L'Arcivescovo Ferdinando Lambruschini  - Scritti

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Ferdinando Lambruschini

La Giustizia virtù non facile

Introduzione Indicazioni bibliografiche Indice Generale
Cap. I II III IV V VI VII VIII IX X XI XII

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CAPITOLO XII

 

LA GIUSTIZIA NEL QUADRO DELLE VIRTU' CRISTIANE
I precedenti storici
Un ripensamento
Giustizia e religione
Da S. Ambrogio a S. Agostino
La sintesi tomista
Religione e giustizia oggi  

  

CAPITOLO XII

 

LA GIUSTIZIA NEL QUADRO DELLE

 

VIRTU’ CRISTIANE

 

I precedenti storici

 

Il   processo per inserire la virtù della giustizia nel quadro delle virtù cristiane non è stato facile. Non è esatto dire che il cristianesimo ha mutuato le quattro virtù cardinali, tra le quali la giustizia, dalla tradizione stoica: si può meglio supporre che stoicismo e cristianesimo facciano ugualmente capo ad una comune origine, cioè alla natura umana e alla storia degli uomini. S. Ambrogio, che tra i Padri è quello che si conforma maggiormente alla tradizione greco-latina sulle quattro principali virtù, da lui chiamate cardinali per la prima volta, le fa discendere, con un simbolismo audace, da Cristo, considerato come la sorgente originaria dei quattro fiumi del paradiso terrestre, nei quali sono figurate dette virtù.

S. Agostino invece nelle Retractationes, sul finire della vita, si rimproverò di aver esaltato i filosofi platonici, quasi facendone dei cristiani, previe poche mutazioni di concetti e di parole e non si peritò di chiamare vizi le cosiddette virtù dei pagani. Egli aveva sempre professato una tesi che oggi appare troppo severa; sia partendo dal presupposto teologico nell' Enchiridion de fide, spe et cantate sia dai principi filosofici nel primo libro De doctrina christiana

Oggi siamo più facili ad ammettere che negli uomini lontani da Cristo e dal Vangelo si possono trovare dei virtuosi e giusti. Ma qual è la consistenza della giustizia nel cristiano? S. Tommaso segue una via più lineare: confuta anzitutto la teoria dei platonici, che ritenevano innate le virtù negli uomini, ammettendo invece con Aristotele nell’uomo soltanto una certa attitudine alle virtù, non il possesso perfetto di esse. Le virtù sono innate in noi solo secondo una attitudine ed un principio, non secondo la perfezione della loro consistenza, se si eccettuano le virtù teologiche che ci vengono infuse direttamente dall’esterno, cioè da Dio.

Quanto alle virtù morali S. Tommaso ne ammette due serie nel cristiano, quelle naturali o acquisite e quelle infuse soprannaturalmente: l’ordine naturale è tanto irriducibile al soprannaturale e viceversa, che di ognuna virtù se ne hanno due. Ne conclude infatti che le singole virtù cardinali infuse differiscono specificamente dalle virtù acquisite.

È vero che Scoto riteneva inutile la duplice serie delle virtù morali infuse ed acquisite, ritenendo che le virtù morali acquisite potevano raggiungere un valore nell’ordine soprannaturale pratico per mezzo della carità e nell’ordine intenzionale per mezzo della fede, ma la linea tomistica prevalse nettamente, tanto che dopo il Concilio di Trento l’opinione di Scoto si può dire abbandonata. Essa sembra implicare una difficoltà insolubile: come può un atto di giustizia naturale diventare intrinsecamente soprannaturale per un semplice riferimento alla carità e alla fede, virtù teologiche che non modificano l’intima struttura naturale, in se stessa insufficiente ad entrare nell’ordine soprannaturale?

 

Un ripensamento

 

Si deve tuttavia ammettere che non mancano difficoltà neppure nel punto di vista tomista: una duplice serie di virtù morali identiche ed insieme diverse in uno stesso uomo potrebbe apparire ridicola e pericolosa per l’unità della moralità.

