrazia « considerata sia come ideale e come spirito, sia come metodo, sembra talmente in armonia con il grado culturale, giuridico e politico di una grande parte del popolo, che pur potendosi criticare certe sue concrete attuazioni, tuttavia non si possa posporla ad altre formule che le vengono contrapposte ».

    Sono sacrosante parole che l’Osservatore Romano del 12-13 sett. 1960 ha proposto alla riflessione dei suoi lettori.

    Ci sembra che l’accettazione della democrazia impegni gli Autori cattolici ad un ripensamento delle condizioni attuali di vita sociale alla luce degli immutabili principi della teologia morale. Non c’è nulla da rinnegare nella costruzione del passato; ma con gli stessi materiali, cioè riferendosi ai principi universalmente e sempre validi, c’è forse da costruire un piano da aggiungere all’edificio precedente. Le basi sono solidissime, perché fondate direttamente sulla natura dell’uomo e in ultima istanza in Dio stesso, che ha creato l’umanità: possono dunque sostenere facilmente il peso di questo nuovo piano e di altri ancora, che i secoli futuri renderanno necessari. La moralità come il regno di Dio non ammette confini né di spazio né di tempo e il cammino della giustizia non può mai essere considerato al suo ultimo termine, qualunque siano le difficoltà che vi si frappongono.

    Un domenicano, che ha dedicato tutta la vita allo studio concreto dei fenomeni sociali, il padre Lebret, lamenta che in un mondo, in cui da cento anni nuove dottrine di produttività, di tecnocrazia e di pianificazione si sono contese il mondo, i cattolici non siano stati all’altezza della situazione, limitandosi a confermare gli impegni morali personali convinti che con la fedeltà al decalogo si risolvevano tutte le difficoltà, senza studiare a fondo gli elementi anticristiani, accumulati alla base di meccanismi disumanizzati e demoralizzanti, ancorandosi troppo al passato.

    Non si nega che il cristiano, per quanto misero, come uomo dotato di intelligenza e di volontà, creato a immagine di Dio e arricchito di un destino soprannaturale, conserva sempre un valore trascendente la realtà materiale più organizzata socialmente. La Chiesa, che non può essere indifferente alla giustizia e all’ingiustizia, invita i suoi fedeli a mostrarsi vigili e attivi di fronte ai regimi politici e alle strutture economiche, per incamminare il mondo verso nuove forme di progresso, di giustizia e di carità.

    Se essi sono stati colti alla sprovvista e si sono lasciati sopravvanzare dagli avvenimenti, non hanno mai capitolato e devono darsi da fare per riconquistare le posizioni perdute. Di fronte al tentativo di allontanare la morale dal mondo del progresso tecnico, dalla politica e dall’economia, i cattolici devono sentire l’impegno di lavorare per il ristabilimento dei principi immutabili e superiori, orientando saggiamente quanti, davanti al fallimento dei loro piani per l’elevazione, basati unicamente sul benessere materiale, cominciano a rendersi conto di aver sbagliato strada per aver sottovalutato i valori spirituali, che sono il sostegno più valido di qualunque serio progresso.

    Le leggi economiche — ha detto il Card. Montini agli organizzatori della Fiera di Milano del 1959 — non sono le supreme e non sono nemmeno inflessibili. Il dogma della loro ineluttabile necessità può tornare comodo per soluzioni contingenti e parziali: ma non è ammissibile, se crea delle vittime da una parte, dei privilegiati dall’altra. Le esigenze economiche sono importantissime e rispettabili nell’ordine economico e giuridico; ma sopra di esse vi sono le esigenze umane e sociali dell’ordine morale.

    Accanto alle libere scelte, amplissime in tale campo, occorre ammettere una politica cristiana ed una economia umana, che non è sempre da reinventare da parte di ciascuno, perché non si possono accantonare né S. Tommaso, né centocinquanta anni di Encicliche e di Magistero.

 


  www.maranatha.it

SESTRI LEVANTE (Genoa) Italy