L'Arcivescovo Ferdinando Lambruschini  - Scritti

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Ferdinando Lambruschini

La Giustizia virtù non facile

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CAPITOLO III

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LA GIUSTIZIA, VIRTU' MORALE
La giustizia nell’Antico Testamento
La giustizia nel Nuovo Testamento
La giustizia nella prima riflessione cristiana
Gli scolastici e la giustizia
Il diritto come base della giustizia

 

CAPITOLO III

 

LA GIUSTIZIA, VIRTU’ MORALE

 

Una delle più grandi difficoltà dei tempi nostri per la reciproca comprensione degli uomini è rappresentata dalle parole, che cambiano significato sulla bocca degli uni e degli altri.

Difficoltà del genere si hanno nell’interpretazione della “giustizia”, che si trova sulle labbra di tutti, non soltanto con piccole differenze di significato, che i francesi chiamano « nuances », ma con significati addirittura opposti, tanto che ci si può chiedere se è possibile un concetto di giustizia comune a tutti i sistemi e a tutti gli uomini.

E la domanda cui vorrebbe tentare una risposta il nostro terzo capitolo sulla giustizia.

 

La giustizia nell’Antico Testamento

 

Nella Sacra Scrittura la giustizia rappresenta l’insieme delle relazioni tra l’uomo e Dio: nei primi Libri, la giustizia viene presentata come un giudizio di Dio, di vendetta contro i nemici di Israele e di favore verso il popolo eletto, considerato come un blocco unico, sotto il segno della predestinazione.

Nel libri dei Profeti, già prima dell’esilio, si ha un progresso grandioso, in quanto la discriminazione del giudizio di vendetta o di favore viene fatta indipendentemente dalla appartenenza al popolo eletto o all’idolatria, in funzione della bontà e della malizia dell’agire umano. Si giunge così a indicazioni più obbiettive ed universali, superando criteri empiristici di favoritismi e odiosità aprioristiche.

Questo progresso non deve scandalizzare nessuno, perché, secondo un criterio già indicato da Origene, Dio si adatta nel linguaggio agli uomini, considerati eterni bambini. Come un padre per farsi capire si adatta al linguaggio imperfetto del bambino di due anni o come la madre inventa addirittura le più strane parole per farsi comprendere, il Signore apre la strada all’inserimento nella storia del popolo eletto della giustizia forense, già sufficientemente sviluppata tra i popoli etnici: così nei libri di Giobbe e nei Sapienziali si tende a vedere nella giustizia più direttamente il regolamento dei rapporti tra gli uomini. Si deve tuttavia ritenere che, per gli ebrei, la giustizia non si può ridurre pienamente ad una categoria puramente giuridica per regolare i rapporti tra gli uomini, indipendentemente dal loro ordinamento divino: in altre parole la giustizia si compone naturalmente con la religione, che comprende anche la categoria morale (cfr. le conclusioni di A. Descamps in « Dictionnaire de la Bible, Supplement, IV, a. Justice » ).

 

La giustizia nel Nuovo Testamento

 

Nessuno si meraviglierà se la giustizia del Nuovo Testamento risente di questa evoluzione antica. Nella Lettera ai Romani S. Paolo prende la giustizia come sinonimo della grazia, data agli uomini per poter acquistare la vita eterna. Lasciamo da parte questa concezione, che ci farebbe entrare in un terreno di discussioni teologiche sulla giustificazione, estranee al presente studio. Fissiamo invece l’attenzione dei lettori su alcuni testi caratteristici di S. Matteo, il più vicino tra gli Evangelisti alla mentalità ebraica. I testi che indicheremo si trovano tutti nel Discorso della Montagna. Nella quarta beatitudine si proclamano beati coloro che hanno fame e sete della giustizia, perché saranno satollati e nell’ottava si assegna il regno dei cieli a coloro che soffrono persecuzioni per la giustizia. Più oltre Gesù ammonisce i discepoli che se la loro giustizia non sarà più grande di quella dei farisei, non potranno entrare nel regno dei cieli e aggiunge che se faranno la loro giustizia per essere ammirati dagli uomini, non avranno alcuna ricompensa dal Padre celeste: cerchino dunque anzitutto il regno di Dio e la sua giustizia: tutto il resto verrà loro dato in soprappiù.