Queste difficoltà spingono alcuni autori a ripiegare sulla spiegazione scotistica. Non si devono infatti moltiplicare gli enti senza una necessità vera, insegnano i filosofi e i teologi. Ora mettere nel cristiano una giustizia acquisita e una giustizia infusa è contrario a questo principio. Si vorrebbe tornare a Scoto, che ritiene sufficiente la carità e la fede a soprannaturalizzare l’atto naturale della giustizia.

Dom Lottin, assertore di questo ripensamento (Au coeur de la morale chrètienne, Desclée, 1957) ne porta due esempi. Possiamo osservare la temperanza nell’ordine naturale per ragioni di salute e di igiene; nell’ordine soprannaturale osserviamo la temperanza per avvicinarci meglio a Gesù Cristo, che ha digiunato nel deserto. Siamo membra di Cristo e S. Paolo ci ammonisce a non diventare membra di meretrici. Parimenti possiamo osservare la giustizia nell’ordine naturale per ragioni imposte dalla convivenza sociale; nell’ordine soprannaturale osserviamo la giustizia perché nel prossimo vediamo lo stesso Cristo, Nostro Signore. È buona la massima di non fare agli altri ciò che non vorremmo fosse fatto a noi stessi; è più alto l’insegnamento di Gesù riportato da S. Matteo: « In verità vi dico, qualunque cosa avrete fatto ad uno di questi miei fratelli più piccoli, lo avrete fatto a me ».

Da questo punto di vista si può realizzare un ideale meraviglioso: la giustizia, che insieme alle altre virtù cardinali, rappresenta una vetta, un termine, un punto di arrivo per i pagani, diventa un semplice punto di partenza, un principio di cammino e di ascesa per i cristiani, fino all’amore di Dio. Nell’ordine soprannaturale dell’amore e della fede non si ammette nessuna negatività, nessuna astrazione, nessun formalismo. Non è sufficiente la retorica quando si parla di virtù cristiane. Un pagano può fare uno studio bellissimo, delle virtù senza scoprirne il fondamento autonomo, profondamente umano e legato a Dio; anche il cristiano che sa conciliare teoricamente l’interiorità umana con la dipendenza da Dio, può diventare incapace di trascrivere queste conclusioni nella vita pratica. S. Francesco di Sales parla di grandi teologi che hanno saputo dire cose bellissime delle virtù, senza praticarle, mentre povere donne, prive di cultura, hanno vissuto una vita santa, praticando le virtù, di cui non sapevano discorrere.

I cristiani devono soprattutto aspirare alla imitazione di Cristo, nel quale si trovano tutte le virtù in modo perfetto e concreto. Non si tratta solo di una esemplarità esteriore. Egli sapeva benissimo che con le nostre forze naturali non avremmo saputo elevarci alla perfezione di una vita pienamente morale. E ci ha dato e ci dà abbondantemente il suo aiuto, facendosi egli stesso principio della nostra vita morale e spirituale, adattandoci concretamente alla vocazione e alle realtà sopranaturali.

E come non potremo pervenire alla pienezza della giustizia e della vita morale senza lo spirito di Cristo, del quale dobbiamo rivestirci, così non possiamo credere di poterci rivestire del suo spirito disprezzando o anche solo prescindendo dalle virtù morali, che costituiscono la base dell’onestà naturale.

È bene discutere di onestà naturale e di onestà soprannaturale, per cercarne la più alta ispirazione e per evitare errori nella dottrina.

È assai importante non abbandonarsi a sottigliezze e cavilli, che compromettendo l’uno o l’altro aspetto della moralità, rompono l’unità della vita morale, questa sintesi vitale, che si deve presupporre allo studio dei teologi, alla vita dei fedeli e agli stati religiosi, sotto la guida della Chiesa, custode della fede e dei costumi.

I cristiani la chiederanno a Dio con la preghiera, ed insieme collaboreranno all’azione divina, con la generosità dei propositi e con l’impegno della vita. E questo programma morale deve essere perseguito non solo nell’ambito della giustizia commutativa, ma anche in quello della vita sociale. Infatti il cristiano va sempre considerato nella sua totalità, ordinato alla vita sociale, civile nell’ordine naturale e religiosa nell’ordine soprannaturale. Alla prima ci ordina la ragione, alla seconda ci orienta la rivelazione. Ed è lo stesso uomo, il cristiano, che appartiene alle due società, lo Stato e la Chiesa, verso le quali assume dei doveri da rendere.

