L'Arcivescovo Ferdinando Lambruschini  - Scritti

Ritorno alla: HOME PAGE / Prima Pagina con indice generale

 

Ferdinando Lambruschini

La Giustizia virtù non facile

Introduzione Indicazioni bibliografiche Indice Generale
Cap. I II III IV V VI VII VIII IX X XI XII

 < PREC 

CAPITOLO VIII

 SUCC > 

GIUSTIZIA E SOCIETA'
La giustizia distributiva  
Concetto di giustizia distributiva 
La giustizia legale  
Concetto di giustizia legale

 

CAPITOLO VIII

 

GIUSTIZIA E SOCIETÀ  

 

    La proprietà privata pur avendo riflessi sociali innegabili, è direttamente ordinata a stabilire rapporti reciproci di diritti e di doveri tra le singole persone. Abbiamo omesso tutte le applicazioni sui modi originari e derivati di giungere alla proprietà, sia perché non abbiamo ritenuto necessaria tale esposizione ad una completa idea della giustizia, che costituisce lo scopo del nostro lavoro, sia perché è facile trovarne le indicazioni nei vari manuali di teologia morale o nei corsi istituzionali di diritto.

    Si ritiene invece assai utile per il nostro scopo dedicare un po’ di spazio a qualche considerazione sulla giustizia distributiva e su quella legale, che direttamente investono i rapporti dei singoli cittadini con la società, di cui fanno parte.

    Non è nostra intenzione e neppure nelle nostre possibilità fare un’esposizione completa di questi due aspetti della giustizia, importantissimi ai nostri giorni e che costituiscono oggetto di studio di discipline specializzate come la sociologia, la politica, l’economia, la tecnologia, la psicologia ecc. Ci sforzeremo di raccogliere alcune indicazioni essenziali nel mare immenso e alquanto confuso della giustizia sociale, i cui elementi si trovano specialmente nella giustizia distributiva e legale, benché non manchino in quella commutativa, come appare chiaramente dai capitolo precedente. Ci sforzeremo di fare cosa utile e chiarificatrice, ponendo le linee essenziali non in principi astratti, privi di dinamismo intrinseco, ma in idee fondamentali e concrete, maturate in una riflessione, che pur restando fedele ai principi, non perde di vista la realtà estremamente mobile delle condizioni sociali.

 

La giustizia distributiva

 

    S. Tommaso considera la giustizia distributiva nell’ordine privato in contrapposizione alla giustizia legale, che si realizza nell’ordine pubblico. Egli dice che compete alla giustizia legale ordinare le prerogative dei singoli al bene comune, e alla giustizia distributiva ordinare la distribuzione del bene comune alle singole persone, in quanto membri della società. Per la mentalità moderna non è facile accettare il punto di vista della teologia medioevale che, attribuendo la distribuzione al capo della comunità, ritiene tuttavia che la giustizia distributiva risiede nei singoli membri della società, in quanto questi sono contenti della giusta distribuzione. Da che cosa dipende infatti che la distribuzione si dica giusta? Nell’evoluzione sociale dei tempi della scolastica, pur essendosi già affacciati in qualche modo i diritti dei singoli a partecipare alla vita pubblica, la distribuzione del bene comune restava affidata all’arbitrio del principe e difficilmente si poteva concepire una distribuzione, della quale i sudditi potessero non essere contenti.

    S. Tommaso con gli scolastici era preoccupato più di distinguere la giustizia distributiva dalla commutativa, con la quale poteva confondersi in quanto terminava alle singole persone, secondo la specificazione del movimento da parte del termine ad quem. Nulla vieta però che la giustizia distributiva possa essere ritenuta assai vicina alla giustizia legale, considerandone il punto di partenza, che è l’autorità, in quanto rappresentante della società. Anche nel medioevo il capo ‘della comunità nella distribuzione non poteva prescindere dall’ordinamento al bene comune. L’organizzazione era assai diversa dalla nostra: allora tra il principe e il popolo non esistevano enti intermediari, che non fossero estensioni dell’autorità del principe, mentre oggi si hanno istituti giuridici e personali, come la Costituzione, il Parlamento, l’organizzazione amministrativa ecc., che danno un senso assai più obbiettivo alla giustizia distributiva. Questa è maggiormente collegata con la giustizia legale, tanto che, secondo alcuni autori, la giustizia sociale non è altro che la confluenza di quella legale e distributiva, in un processo di ascensione dai membri della società all’autorità o di discesa dall’autorità ai singoli membri della società stessa.