Il senso dei testi indicati è ovvio: la giustizia è sinonimo della santità di vita e comporta le opere della santità: viene dunque messa in diretto rapporto con Dio. Tale concetto fondamentale di giustizia, qualora si prescinda dal riferimento immediato a Dio, non è lontano da quello degli stoici, che pongono la giustizia semplicemente nella rettitudine della vita. Basti richiamare il noto testo di Cicerone, che nel primo libro dei Doveri fissa i due compiti fondamentali della giustizia nel non nuocere a nessuno e nel considerare come proprie soltanto le cose private, non quelle comuni.

 

La giustizia nella prima riflessione cristiana

 

Gli stoici consideravano le quattro virtù cardinali, come quattro parti dell’onesto: la giustizia, come le altre tre virtù cardinali, è dunque subordinata ad una concezione oggettivistica. Sarà compito dei Padri della Chiesa sviluppare gli elementi soggettivi portati dal Cristianesimo.

S. Ambrogio, che pur scrive i tre libri « Dei doveri degli ecclesiastici » sulla falsariga dell’opera corrispondente di Cicerone, verso il quale si mostra sempre rispettoso, reagisce con forza alla definizione ciceroniana della giustizia, rifiutandone entrambi gli aspetti sopra indicati. In particolare Cicerone riteneva armonizzabile con la giustizia il rendere male per male. Ambrogio sull’esempio di Cristo dirà che non si deve mai far male a nessuno: chi è giusto non deve mai fare del male: la categorica affermazione ha una grande importanza, se si considera che S. Ambrogio in fondo si mantiene nell’ambito degli schemi dello stoicismo. Con S. Agostino (cfr. soprattutto l’ « Enchiridion ad Laurentium », ossia « La fede, la speranza e la carità ») la giustizia viene posta di colpo sopra un piano Superiore, in quanto viene subordinata completamente alla carità e quindi maggiormente interiorizzata.

Senza dilungarci su i vari passaggi attraverso i quali è passato il concetto di giustizia, possiamo limitarci a notare che i Padri, riflettendo sul pensiero del Vangelo a confronto con quello dei pensatori pagani, non potevano non scoprire il significato più personale e soggettivo della giustizia e delle virtù cardinali; esse non possono più essere considerate soltanto come divisioni e aspetti oggettivi dell’onesto, ma piuttosto come qualità, che guidano l’uomo nell’agire moralmente.

Del resto l’aggettivo « giusto » (iustus), che si forma proprio dalla radice « ius » (diritto), già nella tradizione greco-romana si collega direttamente all’aspetto soggettivo della giustizia.

I due aspetti fondamentali, oggettivo e soggettivo della giustizia, si trovano intimamente connessi nella classica definizione di Ulpiano, ancora oggi considerata universalmente valida: « volontà ferma e perpetua di dare a ciascuno ciò che gli è dovuto, come suo diritto ».

 

Gli scolastici e la giustizia

 

Anche S. Tommaso ha accolto la definizione di Ulpiano, ma insieme presenta una bella sintesi di tutti gli elementi, che provengono sia dalla Bibbia che dai pensatori pagani. Non tutti questi elementi sono riducibili alla definizione di Ulpiano, che presenta la giustizia su un piano bene determinato e specifico. S. Tommaso presenta a nostro avviso una distinzione fondamentale, altamente chiarificatrice. Vicino alla giustizia come virtù cardinale, si trova la giustizia come orientamento generale di tutte le attività morali al bene comune. « E secondo questo aspetto — scrive nella S. Th. II-II, q. 58, a. 5 — che gli atti di tutte le virtù possono appartenere alla giustizia, in quanto essa orienta l’uomo al bene comune » .  Tale giustizia generale si identifica con la santità di vita degli ebrei, secondo la quale S. Giuseppe è definito dal Vangelo « vir iustus » (uomo giusto) e con la rettitudine morale degli stoici. Ma in quanto la giustizia ordina l’uomo a rendere a ciascuno ciò che gli è dovuto, secondo le tre note specie di giustizia legale, distributiva e commutativa, ci poniamo nei confini della giustizia come virtù cardinale.

S. Tommaso illustra la distinzione con l’esempio della carità, che in quanto virtù generale ordina gli atti di tutte le altre virtù a Dio, identificandosi con esse e quindi anche con la giustizia, ma si differenzia dalla giustizia, in quanto ordina a Dio la vita umana, come a termine ed oggetto proprio.