 

Giustizia e religione

 

La religione è considerata da S. Tommaso e da una tradizione teologica pressoché unanime nell’ambito della giustizia, in quanto inclina l’uomo a rendere a Dio il culto che gli è dovuto. Tuttavia nella religione non si realizza la perfetta uguaglianza. Si legge nella q. 80 della Secunda-Secundae: « tutto ciò che dall’uomo è reso a Dio gli è dovuto; non però secondo una perfetta uguaglianza, perché mai l’uomo potrà rendere a Dio tutto ciò che gli è dovuto, come cantiamo nel Salmo 95: che cosa renderò al Signore per tutto ciò che mi ha donato? »

L’impostazione tomista è difesa con forza dai teologi domenicani come la più adatta per stabilire i contatti tra la religione e la giustizia, in modo che la moralità umana ne risulti rafforzata e unificata.

S. Tommaso si è sforzato di coordinare la ragione e la rivelazione nella vita morale. Sono interessanti a questo proposito le conclusioni dello studio Caritas et ratio. Etude sur le double principe de la vie morale d’après St. Thomas d’Aquin, Nijmwegen, 1956 del padre C. A. J. Ouwerkerk. Vi si trovano tre capitoli: nel primo si pone la ragione come fondamento della vita morale razionale secondo il quadro delle quattro virtù cardinali, cosa che si riscontra anche nello stoicismo. Nel secondo capitolo tutta la vita morale del cristiano viene posta sotto l’ispirazione della carità e quindi nell’ordine soprannaturale. La carità viene considerata parallelamente con la ragione e la vita morale ne rimane sublimata: i cristiani non possono agire moralmente, se non agiscono sotto l’ispirazione della carità.

Nel terzo capitolo viene istituito un confronto tra questi due principii dai quali dipende la vita morale dei cristiani. La ragione, con il corteo delle quattro virtù cardinali, e la carità non sono due regole indipendenti, ma subordinate con il primato della carità. La cosa è possibile perché la rivelazione completa la ragione che, elevata dalla fede nell’ordine intenzionale, resta subordinata alla carità come criterio e norma della moralità.

 

Da S. Ambrogio a S. Agostino

 

Si può dire che S. Tommaso concili i due punti di vista che abbiamo accennato in S. Ambrogio e in S. Agostino. La linea del primo è dettata da prospettive pastorali, più che da preoccupazioni speculative e di metodo. All’indomani della pacificazione dell’impero romano nel segno del cristianesimo si erano avute conversioni in massa dei pagani, che non rinunziavano completamente agli schemi della loro vita morale. S. Ambrogio ritenne bene ricomporre gli ideali stoici nel cristianesimo ed il suo tentativo fu variamente interpretato. Alcuni fanno della sua opera Dei doveri degli ecclesiastici il primo trattato di teologia morale: altri invece lo rendono responsabile di aver avviato il processo della riduzione della teologia morale al livello della morale naturale degli stoici.

Entrambe le interpretazioni ci sembrano esagerate. Le prospettive teologiche di S. Ambrogio sono troppo limitate e sommarie per consentirne una eccessiva esaltazione: ci sembra però ugualmente eccessiva l’accusa di avvilimento della teologia morale. Non condividiamo pertanto il severo giudizio di Th. Deman, O. P., il quale nel saggio storico Aux origines de la théologie morale accusa S. Ambrogio di non essersi accorto che la dottrina morale degli stoici, lungi dall’entrare facilmente nell’alveo del cristianesimo, rappresenta piuttosto un ostacolo ad esso. Non si può far torto ad Ambrogio di non aver avuto il genio di S. Agostino, che nell’Enchiridion dà alla morale cristiana un’impostazione veramente teologica facendola dipendere dalle virtù teologali della fede, della speranza e della carità. Infatti la fede e la speranza, ossia il dogma e la morale trovano il loro coronamento nella carità, ultima in linea di fatto, prima in linea di ispirazione.