È del resto pacifico che S. Tommaso, proprio per distinguere la giustizia distributiva da quella commutativa, ha sempre considerato la prima legata sì alle persone private, ma in quanto parte di una società, che ha dei debiti verso di esse.

    C’è un’altra espressione che, a prima vista, può causare disorientamento in S. Tommaso, dove afferma che è tanto più grande il debito della società verso la parte in quanto questa ha una maggiore importanza nel tutto, ossia nella società. La cosa viene chiarita nel contesto dell’art. 2 della q. 61 nella II-II: ammesso che nella giustizia distributiva competa ai singoli membri della società una porzione del bene comune, proporzionata alla importanza che quella persona ha nella comunità stessa, così continua: « La quale importanza tuttavia è considerata in rapporto alla virtù nella società aristocratica, in rapporto alle ricchezze nella società oligarchica, in rapporto alla libertà nella società democratica e diversamente in altre società ».

    S. Tommaso non esclude nessun tipo di organizzazione sociale e con le ultime parole « in aliis aliter » sembra aprire il campo alle più vaste possibilità di organizzazione.

 

Concetto di giustizia distributiva

 

    Nonostante le differenze di impostazione, si può dedurre dall’insieme della dottrina tradizionale una definizione della giustizia distributiva valida anche per i nostri tempi, pur tanto diversi da quelli del medioevo per l’organizzazione sociale, come di « una virtù morale che inclina la società, o colui che ne fa le veci, a dare a tutti e a ciascuno dei membri di essa, quanto ad essi è dovuto ». Tale definizione si verifica pienamente nelle società perfette, (la Chiesa e lo Stato) e solo imperfettamente nelle società private, costituite per perseguire fini particolari, nelle quali si deve parlare piuttosto di giustizia commutativa.

    Chi rappresenta la società, a titolo proprio o per delegazione, è il soggetto del dovere della distribuzione, mentre i membri della società sono i soggetti di diritto o aventi diritto alla distribuzione. La reciprocità di dovere e di diritto costituisce il motivo formale della giustizia distributiva, il cui oggetto materiale diretto sono i beni in genere, in quanto espressione del bene comune, indiretto gli oneri. Gli scolastici distinguevano l’oggetto materiale remoto, cioè i beni in se stessi, dall’oggetto materiale prossimo, cioè le azioni esteriori, che presiedono alla distribuzione e costituiscono propriamente la giustizia distributiva.

    Chi tiene le veci della società deve in particolare:

    1)  Tutelare i diritti e i beni dei membri, non in via assoluta, beninteso, ma subordinatamente al bene comune e secondo una certa gerarchia di proporzione. Se infatti, ammonisce Leone XIII, tutti i cittadini, in quanto parti della società, sono uguali, senza distinzione tra ricchi e poveri, i più deboli hanno bisogno di maggiore assistenza, che non i più forti, i beni necessari devono avere la precedenza sopra i superflui. Come si vede il grande Papa, che pure si rifà sempre volentieri all’insegnamento di S. Tommaso, non ha scrupoli nel mutarne il criterio di distribuzione, legandolo non più alla maggiore importanza, ma al maggior bisogno.

    2) Concedere premi ai più meritevoli, per lo sviluppo delle arti, delle scienze e della virtù e distribuire sussidi a sollievo delle miserie fisiche e morali.

    Ai premi sono assimilati gli onori, la cui distribuzione più difficilmente suole rispondere a criteri di obbiettiva valutazione dei meriti.

    3) Assegnare gli uffici pubblici necessari, o comunque, atti a raggiungere più facilmente il bene comune, alle persone che eccellono nell’onestà, nella scienza, nell’arte, nell’abilità organizzativa ecc.

    4) Distribuire equamente gli oneri secondo le possibilità dei cittadini; ciò rientra già nella giustizia legale, in quanto suppone un diritto esigitivo nella società e un debito nei membri di essa.