 

Il diritto come base della giustizia

 

Riservando ad altri capitoli l’esame più approfondito delle tre specie di giustizia e del bene comune, attiriamo l’attenzione dei lettori sul diritto, come fondamento della giustizia, scusandoci di dover ricorrere ad espressioni un pò scolastiche, che hanno il vantaggio della chiarezza.

Considerando decisamente il diritto come oggetto proprio della giustizia, S. Tommaso si pone in continuità della tradizione greco-romana attraverso i teologi e i canonisti e pur dando evidenza ai lati oggettivi della giustizia, come virtù morale che perfeziona l’uomo, ne lega le sorti ad un ordine oggettivo, creato da Dio e non posto dall’uomo.

Nella letteratura giuridica dei nostri tempi, il diritto non è più considerato come realtà, ma semplicemente ridotto ad una nozione, che trova la sua ragione di essere in se stessa, oppure viene derivata dalla persona nella sua esistenza empirica o dallo Stato, dalla classe, dalla società, ecc. Il positivismo giuridico nelle più vane espressioni è sempre dominante nella cultura moderna, anche se Autori di grande nome come il Del Vecchio (si vedano le sue « Lezioni di filosofia del diritto ») si mostrano inclini a considerare il diritto come una categoria oggettiva.

Il positivismo giuridico rende equivoca la stessa nozione di giustizia: per ovviare a tali inconvenienti è necessario difendere il valore oggettivo del diritto, che appartiene a quelle nozioni primordiali, delle quali tutti sappiamo che cosa sono, nessuno sa dare una vera definizione.

Nulla ci vieta naturalmente di considerane il diritto soggettivamente, come facoltà morale di fare, di esigere, di omettere qualche cosa a proprio esclusivo vantaggio: ma si deve sempre premettere l’accezione primitiva e oggettiva di ciò che è dovuto. Osserva profondamente S. Tommaso (ivi, q. 57, a. 1, ad 1): come la medicina fu dapprima applicata a significare il rimedio che si dà al malato, e solo più tardi l’arte di guarire, così il nome di diritto fu dapprima usato per significare ciò che è giusto e soltanto dopo esteso a significare la scienza giuridica o il tribunale.

Non si prenda l’osservazione di S. Tommaso come superficiale, semplicemente perché non viene tratta da schemi aprioristici: si tratta piuttosto di una analisi profonda, basata direttamente sullo studio e l’osservazione delle cose.

Gli scolastici non ignoravano certo l’esistenza del diritto positivo, divino e umano. derivante cioè dalla volontà di Dio e degli uomini, ma prima di esso e come suo fondamento, ammettevano quel diritto naturale, di cui ha tanto parlato in innumerevoli e altissimi interventi il Papa Pio XII (cfr. tra gli altri, il Radiomessaggio natalizio del 1942).

Il fondamento che rende possibile la relazione giuridica da persona a persona, da società a persona e viceversa, è proprio il diritto oggettivo, in quanto la stessa cosa rapportata ad un termine è ciò che è dovuto, rapportata all’altro termine, ne costituisce il diritto: i termini della correlazione si attraggono o si respingono secondo quelle doti di alterità e di uguaglianza, che sono caratteristiche della giustizia.

Riferendoci a S. Tommaso e agli Scolastici non intendiamo certo bloccare la storia del pensiero umano e fermarla nel tempo. Siamo tutti testimoni del corso accelerato preso dal cammino degli uomini negli ultimi due secoli.

Non si vuole neppure affermare che il punto di vista di S. Tommaso sia l’unica via di progresso e di sicurezza.

Nell’ambito particolare del diritto, S. Tommaso si tiene piuttosto legato a Ulpiano, che vede in esso la partecipazione di una legge universale, comune agli uomini e agli animali, mentre l’indirizzo di S. Isidoro, che interpreta il diritto naturale secondo la specifica natura dell’uomo, escludendone gli animali, può fornire indicazioni più alte. Ciò ha portato a delle ambiguità circa il diritto delle genti, che, per gli Scolastici, è rimasto sospeso a metà strada tra il diritto naturale e positivo.

E però comune a S. Isidoro e a S. Tommaso che il diritto naturale per la sua stessa consistenza è proporzionato e adeguato secondo un’uguaglianza fondamentale a fondare i rapporti tra gli uomini. E questo rappresenta la base più vera per una definizione della giustizia, comune a tutti gli uomini e a tutti i sistemi di pensiero e di vita.

 

 


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