La trasposizione della vita morale sul piano della vita teologale non manca di arditezza, ma lo stesso S. Agostino non poteva dimenticare che la riflessione dei filosofi pagani si era applicata con un certo successo ai costumi. Non per nulla il termine morale, come equivalente all’etica dei greci, si deve a Cicerone. S. Agostino con volo audace trasferisce sul piano di Cristo la scienza tripartita dei pensatori pagani, legando la logica all’insegnamento, la fisica alla risurrezione e la morale all’imitazione di Cristo. Egli giunge persino a presentare l’Incarnazione come la continuazione della missione della filosofia.

Il compito di trasferire l’etica naturale in quella cristiana gli è facilitato dal fatto che l’etica stoica è dominata dall’idea di beatitudine, secondo l’identificazione classica della vita moralmente onesta con la vita beata. S. Agostino, proseguendo il processo, identifica la beatitudine con Dio stesso, superando il relativismo implicito nel pensiero filosofico, considerato come fine a se stesso.

Infatti nessun bene può rendere beati se non a condizione di non poter essere perduto. Questa caratteristica si trova solo nel bene divino. Inoltre la saggezza dei filosofi viene assimilata alla sapienza della rivelazione, che nel cristianesimo si identifica con il Figlio di Dio. La formula stoica, che presenta l’ideale morale nel seguire la natura razionale, viene completata dicendo che l’uomo deve seguire Dio attraverso l’imitazione di Cristo. Queste conclusioni del trattato « De moribus Ecclesiae », pur partendo da premesse filosofiche, non sono lontane da quelle dell’Enchiridion: ciò vuoi dire che tra teologia e filosofia morale si ha una soluzione di continuità, che ne consente una organizzazione sistematica e unitaria. La felicità viene ricondotta alla carità, cui non portano pregiudizio alcuno le quattro virtù cardinali a patto che esse non siano solo sulle labbra, ma anche nel cuore. Se — argomenta S. Agostino — la virtù conduce alla vita beata, essa non è altro che una partecipazione dell’amore di Dio. La temperanza è l’amore di Dio che ci spinge a conservarci nell’integrità della castità; la forza è l’amore che ci spinge a sopportare facilmente tutti i disagi per il Signore: la giustizia è l’amore che volendo bene servire il Signore, rende più facile il dominio delle cose, che devono obbedire all’uomo: la prudenza è l’amore che ci fa discernere ciò che avvicina a Dio gli uomini da ciò che li allontana.

Le argomentazioni di S. Agostino per la riduzione delle diverse virtù cardinali alla carità abbondano di elementi simbolici.

Per quanto riguarda la giustizia, più che il rapporto degli uomini tra loro e con la società S. Agostino vi scorge un rapporto di ordine, che implica la piena sottomissione dell’uomo a Dio, sommo bene, somma sapienza e somma pace e il dominio delle cose in parte già conquistato ed in parte ancora da realizzarsi dall’uomo. Non si può dunque ritenere sufficientemente superata nella sintesi agostiniana la opposizione tra la carità, che ordina anche le cose degli uomini, in quanto sono di Dio, e la giustizia, che ordina le cose del mondo, in quanto mondane, anche se trattate dal cristiano.

 

La sintesi tomista

 