    Il quadro, brevemente accennato, è assai più vasto di quello offerto dalla Somma Teologica, che praticamente riduce i peccati contro la giustizia distributiva alla « acceptio personarum », secondo una formula, che oggi appare alquanto generica. L’uguaglianza della giustizia distributiva esige che alle diverse persone della società vengano attribuiti compiti diversi secondo le loro qualità. Ora, dice S. Tommaso, fare una persona maestro o capo di una organizzazione, non è peccato di accezione delle persone, anche se si tratta di consanguinei o di amici, se quella persona è fornita delle qualità necessarie. C’è invece acceptio personarum se la persona prescelta non è fornita delle qualità necessarie: infatti scrive lepidamente S. Tommaso « la consanguineità rende qualcuno degno di ricevere la designazione ad erede di un patrimonio, non che gli si conferisca una prelatura ». Di fatto a meno che non si abbia la concorrenza di qualche forma di giustizia commutativa non si ha l’obbligo di scegliere il migliore, perché la cosa essendo spesso impossibile, renderebbe assai difficile la convivenza sociale: tuttavia l’Angelico non ammette che si possa prendere a giustificazione della acceptio personarum il modo di agire di Dio, che dà la sua grazia a chi vuole.

La grazia è un dono, che si dispensa liberamente, mentre le cose dovute per giustizia devono essere distribuite equamente. Se S. Tommaso conosce e condanna il peccato contro la giustizia distributiva non possiamo pretendere da lui l’anticipo di soluzioni che solo oggi sono state rese possibili. In particolare no dobbiamo scandalizzarci, se alla questione propostagli dalla Duchessa di Brabante circa la liceità di vendere gli uffici pubblici, risponde con una certa ambiguità e diplomazia, che la cosa in sé è possibile e lecita, limitandosi a dire che spesso non è opportuna, perché può avvenire che coloro, i quali non sono in condizione di poter comprare le pubbliche cariche con il danaro, ne siano effettivamente i più degni: d’altra parte anche coloro che sono già abbastanza provveduti di mezzi rifiuterebbero di comprare per amore del quieto vivere. Comunque si avrebbe la conseguenza, che tali uffici verrebbero conferiti agli incapaci, agli ambiziosi e ai cattivi amministratori, preoccupati di ammassare delle ricchezze, invece che del bene comune. Un insegnamento di questo genere non si potrebbe sostenere oggi, anche se limitato alle cariche civili, (in quelle ecclesiastiche si avrebbe simonia). Del resto lo stesso San Tommaso, proponendosi il caso di ministri che hanno angariato il popolo con vessazioni ingiuste, lo risolve con una distinzione più severa: se il denaro ingiustamente carpito è stato passato al principe, questi deve restituirlo alle persone dannificate o a opere pie, se la cosa si è fatta impossibile. Se invece tale danaro è ancora nelle mani degli amministratori, questi devono essere obbligati a restituirlo, perché a nessuno è lecito arricchirsi ingiustamente e anche puniti. Nell’organizzazione moderna la giustizia distributiva prende sempre maggiore ampiezza. Oggi si parla persino del dovere da parte delle nazioni più ricche e privilegiate, come sono l’America e la Russia, di venire in aiuto dei popoli meno evoluti. Il movimento è nato dalla pubblica carità degli Stati Uniti con l’attiva partecipazione dei cattolici; non ci meraviglieremmo, se si giungesse a stabilire un quadro internazionale, nel quale le nazioni privilegiate si impegnassero quasi per obbligo di giustizia, a versare un determinato contributo in sovvenzione delle nazioni meno abbienti.

 

La giustizia legale

 

    Gli uomini sono per natura politici e cioè chiamati a vivere in società: Aristotele con espressione cruda diceva semplicemente, che l’uomo è un animale politico. Non dobbiamo tuttavia credere che la socialità sia fondata sulla corporeità o animalità: il corpo è il mezzo per cui le relazioni sociali appariscono esteriorizzate, ma la vera socialità si basa sull’anima, cioè sulla ragione e così si distingue nettamente dalle convivenze degli animali basate sull’istinto. Nelle comunità umane infatti si ha un’organizzazione della vita di molti uomini per raggiungere con mezzi comuni un fine comune sotto la guida della legittima autorità.

La società è necessaria all’uomo per esprimere e realizzare più pienamente la sua umanità: egli ha bisogno del concorso degli altri uomini per dominare le forze della natura e per sviluppare le sue capacità morali e intellettuali.

     Come ci sono delle relazioni di diritto e di dovere tra la società e i suoi membri, contemplate nella giustizia distributiva, così ci sono delle relazioni reciproche tra i membri e la società stessa contemplate nella giustizia legale. Ma mentre nella prima il bene comune è considerato indirettamente, nella seconda tutta l’attività delle singole persone viene indirizzata al bene comune. Tale ordinamento, ammonisce S. Tommaso, può avvenire in due modi. In un senso generale tutte le virtù sono ordinate al bene comune e quindi sotto questo aspetto sono identificate con la giustizia legale. Ma se si considera l’ordinamento dei singoli membri della società, che vengono inclinati al bene comune in quanto dovuto propriamente alla società stessa, si ha la giustizia legale, strettamente intesa, come specie della virtù cardinale della giustizia.