S. Tommaso che opera una sintesi gigantesca, ancora e sempre attuale tra la filosofia aristotelica e la teologia agostiniana, si riferisce ampiamente a Cicerone e a S. Ambrogio nella trattazione delle virtù cardinali e della giustizia. Egli non ritiene necessario e neppure opportuno respingere il punto di vista della tradizione stoica. Onde qualcuno ha creduto di poter rivolgere anche a lui, sebbene un pò larvatamente, l’accusa di aver ridotto la morale del cristiano a quella dello stoico. A torto però, secondo il nostro modesto giudizio, perché egli mantiene al primo piano l’ispirazione teologica. Se accetta il punto di vista di Cicerone e di S. Ambrogio, specialmente nell’ambito della giustizia, lo fa a ragion veduta. La direzione della carità non gli appare sufficiente per l’inquadramento della giustizia nelle virtù cristiane, qualora la giustizia si intenda nel senso specifico di virtù che presiede alle relazioni tra gli uomini. Il precetto dell’amore del prossimo, risolto da Gesù Cristo medesimo nell’amore di Dio, può dare un colorito particolare alle relazioni umane; non può sostituire il criterio obbiettivo della giustizia. Anche qui si deve ritenere che l’ordine soprannaturale non distrugge, ma convalida l’ordine naturale. Sotto l’aspetto della giustizia la sintesi agostiniana, pur presentandosi con un incanto di formulazioni, risulta manchevole nel rigore logico.

S. Tommaso cerca e trova un’altra via, meno brillante, ma più ferrea nel confronto tra religione e giustizia e pone decisamente la religione nell’ambito della giustizia. Apparentemente si ha un rovesciamento della posizione agostiniana, che si era sforzato di inquadrare la giustizia nella religione rivelata del cristianesimo. In realtà S. Tommaso, pur considerando la carità come la madre e la regina di tutte le virtù del cristiano, non escluse quelle morali cardinali, conserva l’ordine esteriore della tradizione filosofica di Cicerone e di Aristotele, trovando il valore apologetico della tendenza naturale dell’uomo alla religiosità.

 

Religione e giustizia oggi

 

Nei moralisti moderni si fa sempre più predominante l’aspetto soprannaturale della moralità. La religione tende sempre più ad evadere dagli schemi ristretti della giustizia e viene intimamente legata alle virtù teologali nella realtà concreta della vita cristiana.

I moralisti dell’ordine domenicano rimangono fedeli al metodo di esporre le tesi sulla religione nel quadro della giustizia. Moralisti di altre tendenze trattano della religione immediatamente dopo le virtù teologali e prima di quelle cardinali, indipendentemente dalla virtù della giustizia. Siamo convinti che non si possa guardare alla sintesi tomista come ad un monumento statico da conservare intatto con qualche semplice ripulitura dalla polvere accumulata dai secoli, ma come ad un monumento grandioso ed incompleto, alla cui costruzione sono chiamati, a collaborare gli uomini di ogni tempo.

Oggi si tende a distinguere la religione come virtù generale, che comprende sotto di sé sia la vita teologale, sia la vita morale e come virtù specifica, che si inquadra nell’ambito della giustizia, in quanto questa è una virtù cardinale.

È vero che S. Tommaso sembra escludere che vi possa essere una virtù generale di religione: tuttavia ammette nella religione una duplice serie di atti, alcuni propri e immediati, come adorare Dio, compiere sacrifici ecc., altri attraverso le virtù, che si trovano sotto il suo impero.

Si può pertanto ritenere senza allontanarsi dal tomismo, che sotto il primo aspetto la religione rientra rigorosamente nell’ambito della giustizia, mentre sotto il secondo aspetto comanda e presiede a tutta la vita morale del cristiano.

Dom Lottin ha scritto un interessante articolo nelle Ephemerides Theologicae Lovanienses su « La définition classique de la religion », che non è piaciuto ai teologi dell’ordine domenicano in genere. Pensiamo che non si debba ritenere usurpata la fama tomista, che il Lottin si attribuisce anche in questa determinata questione.