     Si è detto che S. Tommaso ha un’istintiva diffidenza verso la giustizia legale di Aristotele, per il quale gli uomini sono ordinati al conseguimento della felicità nella vita presente per mezzo della realizzazione di una società perfetta. Evidentemente egli non poteva prescindere dal punto di vista cristiano: l’uomo trascende il tempo, proiettandosi nell’eternità e realizzando il suo destino di felicità in un mondo ultraterreno. Ciò però non gli impedisce di seguire Aristotele nel subordinare le singole persone alla comunità sotto l’aspetto del bene comune, enunciando in proposito un lucido principio: « È chiaro che tutti coloro i quali si trovano a far parte di una comunità organica, vengono ad essa riferiti come parti ad un tutto. Ora la parte, in quanto tale, appartiene al tutto: di conseguenza il bene della parte deve essere subordinato al bene della totalità ». Questa poi, ossia la società, non è un’addizione o una somma delle parti o una somma dei suoi membri, ma una nuova entità, che per l’unificazione del fine comune, si distingue adeguatamente dalle singole parti. La società esprime la massima perfezione dell’umanità sotto l’aspetto del bene comune, che S. Tommaso con forte espressione proclama maggiore e più divino del bene personale. E senza alcuna difficoltà segue Aristotele nel paragonare la società ad un organismo vivo e organico. Alcuni autori, dopo il Vermeersch, fanno ampie riserve su tale confronto, quasi che ne restasse troppo diminuita l’importanza delle singole persone. Per nostro conto non abbiamo alcuna riserva da fare e riteniamo il confronto assai appropriato e significativo, pur rendendoci conto che i paragoni sono sempre imperfetti.

     S. Tommaso sapeva benissimo che l’organismo vivente è dotato di una unità fisica, mentre l’unione degli uomini in una comunità è solo morale. Tuttavia questa unione morale non è meno importante e coesiva della unione fisica, se si tiene conto che nell’uomo la spiritualità è sempre prevalente sulla corporeità.

    L’assimilazione o l’analogia della società ad un organismo vivo ha lo scopo di esaltare il bene comune al di sopra di quello delle singole persone, senza distruggere o diminuire in alcun modo l’autonomia della persona, che rimane sempre trascendente sulla società nella sua realtà ontologica e nella sua destinazione soprannaturale. Aristotele e i pensatori pagani hanno ignorato questo concetto più profondo della persona umana, di cui invece è assertore S. Tommaso sotto la guida della Rivelazione cristiana: sarebbe erroneo negare la prevalenza della società sugli individui sotto l’aspetto del bene comune, caratteristica della giustizia legale. Se tra la subordinazione e la trascendenza della persona sulla società si scopre una contraddizione, questa non può essere che apparente. Infatti la subordinazione della persona alla comunità si risolve in ultima analisi in favore della persona stessa, che si vale del necessario concorso degli altri membri della comunità per affermare più pienamente i propri valori. Nello stesso mondo degli animali la subordinazione degli individui alla vita del gruppo si risolve a vantaggio dei singoli componenti, saggiandone la resistenza e provocandone la selezione. Nessuna meraviglia che la cosa sia maggiormente vera per il mondo degli uomini. Infatti la realtà della persona non si assorbe mai totalmente nella funzione di membri della società, come sembra ritenere il collettivismo; la sua costituzione ontologica e soprannaturale impedirà sempre che possa ridursi ad una pura funzione o ad un numero senza valore: in questo senso la persona umana, in quanto partecipazione dello spirito, è fine a se stessa, fine relativo nei riguardi di Dio, assoluto nei riguardi della società a cui non è né riducibile né subordinabile.

    A pari ragione però non si può ritenere la società un semplice mezzo di affermazione dei valori personali, come sembrano ritenere i liberali, perché nella società si trovano altre persone, che sono ugualmente fine a se stesse e nell’ambito dell’assoluto, nel senso sopra indicato.

    La perfezione dell’umanità viene realizzata nelle singole persone, in modo da poter essere realizzata anche nella società e viceversa.

    La storia degli uomini può oscillare tra liberalismo e collettivismo, anche con paurosi sbandamenti, ma dovrà sempre ritornare ad un equilibrio naturale, che mostri come protagonisti e componenti della storia sia le persone singolari, sia la società, che da esse è costituita.