Sottoscriviamo volentieri alcune osservazioni del Lottin, quando lamenta una sproporzione tra il grande influsso della religione in tutta la vita morale dell’uomo e il piccolo spazio che le è riservato nei trattati tradizionali nell’ambito della giustizia. La religione nobilita la vita ed esprime pienamente la moralità, perché mette direttamente in contatto con Dio, che è l’autore della moralità. Se la religione non può essere considerata come una quarta virtù teologale, perché non ha come oggetto direttamente Dio, mettendo gli uomini in contatto con Dio attraverso il culto, possiamo considerarla come una virtù di coesione tra le virtù teologali e le virtù morali, pur conservandone l’inquadramento specifico nell’ambito della virtù cardinale della giustizia. Lo Haering nel volume La loi du Christ (vol. I, p. 143) fa un buon tentativo di illustrare i rapporti tra la religione e le virtù morali. Presupposto che le virtù teologali, per sé sufficientemente significate in un dialogo semplice e diretto con Dio, in concreto esigono una concordanza con la vita morale dei cristiani, ritiene di trovare la mediazione di tale concordanza proprio nella religione. Rifiutando la separazione kantiana della cosiddetta moralità pura dalla religione, separazione soggiacente alle varie formulazioni umanistiche odierne e diventata assoluta nel marxismo e nell’esistenzialismo ateo, accettiamo una distinzione tra religione e virtù cardinali, non una separazione, che dà ansa alla moralità laicista, areligiosa e antireligiosa. Non neghiamo un valore morale alle leggi umane, a patto che queste si trovino fondate su un’etica obbiettiva e naturale legata in ultima analisi alla ragione divina.

    O non si ha alcuna moralità o questa deve essere fondata in Dio. Il compito di spiegare la moralità in quanto viene da Dio e a Dio conduce spetta proprio alla religione.

    Tutti questi compiti sono propri della religione intesa in un senso più generale; in quanto è una virtù speciale, che porta l’uomo a rendere a Dio il culto dovuto, entra nella classificazione tradizionale della giustizia. In questo senso lo stesso S. Tommaso afferma che la religione è una virtù più vicina a Dio che tutte le altre virtù morali e quindi preminente nei confronti di esse, in quanto le dirige tutte all’onore di Dio.

    E quando parliamo di rapporti della giustizia con la religione non limitiamo la nostra considerazione alla giustizia commutativa, ma guardiamo anche a quella distributiva e legale. Ciò pone dei problemi che siamo ben lungi dal pretendere di aver risolto o anche solo impostato compiutamente.

    Anche sotto questo aspetto la giustizia rimane una virtù difficile.

    Ci è sufficiente aver indicato quali ampi orizzonti si dischiudono alla riflessione cristiana sui problemi del mondo contemporaneo, centrato sulla realizzazione della giustizia sociale, e conseguentemente quali possibilità si aprono all’azione dei cristiani per realizzarne le conclusioni.

    Pio XII ha tenuto nel settembre 1956 un discorso ad un gruppo di economisti circa i fattori umani e morali dell’economia, sul quale non sono mancati commenti, che avrebbero voluto essere spiritosi. Da un pilota si esige la scienza della meccanica e non il catechismo; da un medico le scienze biologiche e non la teologia; da un capitano l’arte militare e non la conoscenza dei testi pontificali; perché si vorrebbe imporre questo bagaglio di conoscenze agli economisti? Gli esempi portati sono dei sofismi banali, che non meritano una risposta e l’interrogativo parte da un pregiudizio inammissibile, che cioè la scienza economica e la morale si sviluppino su linee del tutto indipendenti. Altro è studiare astrattamente le leggi economiche, altro è studiarle in rapporto ai fatti umani.

Nelle profondità della natura umana sono scritte delle leggi morali, di cui qualunque scienza deve tenere il debito conto. Nella considerazione dei vari fattori che presiedono alla socialità, di cui sono espressione l’economia, come la politica, non va dimenticato il fattore più importante, quello morale, ossia umano. S. Tommaso con somma chiarezza ha distinto le tre parti della morale: la prima studia gli atti umani sotto l’aspetto personale (monastica); la seconda studia gli atti umani del gruppo familiare (domestica); la terza studia gli atti umani, ossia il comportamento umano, nella società civile (politica). Pio XII giustamente critica gli economisti del secolo scorso, che basandosi sulle realtà fisiche e chimiche hanno trascurato l’elemento essenziale dell’umanità, cadendo in contraddizioni paurose. Non si possono considerare i fatti sociali come appartenenti ad una fisica sociale, ma piuttosto come una esplicazione ed una amplificazione dell’umanità. Siamo sul piano della giustizia sociale e anche questa, come qualunque espressione di moralità, non può mai prescindere dalla natura umana e dalla ragione divina.

 


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