 

Concetto di giustizia legale

 

    Su tali premesse possiamo definire la giustizia legale come la virtù che orienta le singole persone, come membri della società a rendere ad essa tutto ciò che le è dovuto secondo le esigenze del bene comune.

    Ad un debito nei membri, in quanto tali, corrisponde un diritto esigitivo della società in quanto costituita da coloro che non possono pretendere di trovarvi solo dei vantaggi, senza accettarne le limitazioni necessarie e i sacrifici conseguenti. Questa reciprocità comporta quella dote di alterità, che è essenziale al concetto genuino della vera giustizia, basandosi sulla correlatività di dovere e di diritto. Alcuni autori continuano a sostenere che non si tratta di una alterità perfetta, ma si fa sempre più numeroso lo stuolo di coloro che ritengono tale alterità perfetta, cosa che a noi non sembra una novità, ma un ritorno alla genuina impostazione tomista che abbiamo accennato.

    Non ci sembra neppure che manchi l’altra dote essenziale della uguaglianza, non certo aritmetica, e neppure geometrica, ma di semplice proporzione.

    L’oggetto formale della giustizia legale è l’ordinamento al bene comune, non solo in quanto tutte le virtù sono in qualche modo ad esso ordinate, ma in quanto tale ordinamento viene considerato in forma specifica e propria. S. Tommaso illustra questo duplice aspetto con il parallelismo della carità: « Come la carità può dirsi una virtù generale, che ordina gli atti di tutte le altre virtù al bene divino, così la giustizia legale può ritenersi una virtù generale, che ordina gli atti di tutte le altre virtù al bene comune. Ma parimenti come la carità è pure una virtù particolare e specifica, che ordina essenzialmente i suoi atti al bene divino, come a proprio oggetto, così la giustizia legale è una virtù speciale che ordina i suoi atti al bene comune, come a proprio oggetto. In tal senso la giustizia legale risiede principalmente e quasi architettonicamente nell’autorità della società ed in via subordinata e quasi amministrativamente in tutti i sudditi, come membri della società ». Con altre parole lo stesso S. Tommaso dice pure che non si identifica la virtù dell’uomo buono con quella del buon cittadino: la prima è la giustizia legale generale, la seconda è la giustizia legale speciale, inquadrata nell’ambito della virtù cardinale della giustizia.

    La conclusione che la giustizia legale si trovi principalmente nel principe e solo subordinatamente nei sudditi non suona bene alle orecchie dei moderni. Bisogna tenere presente che S. Tommaso distingue le tre specie della giustizia, commutativa, distributiva e legale secondo il loro ordinamento al bene privato o comune. Poiché nella concezione del tempo il bene comune e l’ordinamento ad esso era di competenza esclusiva dell’autorità, logicamente la giustizia legale viene attribuita principalmente al principe. Nella concezione moderna invece anche i singoli cittadini devono sentire il loro ordinamento al bene comune e quindi nella società democratica i singoli cittadini sono soggetti e non solo termini della giustizia legale. Prendiamo l’esempio delle tasse e degli altri doveri verso lo Stato: se restringiamo la nostra considerazione alle tasse in se stesse, il dovere di versarle risiede soltanto nei singoli cittadini. Se invece si considera la determinazione delle tasse, è chiaro che essa non può essere lasciata ai singoli cittadini, ma deve essere fatta da colui che tiene le veci della società, ossia dall’autorità, secondo le diverse condizioni dei cittadini stessi, con la preoccupazione di una uguaglianza di proporziorne. In questo senso soltanto si deve intendere che la giustizia legale risiede principalmente nell’autorità.

    È vero che allora la giustizia legale si trova assai vicina a quella distributiva: in effetti, nella concezione moderna la giustizia distributiva non è più inquadrata nell’ambito della giustizia particolare o privata, insieme alla commutativa, ma nell’ambito della giustizia ordinata al bene comune, insieme alla giustizia legale.

Anche nella giustizia legale, secondo la terminologia tradizionale si distingue l’oggetto materiale remoto e quello prossimo: il primo è costituito semplicemente dal bene comune, il secondo invece dalle attività dei cittadini, in quanto orientate a raggiungere e a promuovere il bene comune.

    L’oggetto materiale remoto non può essere costituito dal benessere materiale, ma anche e soprattutto dall’insieme delle virtù umane, intellettuali e morali, non escluse quelle soprannaturali. I beni terreni non possono essere separati dal destino eterno dell’uomo. Molto opportunamente gli interventi di Leone XIII, di Pio XI e di Pio XII pongono nell’ambito del bene comune lo spirito di carità, la custodia della fede, la probità dei costumi e la santità della famiglia, ed insieme la fedeltà nei contratti, il lavoro per tutti, il giusto salario della prestazione di lavoro ecc. È pertanto assurda l’accusa fatta alla Chiesa di oltrepassare il suo mandato quando si interessa dell’aspetto materiale del bene comune, perché lo fa considerandolo il presupposto necessario del progresso spirituale.

    Nell’ambito della giustizia sociale hanno parte ugualmente i beni materiali e quelli spirituali, come nell’uomo non si può prescindere dall’anima o dal corpo.

    Le attività umane, ossia l’oggetto materiale prossimo, sia da parte dei dirigenti della società, sia da parte dei suoi membri, devono essere ordinate al bene comune, senza escludere una contro­partita, la quale resta imperniata soprattutto sui valori della persona.

    Negli stati moderni, anche non marxisti, l’importanza dei doveri imposti dalla giustizia legale si trova in forte crescendo e non è raro sentire rivolte ai cattolici in Italia accuse di poca sincerità verso lo Stato. Accuse del genere contengono forse qualche briciolo di verità e la cosa può spiegarsi con le particolari condizioni storiche nelle quali si è sviluppato lo stato unitario italiano sotto la spinta della massoneria, che ha saputo manovrare le stesse masse cattoliche, determinando o sfruttando lungamente un certo conflitto tra Stato e Chiesa. Non si può negare che anche attualmente i cattolici italiani non sono sempre così ben disposti verso il loro Stato, come i cattolici degli Stati nordici o anche semplicemente di Spagna e di Francia.

    Ma se ci mettiamo sul piano della dottrina della Chiesa, i doveri dei fedeli verso la Chiesa, società perfetta visibile, gerarchica, universale e soprannaturale non differiscono dai doveri verso lo Stato, società perfetta nell’ordine temporale, quanto alla loro ispirazione. L’Enciclica « Sapientiae christianae » di Leone XIII espone sotto il triplice aspetto della pietà, della fedeltà e dell’obbedienza tanto i doveri dei fedeli verso la Chiesa, quanto i doveri dei cittadini verso lo Stato.

    È vero dunque che la religione non indebolisce, ma piuttosto conferma e consolida i doveri verso lo Stato. In primo luogo il dovere della pietà: i cittadini devono amare la società civile e politica con i fatti e con il servizio effettivo, mettendo a sua disposizione la propria opera e i mezzi necessari per impedire il male e promuovere il bene comune. Ugualmente molteplici sono i doveri della fedeltà e le possibilità di mancare ad essi. A tutti i cittadini incombe il dovere di promuovere la pace, evitare la discordia, prevenire i delitti e le sedizioni, astenersi dal pretendere ciò che non è ad essi dovuto. In terzo luogo si deve obbedienza all’autorità e alle giuste leggi. In qualunque regime i cittadini devono attendere al compimento dei loro doveri civici e nel regime democratico essi devono pure valersi dei diritti e della libertà, di cui godono, per conservare e migliorare tale regime. Il mondo moderno è incamminato verso una unità, che potrà realizzarsi, non realizzarsi o realizzarsi malamente. Si potrebbero moltiplicare le citazioni di interventi del Papa Pio XII fin dal radiomessaggio natalizio del 1941 per invitare i cattolici a prestare loro leale collaborazione, con sincerità di propositi e di azione, per instaurare un regime di pace nei singoli popoli e in tutto il mondo. La pace è l’aspirazione di tutti gli uomini e di tutti i popoli, la base più necessaria del bene comune. E l’azione dei cattolici deve mirare oltre che a dare un aspetto religioso e morale al nuovo edificio dell’unificazione del genere umano, alla costruzione stessa dell’edificio dalle basi, per non trovarsi dinanzi alla triste e possibile eventualità di un lavoro impossibile nel tentativo di dare una patina cristiana ad un mondo unificato su basi e principi alieni dallo spirito del Vangelo.

    Si tratta di problemi immani, per la soluzione dei quali Pio XII ha rivendicato saggiamente la competenza della Chiesa nel dare direttive di indole morale e religiosa. Tali direttive però resterebbero lettera morta, se i cattolici non si preoccupassero seriamente di realizzarle, trascrivendole nella realtà concreta della vita sociale per mezzo delle loro organizzazioni sociali.  

 

   


  www.maranatha.it

SESTRI LEVANTE (Genoa) Italy